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CAPITOLO I: La Responsabilità Sociale d’Impresa come
nuovo paradigma di sviluppo
1.1 I presupposti teorici della RSI
Negli ultimi anni, in Italia come nel resto dei paesi industrializzati, si è assistito ad
una crescita esponenziale di convegni e pubblicazioni sul tema della Responsabilità
Sociale d’Impresa (RSI)
1
. Da oggetto di attenzione di gruppi minoritari, come i
docenti universitari, gli attivisti delle ONG ed alcuni imprenditori “illuminati”, la
RSI è diventata argomento di dibattito pubblico ed è entrata nell’agenda delle
istituzioni di governo, prima comunitarie e poi nazionali. Contemporaneamente è
cresciuto il rischio che il tema sia affrontato in maniera superficiale e poco chiara,
generando fraintendimenti, aspettative errate e delusioni. Ancora oggi non esiste
infatti una definizione univoca di responsabilità sociale d’impresa, sia perchè il
concetto assume caratteristiche diverse a seconda che sia trattato sotto il profilo
sociologico, economico o giuridico sia per la varietà delle motivazioni che spingono
le aziende ad adottare comportamenti socialmente responsabili.
Per comprendere cosa sia la RSI si può partire da una definizione di impresa. Le
imprese, in quanto organizzazioni, sono il risultato di processi di costruzione che si
sviluppano nel tempo e all’interno di precisi contesti sociali. L’impresa può essere
quindi considerata come un sistema sociale-tecnico aperto: “un complesso di
interdipendenze tra beni e persone che operano scambiando con l'esterno conoscenza
e produzione e perseguendo un comune obiettivo, consistente nella produzione di
valore”
2
. L’orientamento delle imprese alla RSI cambia, in un certo senso, la
geometria del valore: secondo una concezione storica, un’azienda viene considerata
socialmente responsabile quando rispetta le leggi, paga le tasse e crea valore per i
suoi azionisti (shareholders), i suoi dipendenti e per la stessa impresa, intesa come
entità a sé stante. Oggi invece un’impresa, per essere considerata socialmente
responsabile, deve creare valore sociale anche per la società civile, ovvero per una
1
In inglese, Corporate Social Responsibility (CSR)
2
Fonte: Definizione utilizzata dai curatori del sito internet www.impresaoggi.com
11
platea di soggetti, gli stakeholders, le parti interessate, che sono ovviamente di più e
diversi dai soli azionisti e dipendenti (Hinna, 2005, p. 106).
Un punto di partenza imprescindibile per tutta la dottrina sulla RSI è la definizione
“quadripartita” di Responsabilità Sociale, elaborata da Archie Carroll nel 1979.
Carroll afferma che l’impresa ha in primo luogo responsabilità economiche, di
creazione del valore (a partire dalla generazione del profitto per gli azionisti e
dall’offerta efficiente di beni e servizi per il mercato). La società, tuttavia, si aspetta
anche che le imprese si conformino alla legge, cui spetta il compito di individuare le
“regole del gioco” sulla base delle quali funziona la competizione: si tratta dalle
responsabilità giuridiche (relative a concorrenza, rapporti di lavoro, etc.). Le altre
due componenti della responsabilità sociale vanno al di là di quanto stabilito dalla
legge. Una è la responsabilità etica, legata alla conformità a valori e aspettative di
comportamento presenti nel contesto sociale di riferimento; l’altra è invece la
responsabilità discrezionale che riguarda l’impegno volontario nei confronti della
qualità della vita degli interlocutori e che prende la forma delle attività filantropiche
(sostegno ad attività culturali o sociali, iniziative a beneficio delle comunità locali o
di progetti internazionali). I quattro tipi di responsabilità sono da intendere, secondo
l’autore, in senso gerarchico d’importanza, ribadendo che la prima responsabilità
dell’impresa è quella di tipo economico.
Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, emergono negli
Stati Uniti due correnti di pensiero che contribuiscono a definire il concetto di
responsabilità sociale d’impresa: la teoria degli stakeholders e l’etica degli affari
(Chirieleison, 2004, p. 92). La teoria degli stakeholders ha il merito di ridurre la
vaghezza del concetto di responsabilità sociale, individuando gli attori verso i quali
le imprese, in concreto, devono essere responsabili. Essa rappresenta una prima
riflessione sui meccanismi attraverso cui l’impresa ottiene e perde la sua
legittimazione sociale. Il concetto di stakeholder
3
viene utilizzato in modo esplicito
per la prima volta nel 1963 dallo Stanford Research Institute, per indicare tutti coloro
che hanno un interesse nell’attività dell’azienda. La diffusione del concetto è tuttavia
attribuibile al contributo di Edward Freeman (1984), il quale identifica gli
3
Letteralmente: avere una posta in gioco (stake) nelle azioni dell’azienda
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stakeholders come “qualsiasi gruppo o individuo che può avere un influsso o è
influenzato dal raggiungimento dello scopo dell’organizzazione” (ibidem).
Il docente americano distingue i portatori di interesse in primari e secondari, a
seconda che il loro apporto sia o meno indispensabile alla sopravvivenza
dell’impresa. Sono identificabili come stakeholder primari gli azionisti, i dipendenti,
i clienti, i fornitori e i pubblici poteri. Gli stakeholder secondari sono invece costituiti
da tutti i soggetti che possono influenzare o essere influenzati dall’attività
dell’organizzazione, senza che con essi debbano avvenire transazioni di tipo
economico: gruppi d’interesse pubblico, comunità locale, associazioni di categoria,
sindacati, concorrenti e mass media. Il pensiero di Freeman costituisce la base dello
stakeholder management. Questa impostazione gestionale viene in seguito elaborata,
fra gli altri, da Max Clarkson dell’Università di Toronto, il quale ne definisce, tra il
1993 e il 1998, i sette principi fondamentali (Grandi, Miani, 2006, p. 59):
I manager dovrebbero monitorare attivamente le preoccupazioni di quanti
possono essere legittimamente considerati stakeholder dell’impresa, e dovrebbero
tenere conto dei loro interessi, nel momento di prendere decisioni per sviluppare
le diverse attività aziendali.
I manager dovrebbero ascoltare e comunicare apertamente con gli stakeholder in
merito alle rispettive preoccupazioni e contributi al lavoro dell’impresa e sui
rischi che si assumono nel coinvolgere i portatori d’interesse.
I manager dovrebbero adottare processi e modi di comportamento sensibili alle
esigenze e possibilità di ciascun potenziale stakeholder.
I manager dovrebbero tentare di raggiungere un’equa distribuzione dei vantaggi e
degli oneri, derivanti dall’attività aziendale, fra tutti gli stakeholder, tenendo
conto dei rischi che ciascuno di questi deve affrontare e la vulnerabilità di
ognuno.
I manager dovrebbero lavorare in modo cooperativo con le altre organizzazioni,
pubbliche e private, per essere certi che i rischi e i pericoli legati all’attività
d’impresa siano ridotti al minimo e, se non possono essere evitati, fare sì che
vengano adeguatamente remunerati.
I manager dovrebbero evitare del tutto quelle attività che potrebbero mettere a
repentaglio i diritti inalienabili (ad es. il diritto alla vita) o creare rischi che, se
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compresi in modo chiaro, sarebbero considerati del tutto inaccettabili dagli
stakeholder
I manager dovrebbero riconoscere l’esistenza di possibili conflitti fra il proprio
ruolo come stakeholder dell’impresa e le responsabilità morali e legali nei
confronti degli interessi degli stakeholder; dovrebbero inoltre gestire tali conflitti
attraverso una comunicazione aperta, un sistema di reporting appropriato, dei
sistemi di incentivi e, se necessario, facendo verificare tutto da parti terze.
