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quasi un secolo di lotte tese a dimostrarne la
superiorità rispetto all’Impero e a qualunque altra
istituzione terrena e, con il IV Concilio Lateranense
(nel 1215) indetto da Innocenzo III, il Papato poteva
finalmente raccogliere una serie di assensi e successi
che lasciavano senza dubbio ad intendere come fosse
uscito dalle lotte passate con una rinnovata forza e come
l’autorità della Chiesa di Roma e del pontificato fosse
riconosciuta come la massima dell’epoca. Finita la lotta
per la supremazia politica, la Chiesa ora doveva
combattere contro i nemici interni, gli eretici, e ad
affiancare l’opera della Chiesa concorsero con rinnovato
entusiasmo i nuovi ordini religiosi che sorsero numerosi
nel XIII secolo: oltre a Domenicani e Francescani, si
contano, infatti, anche Ospedalieri, Lazzaristi,
Trinitari, Carmelitani ed Eremitani.
Questo è il contesto in cui si muove Jacopo da Varazze.
Nato a Varazze in Liguria nel 1228, viene soprannominato
dai medievali, ammirati dalla sua erudizione, da Varagine
o Voragine perché voragine di scienza
1
. Entra nel 1244
nell’ordine dei domenicani, fondato poco prima da San
Domenico dove si distinse ben presto dai confratelli per
la sapienza e per le sue nobili doti morali che ne fecero
un esempio di umiltà e carità da imitare e nel 1292 fu
nominato vescovo di Genova, incarico accettato non senza
reticenza da Jacopo, il quale si riteneva indegno di tale
onore. Dedicò la sua vita, oltre che all’esercizio delle
sue funzioni, alla lettura di opere che potevano
illuminarlo nella conoscenza di Dio e a sua volta fu
1
F. Lanzoni, Genesi svolgimento e tramonto delle leggende storiche,
Roma, Tipografia poliglotta vaticana, 1925, pp. 146.
6
autore di numerosi testi, sia religiosi che
cronachistici, il più importante dei quali fu la Leggenda
Aurea. In questo libro Jacopo raccoglie un’immensa mole
di materiale proveniente dall’agiografia precedente e lo
riordina secondo uno schema che potesse agevolare
l’utilizzo dei vari exempla proposti nei sermoni,
segnando spesso le fonti dalle quali attingeva e
indicandoci se queste erano considerate apocrife o
attendibili. Grande fu la fortuna dell’opera nei secoli
successivi, tant’è che ne circolavano numerose versioni,
tradotte in tutte le lingue. Il testo era presente in
numerose biblioteche d’Europa e fu molto citato nelle
grandi summae dei secoli successivi, in cui gli exempla
tratti dal leggendario di Jacopo sono segnalati nelle
fonti a fianco delle Vitae Patrum e dei Dialoghi di
Gregorio Magno. Era scritta in latino e non in volgare,
poiché Jacopo voleva creare un’opera accessibile al
pubblico laico che nel XIII sec si affacciava per la
prima volta alle vite degli eroi della Chiesa e al tempo
stesso voleva sottolineare il carattere di universalità
agli insegnamenti morali trattati. Lo scopo del testo era
di essere un “utensile della predicazione” (come ci dice
Giovanni di Mailly, ideatore di questo tipo di
leggendari, nel Prologo della sua Abbreviatio in gestis
et miraculis sanctorum scritta nel 1225) e doveva quindi
essere letto durante la festività del santo (leggenda
significava, infatti, “storia da leggere”), per offrire
ai fedeli esempi di santità da imitare e norme morali,
attinenti agli insegnamenti cristiani, da seguire e su
cui riflettere. Sulla scia di questo testo e sempre con
la finalità prima, propria dei domenicani, di agevolare
la predicazione, Jacopo scriverà anche un sermonario, De
Sanctis, in cui utilizzerà la Leggenda Aurea per ricavare
7
gli schemi di sermoni da leggere in 82 festività
2
.
Nonostante la Leggenda rappresentasse il maggior modello
agiografico anche nel secolo della diffusione della
cultura umanistica, non mancarono, dopo il 1500, critiche
alle sue numerose incongruenze cronologiche, storiche e
geografiche, sminuendone l’importanza come opera di fede
ed eccellente prodotto della letteratura duecentesca.
Molte critiche piovvero anche a riguardo dell’indubbia
ripetitività dell’opera, che rischiava di offuscarne la
veridicità, ma considerando la Leggenda Aurea come una
raccolta di leggende agiografiche, che attingono molto
dall’agiografia della tarda antichità, ma dal folklore e
dalla tradizione letteraria che inevitabilmente Jacopo si
portava sulle spalle, è ovvio che il testo, essendo in
primis un’opera letteraria, sia soggetto alle leggi che
ne regolano lo svolgimento e si rifaccia a tutta una
serie di artifici retorici e topoi letterari che sono una
costante in tutte le vite presenti nell’opera. Le
descrizioni dei martiri, la tipologia dei santi e le
vicende narrate, attingono tutte da uno stesso bacino. Un
crogiuolo di elementi propri della cultura dell’ambiente
in cui Jacopo opera e propri della cultura del Duecento
di cui egli, in questo caso, si fa portatore.
2
C. Delcorno, Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento,
Bologna, Il Mulino, 1996, cap. II.
8
CAP I: Natura, animali, tradizione.
1- L’universo medievale.
L’universo medievale è uno specchio di simboli. Sin
dall’antichità l’uomo ha rappresentato la realtà
attraverso un segno che rimandava ad una dimensione
soprannaturale che andava al di là delle sue capacità
cognitive. Attraverso un simbolo, un oggetto materiale,
si fa riferimento ad una realtà complessa e articolata
che attraverso il simbolo non viene rivelata o svelata
completamente ma solo rappresentata e resa visibile alla
nostra capacità di percezione. L’intima essenza della
realtà viene dunque carpita non tanto dalla nostra
intelligenza razionale quanto piuttosto dal nostro
“cuore”, dal nostro inconscio, da un quid che va oltre la
ragione speculativa. In questo contesto si può parlare di
simbolismo cristiano inteso come insieme di conoscenze
che riguardano i segni che a loro volta rappresentano
realtà di fede e verità spirituali dal significato più
profondo, secondo una concezione platonico-cristiana
formulata in alcuni passi di San Paolo per cui la realtà
fenomenica è simulacro di realtà soprasensibili e quindi
conduce alla conoscenza del mondo invisibile
1
. L’uomo,
per la Bibbia, è fatto ad immagine e somiglianza di Dio
ed è per questo concepito in una dimensione simbolica per
la quale tende a riconoscere in ciò che lo circonda, per
prima cosa la natura, la stessa valenza simbolica dalla
1
Rm. I, 20: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni
invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui
compiute, come la sua eterna potenza e divinità.” Crf. anche a c. di L.
Morini, Introduzione a Bestiari medievali, Torino, Einaudi, 1996.
9
quale è egli stesso investito
2
.
Come osserva Lotman, la visione medievale del mondo si
basa sul principio paradigmatico della sostituzione più
che su quello sintagmatico della concatenazione, in
quanto nella simbolizzazione dell’uomo e della natura,
ogni elemento della sfera del reale acquisisce
significato poiché confrontato con altri elementi che,
pur occupando diversi livelli nella scala gerarchica in
cui il mondo è organizzato, si trovano in una posizione
simile
3
.
Nel Medioevo fioriscono tutta una serie di trattati atti
a dimostrare come la realtà e la natura rimandino ad una
dimensione altra, governata da Dio, il quale si cura di
ordinare il cosmo secondo principi gerarchici che ne
regolino l’armonia. Per Ugo di san Vittore (XII sec), la
natura è un campo d’indagine, il pensiero di Dio si svela
nell’ordine naturale in cui la natura nel suo complesso
risulta una sorta di libro scritto da Dio all’atto della
creazione
4
, da interpretare con le stesse tecniche
esegetiche usate per le Sacre Scritture, dove al senso
letterale si deve sempre aggiungere un senso allegorico,
2
I Cor. 13, 12: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma
allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora
conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.” .
3
J. Lotman, Il problema del segno e del sistema segnico nella tipologia
della cultura russa prima del XX secolo, in a c. di J. Lotman, B. A.
Uspenskij, Ricerche semiotiche, Torino, Einaudi, 1973.