È importante sottolineare come lo stakeholder management si stia progressivamente
evolvendo verso una prospettiva di maggiore inclusione e partecipazione,
rappresentata dallo stakeholder engagement. Il coinvolgimento dei portatori di
interesse consiste in un processo continuo e sistematico, mediante il quale l’impresa
instaura un dialogo costruttivo con i propri stakeholder, al fine di sviluppare relazioni
mutuamente benefiche. Rispetto alla semplice gestione, il coinvolgimento è
contraddistinto dunque da una forma di comunicazione bi-direzionale, interattiva e
da una piena condivisione delle responsabilità. Durante gli anni Ottanta, come si è
detto, prende avvio anche “un’approfondita indagine etica sui fini dell’impresa, sulle
norme che orientano la sua condotta, sui principi alla base delle sue scelte”
(Chirieleison, 2004, p. 93): si tratta del filone di studi sull’etica degli affari. Lo
sviluppo della business ethics è legato all’esigenza di legittimare le decisioni di
responsabilità sociale in positivo, fondandole su motivazioni etiche, dal momento
che esse venivano considerate in precedenza come una risposta a pressioni esterne
rispetto all’impresa. L’etica degli affari, considerando nei loro risvolti morali tutte le
aree del management, si basa su due presupposti: “da un lato un’analisi dei valori su
cui si devono fondare le scelte aziendali e dall’altro la definizione di norme di
condotta che informino i vari livelli delle politiche di gestione e del relativo sistema
dei controlli” (Ibidem).
È proprio sul secondo aspetto che si è concentrata, negli ultimi anni, questa corrente
di studi, definendo criteri gestionali strategici per il management: in particolare la
business ethics viene applicata al bilanciamento degli interessi dei diversi
stakeholder dell’impresa. Dal momento che le richieste dei portatori di interesse sono
spesso in contrasto fra loro, il rapporto fra gli stakeholder e l’impresa dovrebbe
basarsi sull’ipotesi di un contratto sociale che definisca limiti e vincoli dei reciproci
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diritti e doveri. Secondo questa prospettiva la RSI rappresenta “un modello di
governance allargata dell’impresa, in base al quale chi governa l’impresa ha
responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei confronti
della proprietà, ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli
stakeholder” (Sacconi, 2004, p. 112). Per garantire il rispetto dell’insieme dei diritti e
doveri, Sacconi propone che il contratto venga esplicitato in un codice etico, utile a
valutare i comportamenti e a costruire la fiducia reciproca necessaria per collaborare.
La teoria degli stakeholder e l’etica degli affari contribuiscono dunque a far sì che la
RSI sia considerata non più un costo per l’impresa, ma un attributo gestionale con
valenza strategica, grazie al quale i problemi sociali possono essere trasformati in
opportunità e benefici economici, in capacità produttiva e benessere.
1.2 I mutamenti socio-culturali alla base della diffusione della RSI
Oltre al diffondersi del dibattito teorico sulla RSI, si verificano, soprattutto a partire
dagli anni Novanta, una serie di mutamenti socio-culturali che inducono le imprese a
preoccuparsi dei risvolti sociali della propria attività. Un primo fattore di
cambiamento consiste nel processo di globalizzazione, che indebolisce la capacità
delle autorità politiche di regolamentare la sfera economica, in quanto le aziende
espandono le proprie attività e relazioni al di fuori dei confini nazionali. La
globalizzazione spinge i vari paesi (in particolare quelli in via di sviluppo) a
competere per attirare gli investimenti delle società multinazionali sul proprio
territorio, poiché l’apertura di stabilimenti garantisce un aumento dei posti di lavoro
e degli introiti fiscali. Le aziende hanno dunque interesse a delocalizzare la
produzione, trasferendola nelle regioni che assicurano le condizioni più vantaggiose
di abbattimento dei costi e di massimizzazione dei profitti: sgravi fiscali, salari
ridotti, scarsa tutela dei lavoratori e dell’ambiente. Questo tentativo di attirare gli
investimenti delle imprese straniere ha due conseguenze: da una parte rischia di
portare gli stati nazionali ad una “race to the bottom” (Scherer, Palazzo, 2008, p. 13),
con ricadute negative sulla popolazione e sull’ecosistema; dall’altra accresce il
potere e le responsabilità delle imprese. Esse diventano soggetti pubblici che
concorrono all’equilibrio globale, in qualità di attori economici ma anche, in un certo
senso, politici. L’idea che le imprese possano contribuire ad una nuova forma di
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governance globale trova conferma nel Global Compact, progetto lanciato nel 1999
dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Il Global Compact è un
network multi-stakeholder che unisce governi, imprese, agenzie delle Nazioni Unite,
organizzazioni sindacali e della società civile, con lo scopo di promuovere su scala
globale la cultura della cittadinanza d'impresa, ovvero l’idea che le aziende debbano
contribuire al benessere delle comunità in cui operano, nella convinzione che non ci
sia antitesi fra risultati economici di lungo termine e responsabilità sociale. Le
imprese che sottoscrivono volontariamente il patto
4
si impegnano a rispettare ed
applicare nove principi relativi a diritti umani, condizioni di lavoro, lotta alla
corruzione e tutela dell’ambiente.
Un altro fattore decisivo per la diffusione della Responsabilità Sociale d’Impresa è
appunto l’emergere della questione ambientale: fenomeni come inquinamento,
effetto serra, sfruttamento delle risorse naturali e mutamenti climatici mettono in luce
la gravità dell’impatto esercitato dall’uomo sull’ecosistema. La nascita di una
attenzione di massa verso la salvaguardia dell’ambiente risale al secondo dopoguerra,
quando viene raggiunto un livello di benessere economico senza precedenti, che
porta a ridefinire i valori su cui si fonda l’organizzazione delle società. Per le
generazioni nate dopo il conflitto, la soddisfazione dei bisogni materiali, legati alla
sopravvivenza, non costituisce più un problema impellente: aumenta dunque
l’importanza di valori post-materialisti come l’auto-realizzazione e la qualità della
vita. È all’interno di questo mutamento valoriale che si può scorgere una nuova
attenzione per i temi legati all’ambiente. Le ricadute delle attività industriali
sull’uomo e sull’ecosistema non vengono più considerate dall’opinione pubblica
come un inevitabile prezzo da pagare in cambio del progresso e della crescita
economica, ma come una questione prioritaria.
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta i movimenti ecologisti esercitano una
pressione costante sulle imprese, in quanto produttrici di rischi per l’ambiente e la
salute: disastri ecologici come quelli che avvengono a Seveso o Chernobyl
colpiscono profondamente l’opinione pubblica e mettono in evidenza come il
4
Le imprese che attualmente aderiscono al Global Compact sono oltre 3.100, localizzate in oltre 120
paesi, e per il 55% si tratta di grandi imprese, con più di 250 dipendenti. Fonte: Cavallo M. (a cura di),
La Responsabilità sociale nelle imprese. Scenari, analisi e casi di studio, Editrice Compositori,
Bologna, 2008, p. 123
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progresso industriale porti con sé un nuovo tipo di rischi, impalpabili, imprevedibili
ed allo stesso tempo globali, capaci di raggiungere chiunque. All’interno di questo
contesto, definibile come “società del rischio” (Beck, 2001), gli ambientalisti
capiscono fin da subito il valore simbolico del proprio impegno e scelgono di seguire
la via della persuasione comunicativa, attraverso una vasta presenza sui media.