4
“universus mundus iste sensibilis quasi quidam liber est scriptus digito
dei” appendice al Didascalion, in PL CLXXVI, col 814.
10
concorde a quanto detto da Cristo in Marco, 4: 9
5
. Per
agevolare l’esegeta nella comprensione del senso profondo
della Scrittura, si diffondono nel Medioevo filoni
letterari come quello enciclopedico, trattati sulla
natura e bestiari, volti per l’appunto ad aiutare l’uomo
ad orientarsi nei misteri del liber naturae e ad
interpretarlo correttamente seguendo i due tipi di
esegesi segnalati da Agostino nel De doctrina christiana:
uno che chiarisce il senso letterale del testo, l’altro
che ne chiarisce il senso figurato, allegorico
6
. Essendo
dunque la natura oggetto di analisi costante, l’interesse
dell’uomo medievale si fa forte soprattutto per quelle
parti di essa con cui più si trova a contatto: gli
animali.
Presenza costante nella vita quotidiana, in posizione di
antagonisti ma anche di conviventi, gli animali si
trovano oggetto di numerose attenzioni, attraverso tutta
una serie di Bestiari e trattati molto popolari nel
Medioevo.
5 “E [Gesù] diceva: Chi ha orecchi per intendere intenda!. Quando poi fu
solo, quelli che erano intorno a lui lo interrogavano sulle parabole, Ed
egli disse loro: A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a
quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma
non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga
loro perdonato.”.
6
Agostino, De doctrina christiana, III, XV, 23. Agostino distingue due
tipi di segni (signa) attraverso i quali va interpretato il testo: propria
“quelli che vengono usati per significare le cose per le quali sono stati
istituiti” e translata, cioè “le cose stesse che, indicate con le parole
proprie, passano a significare qualcos’altro da sé”. cfr. anche Agostino, De
doctrina christiana, II, 16, 24 e 39, 59. Da qui si svilupperà nel Medioevo
il sistema esegetico dei “quattro sensi della scrittura”, come dice Agostino
di Dacia: “La lettera insegna i fatti; l’allegoria, ciò a cui devi credere;
il senso morale, ciò che devi fare; l’anagogico, ciò a cui devi tendere.”.
11
Dal capostipite del genere, il Physiologus greco del II-
III sec (che fornì per tutto il Medioevo un vasto
repertorio di simboli cui attinsero le arti figurative e
i vari generi letterari religiosi e profani), e dalla
vasta produzione enciclopedica nata tra il VII e XII
secolo, all’atteggiamento “prescientifico” dei trattati
di zoologia del XII-XIII sec, la struttura del bestiario
presenta sempre un carattere bipartito, in cui la
descrizione della natura dell’animale e dei suoi
comportamenti si affianca al corrispettivo significato
simbolico nel tentativo di darne una spiegazione in
chiave etico-teologica
7
.
Sulla scia della Bibbia, in cui gli animali hanno un
ruolo fondamentale (basta pensare al serpente tentatore
della Genesi o alla pecorella smarrita della parabola
riportata dal Vangelo di Marco), gli esegeti cristiani
danno il via ad un vero e proprio simbolismo cristiano
dell’animale che, affondando le proprie radici nel mondo
classico ed ebraico, prendeva spunto dalla necessità di
trovare un modo per rendere universalmente accettabile il
messaggio dell’Antico Testamento
8
,
7
cfr. L. Morini, introduzione a Bestiari medievali, Torino, Einaudi, 1996;
G. Orlandi, La tradizione del “Physiologus” e il problema del bestiario
latino, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo, Atti della
“Trentunesima Settimana di Studi” 7-13 aprile 1982, Spoleto, Cisam, 1985.
8
A questo proposito si inserisce il tentativo di Filone di Alessandria di
fornire un’interpretazione allegorica della Bibbia, nel tentativo di
conciliarne la lettura con lo spirito della filosofia (che si inserisce nel
più generale tentativo della filosofia giudaico-ellenistica di conciliare la
filosofia greca e la teologia ebraica): Corso di filosofia, storia e testi.
L’età antica e medievale, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondatori,
1996, pp. 494-495. Sulla necessità dell’interpretazione allegorica della
Bibbia cfr. Agostino, Sermones, 51, 5, 6; Confessiones, 6, 3, 4.