Questa serie di cambiamenti non può lasciare indifferenti le aziende: un’esposizione
mediatica negativa determina infatti notevoli danni economici, legati alla perdita di
reputazione e di fiducia da parte dei cittadini/consumatori. Le imprese cominciano
dunque a modificare la propria strategia comunicativa sul rischio: esse abbandonano
il silenzio, che si rivela ormai controproducente, e accettando l’assioma secondo il
quale è impossibile non comunicare, si impegnano ad essere più trasparenti, a
rendere accessibili alcune informazioni di pubblico interesse, fino a spingersi a
sperimentare, in tempi più recenti, forme di partecipazione degli stakeholder ai
processi decisionali, come i comitati consultivi della comunità locale (o Residential
Advisory Board).
Il tema della tutela dell’ambiente, oltre a coinvolgere la società civile, entra
progressivamente anche nell’agenda delle istituzioni politiche. Per quanto riguarda
l’ambito internazionale, una tappa importante del dibattito è rappresentata dalla
Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo, che si svolge a Rio de
Janeiro nel 1992. La conferenza Onu di Rio indica lo sviluppo sostenibile come una
priorità globale: con questo termine viene proposta una forma di sviluppo che
soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni
future di soddisfare i propri bisogni, preservando così la qualità e la quantità delle
riserve naturali. Uno dei principali risultati dell’incontro, a cui partecipano i
rappresentati dei governi di 178 paesi, è la stesura di Agenda 21, un piano d’azione
per il XXI° secolo che aspira ad una completa integrazione fra ambiente e sviluppo,
in un’ottica di cooperazione internazionale. Agenda 21 propone iniziative concrete,
realizzabili anche in ambito locale mediante il coinvolgimento dei portatori di
interesse che operano in un determinato territorio. Fra di essi un ruolo importante è
attribuito alla aziende, per le quali il piano prevede due obiettivi: un uso più
efficiente delle risorse in un’ottica di produzione a basso impatto e la promozione
dell’imprenditorialità responsabile, finalizzata allo sviluppo sostenibile.
17
Un terzo mutamento socio-culturale che contribuisce a promuovere la responsabilità
sociale d’impresa, e che è strettamente legato sia alla globalizzazione sia
all’emergere della questione ambientale, consiste nella diffusione di pratiche di
consumo critico. Storicamente, il fenomeno del consumo viene letto prevalentemente
in due modi (Paltrinieri, 2005, p. 44). Gli economisti liberisti ritengono i consumatori
“sovrani”, liberi di scegliere e massimizzare la propria soddisfazione all’interno del
libero mercato. I sociologi che si rifanno alla critica marxista vedono invece nei
consumatori “individui estraniati dal proprio lavoro e dalla comunità dei valori,
facilmente manipolabili perché svincolati dalla coscienza data dal legame di
appartenenza, e perciò esseri vuoti e superficiali”. Tra questi due idealtipi, che
sembrano appiattiti l’uno su una dimensione materiale, l’altro su una dimensione
ideologica del consumo, prende forma una nuova figura, quella del “consumatore-
cittadino” (Ivi, p. 45): persona sempre più attenta ai valori ambientali ed etici insiti
negli acquisti quotidiani.
La globalizzazione dell’informazione e i nuovi media interattivi, come internet,
mettono il cittadino in condizione di informarsi in maniera più libera e consapevole,
consentendogli di esercitare il proprio “potere contrattuale” nei confronti delle
imprese, attraverso le scelte di consumo. Questa nuova tipologia di cittadino-
consumatore non riguarda la totalità della popolazione ma “minoranze attive”,
sensibili al bene collettivo, disponibili a comportamenti “pro-sociali”, interessate alle
problematiche ambientali e disposte a partecipare alla vita pubblica. Minoranze che
possono essere definite attive perché prospettano un cambiamento realistico e
progressivo degli stili di vita, in un’ottica di migliore qualità sociale (ad es. le
associazioni dei consumatori o i gruppi di acquisto solidale). La decisione di
acquistare o di boicottare un prodotto assume così una connotazione politica: diventa
un modo per testimoniare l’adesione a determinati valori. L’incoerenza tra
comportamenti d’impresa e valori ritenuti rilevanti per la collettività (rispetto dei
diritti umani, rispetto dell’ambiente, etc.) viene quindi sanzionata dal mercato in
termini di minori vendite, perdita di immagine e di attrattività.
Appare dunque evidente come la reputazione diventi uno degli asset più preziosi,
benché intangibili, delle imprese: essa consente di costruire un rapporto fiduciario
con i clienti, e in generale con tutti gli stakeholder, garantendo così un vantaggio
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competitivo duraturo. A conferma di quanto la legittimazione sociale diventi un
criterio di successo per l’impresa, sempre più spesso le multinazionali decidono di
non limitare le pratiche di responsabilità all’interno dei confini legali dell’azienda,
ma di estenderla anche ai propri fornitori, esigendo da parte di questi ultimi
l’adesione a codici di condotta e servendosi di organismi di certificazione esterna,
per valutare l’effettivo rispetto degli standard di lavoro.
1.3 La Responsabilità Sociale d’Impresa in Europa: il Libro Verde
della Commissione Europea
Nei paragrafi precedenti sono stati analizzate le principali correnti di pensiero e le
trasformazioni sociali che hanno contribuito all’emergere della responsabilità sociale
d’impresa a livello globale. Per quanto riguarda il contesto europeo, un ruolo
importante nella diffusione di pratiche di RSI viene svolto dalla Commissione
Europea. Nel 1995, un gruppo di imprese, su sollecitazione dell’allora Presidente
della Commissione Jacques Delors, firma il “Manifesto delle imprese contro
l’esclusione sociale”. Il documento pone la solidarietà tra i valori chiave della
cittadinanza d’impresa, insieme alla lotta contro l’esclusione sociale e al rispetto dei
diritti umani. In occasione del Consiglio Europeo di Lisbona (Marzo 2000) i capi di
Stato e di Governo europeo si impegnano a fare dell’Europa “l’area economica
basata sulla conoscenza più dinamica e competitiva del mondo, capace di crescita
economica e sostenibile, con maggiori opportunità di lavoro e più forte coesione
sociale” (Cavallo, 2008, p. 126). Il Consiglio fa appello al senso di responsabilità
delle imprese nel settore sociale per le buone prassi collegate all’istruzione e alla
formazione, all’organizzazione del lavoro, alla parità delle opportunità,
all’inserimento sociale ed allo sviluppo durevole. Sebbene gli obiettivi proposti dal
Consiglio, in particolare quello di raggiungere la piena occupazione entro il 2010,
non siano raggiunti, la “Strategia di Lisbona” dà un notevole contributo nel
rafforzare il dibattito, a livello istituzionale e non, sulla Responsabilità Sociale
d’Impresa. Nel 2001, la Commissione Europea presenta infatti il Libro Verde
“Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”. Il
documento si propone tre obiettivi:
diffondere la conoscenza del concetto di RSI
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promuovere iniziative di responsabilità sociale da parte delle imprese
illustrare la politica europea in tema di RSI
Il Libro Verde ha innanzitutto il merito di presentare una definizione ufficiale di
Responsabilità Sociale d’Impresa, destinata a diventare “un punto di riferimento per
tutti i soggetti attivi nel settore in Europa” [Zarri, 2009]. La Commissione Europea
intende la RSI come
“l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese, nelle
loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”
Questa semplice definizione contiene in sé diversi elementi di rilievo:
Le imprese adottano un comportamento socialmente responsabile al di là delle
prescrizioni legali, ed assumono volontariamente tale impegno in quanto
ritengono che ciò sia nel loro interesse nel lungo periodo.
La responsabilità sociale delle organizzazioni è intrinsecamente connessa al
concetto di sviluppo sostenibile ed all’approccio della triple bottom line, in base
al quale le attività aziendali devono rispondere non solo al criterio del profitto
economico (Profit), ma anche a quelli della salvaguardia ambientale (Planet) e
dell’equità sociale (People).
La RSI si esplicita all’interno dei rapporti con gli stakeholder, nei confronti dei
quali le imprese sono chiamate ad avere un atteggiamento di dialogo e
cooperazione.
La Responsabilità sociale non è un elemento "addizionale" alle attività
fondamentali delle organizzazioni, bensì è correlato con il tipo di gestione stessa
delle organizzazioni. Questo significa che la responsabilità sociale deve essere
distinta, ad esempio, dalla beneficenza e dal marketing sociale, che possono
essere strumenti ma non fini della RSI.
Questa ultima considerazione ricopre una notevole importanza, soprattutto se si
considera che la principale critica mossa alla Responsabilità Sociale d’Impresa è di
essere una maschera, una “costosa operazione cosmetica” (Bonardi, 2009, p.8)
mediante la quale le imprese nascondono i comportamenti irresponsabili verso la
società e l’ambiente, rafforzando al tempo stesso la propria immagine e
legittimazione. Per evitare l’accusa di trasformare la RSI in una forma di pubblicità
20
ingannevole (che il movimento ambientalista ha denominato “greenwashing”), le
imprese dovrebbero radicare le pratiche di responsabilità all’interno della gestione
quotidiana, dimostrando così che la volontarietà e l’autoregolazione non sono solo un
paravento per aggirare i vincoli normativi.
Un altro aspetto significativo del Libro Verde è l’intento di promuovere la diffusione
di pratiche e strumenti di RSI non solo fra le grandi imprese, ma anche fra le piccole
e medie imprese, le quali costituiscono la base del tessuto produttivo del vecchio
continente
5
. Il documento infatti sottolinea che “è fondamentale che la RSI sia più
ampiamente applicata nell’ambito delle PMI, comprese le microimprese, perché il
loro apporto all’economia e all’occupazione è il più importante” (Commissione delle
Comunità Europee, 2001). A causa della loro minore complessità e del ruolo più
incisivo svolto dal titolare dell'impresa, le PMI gestiscono spesso le loro relazioni
con l’esterno in maniera più informale rispetto alle grandi organizzazioni,
assicurando un impatto sulla società più intuitivo e destrutturato. In realtà, molte PMI
adottano da tempo pratiche sociali ed ecologiche responsabili, senza avere sufficiente
dimestichezza con il concetto o senza fornire informazioni adeguate riguardo le
proprie attività.
1.4 Gli strumenti di gestione della RSI
L’approccio della Commissione Europea alla RSI può essere definito di gestione
integrata. Tuttavia le imprese gestiscono la propria responsabilità ed i rapporti con le
parti interessate in modo diverso a seconda delle specificità settoriali e culturali.
All’inizio, esse tendono di solito ad adottare una dichiarazione di principi, un codice
di condotta o un manifesto che enuncia i loro obiettivi, i loro valori fondamentali e le
loro responsabilità nei confronti delle parti interessate. Tali valori devono
successivamente tradursi in azioni all’interno dell’impresa, nelle sue strategie e nelle
decisioni quotidiane. A tal fine, le imprese devono ad esempio aggiungere una
dimensione sociale o ecologica ai loro programmi e bilanci, valutare le prestazioni in
5
Le Piccole e Medie imprese in Europa (ovvero quelle con meno di 250 dipendenti, e un fatturato
inferiore ai 50 milioni di Euro l’anno) rappresentano il 99,8 per cento del totale delle imprese,
occupano 85 milioni di persone e realizzano un valore aggiunto di oltre 3 miliardi di euro. Fonte:
Schmiemann M. (2008), Enterprises by size class: overview of SMEs in the EU, statistics in focus,
Eurostat, 31/2008
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questi settori e instaurare programmi di formazione continua. Per mettere in atto
comportamenti socialmente responsabili, le aziende si devono quindi dotare di una
serie di strumenti gestionali, che sono essenzialmente di tre tipi (Grandi, Miani,
2006, p. 249):
1. Valoriali: carta dei valori
2. Di rendicontazione: bilancio sociale, bilancio di sostenibilità, bilancio di
missione
3. Normativi: codice etico, sistemi di gestione
Soluzioni universali non sono probabilmente possibili in tutti gli ambiti d’impresa,
dal momento che la RSI è un concetto in costante evoluzione e che i portatori di
interesse hanno interessi divergenti, spesso contrastanti. Tuttavia questi strumenti si
muovono in direzione di un approccio strutturato, basato su un partenariato fra le
organizzazioni ed i propri stakeholder.
1.4.1 La carta dei valori
La carta dei valori è uno strumento in grado di avvicinare la visione degli stakeholder
interni (il personale dipendente ed il management) e degli esterni su come “si intende
fare impresa”, ovvero sui valori ed i principi di fondo che ispirano la gestione, al di
là degli obiettivi che si perseguono e dei risultati che si ottengono. Se affrontato con
serietà , il processo di stesura della carta è abbastanza complesso, in quanto richiede
“riflessioni lunghe e a più voci, che consentano il recupero di dei valori storici, delle
radici, della sedimentazione delle culture nel tempo, della visione che si ha
dell’attività e delle attese del contesto sociale” (Hinna, 2005, p. 120). Il percorso di
costruzione si presta a due opzioni: una top down e una bottom up. Nell’approccio
bottom up i valori condivisi da una struttura possono essere fatti emergere attraverso
analisi ed indagini miranti a individuare quali sono i principi nei quali la struttura
organizzativa di un’impresa si rispecchia e si aggrega o quali sono i valori che il
mercato, inteso come ambiente esterno, riconosce alla struttura. Nell’approccio top
down, invece, è la direzione a decidere quali devono essere i valori attorno i quali la
struttura si aggrega, e quali devono essere quelli da comunicare perché siano letti
dagli stakeholder esterni. In questa seconda ipotesi, è necessario portare avanti un
22
percorso di formazione “affinché i valori siano comunicati all’interno della struttura
e diventino patrimonio condiviso, per poi declinarli in comportamenti ed avviare
processi di riorganizzazione che rendano la struttura consona ai valori che si
vogliono difendere o implementare”.
Al di là del processo che si utilizza per individuare i valori aziendali, essi devono
essere alla fine esplicitati e vanno a costituire una dichiarazione pubblica di impegno
dell’impresa a perseguire livelli di eticità nel compimento della missione aziendale.
Il rischio è che gli impegni presi nella carta rimangano lettera morta, svuotando
questo strumento di ogni significato: è quanto accaduto, ad esempio, nel caso della
multinazionale dell’energia Enron, la quale, pur dichiarando come propri valori quali
“comunicazione, rispetto, integrità, eccellenza”, è rimasta coinvolta in uno degli
scandali finanziari più grandi della storia. I valori aziendali si possono ricondurre
indicativamente a quattro categorie (Grandi, Miani, 2006, p. 250):
1. Valori di base (core values): sono i principi di fondo che regolano il
funzionamento dell’impresa e non dovrebbero mai essere violati. Sono la fonte
della distintività dell’impresa e, se sono incerti, devono essere chiariti e condivisi
a tutti i livelli.
2. Valori aspirazionali (aspirational values): sono quei valori di cui l’impresa
un’azienda ha bisogno, ma che al momento mancano nella cultura aziendale. La
comunicazione dovrà supportare i processi di cambiamento necessari a instillare
tali valori nel personale.
3. Valori elementari (permission-to-play values): sono rappresentati da valori
standard, senza i quali è impossibile essere parte non solo dell’organizzazione, ma
anche dell’insieme delle imprese che operano in un determinato settore o
territorio.
4. Valori accidentali (accidental values): valori che nascono e si diffondono
casualmente, come riflesso delle normali abitudini e dei comuni interessi dei
dipendenti. Possono avere un ruolo positivo nel creare gruppo, ma è opportuno
monitorarli per evitare incomprensioni o incongruenze.