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Introduzione
La tesi principale consiste nell'utilizzare strumenti di natura filosofica per avvicinarsi il più possibile
alla comprensione di paradigmi clinici propri della psichiatria; nello specifico la schizofrenia.
Tematica, quest'ultima, descritta mirabilmente da Minkowski ma che, oltre al contributo critico di
Bergson, necessiterà anche del lavoro ermeneutico di G. Deleuze.
Differenza e ripetizione sarà, infatti, il testo cardine per uno studio interpretativo del tema centrale
dell'elaborato: il caso clinico de la malata che fa le scarpe (descritta in principio da Jung e ripresa poi
da Minkowski).
Oltre a ciò non mancheranno approfondimenti su tutti gli studi che trasversalmente verranno toccati:
dall'analisi del Tempo in tutte le sue forme fino ad argomenti di natura clinica, senza tuttavia perdere
di coerenza con il tema proposto.
Dunque la premessa minore facente capo alla tesi iniziale risulta essere quanto più pragmatica: dalla
filosofia alla psichiatria e viceversa con lo sguardo sempre rivolto ad un approccio
1
intuitivo più che
intelligente, volto alla compenetrazione più che alla giustapposizione.
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Cambiare le premesse di comprensione psichiatrica sulla diagnosi più stigmatizzata in ambito clinico,
facendo leva su una visione differente di quelli elementi che costituiscono l'essere nella sua presunta
normalità.
Quando i pensatori sui quali verte l’elaborato sono Bergson e Minkowski, l’atteggiamento diviene
cordiale anziché dittatoriale. I modi con cui hanno saputo dialogare tra loro, seppur indirettamente, e
con il lettore, provocano simpatia
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; tendenza più che sentimento, approccio più che metodo.
Essere capaci di pathos condiviso quando il tema di riferimento risulta essere la schizofrenia, mette
in crisi le premesse stesse sulle quali si sta fondando il lavoro; non tanto perché la tematica esige un
notevole sforzo di sospensione del giudizio quanto piuttosto per come la si vuole comprendere.
1
Eugene Minkowski, Trattato di psicopatologia, tr. it. Feltrinelli Editore, Milano, 1973, p. 57. Il termine “approccio”
verrà usato molto spesso nel lavoro di ricerca perché come afferma Minkowski: «La psicopatologia apre qui la via,
soltanto una via di approccio beninteso, ma in questo campo non esistono che vie di approccio, e già ne dobbiamo essere
contenti».
2
E. Minkowski, Il tempo vissuto, tr. it., RCS Editore, Milano, 2011, p. 26. Cfr. Minkowski, Trattato di psicopatologia,
p. 34.
3
E. Minkowski, Trattato di psicopatologia, p. 52: «Il fatto è che, se seguiamo da vicino lo sviluppo della malattia, e
soprattutto il malato che ne è colpito, a un dato momento, presto o tardi, fatalmente, ci troviamo di fronte all’ “essere
umano malato mentalmente”, e con uno sforzo di penetrazione cerchiamo di cogliere sul vivo la sua modalità di esistenza,
di comprendere quello che in tal modo egli ha da rivelarci”. Si noti inoltre, correlato a quanto detto, il ruolo della
psicopatologia vista come psicologia del patico: “Il fatto è che le diverse forme di questo “essere diverso” si pongono in
modo intrinseco, sotto il segno dell’essere nella sofferenza. Le malattie, per quanto frequenti o addirittura quotidiane,
costituiscono un avvenimento che “esce dall’ordinario”, e ciò le avvicina alla pazzia. Non a caso la pazzia è stata
considerata come malattia», E. Minkowski Ivi, p. 67.
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Comprendere non è analizzare, non è dividere, non è ridurre l’attenzione ad uno studio parziale;
comprendere la schizofrenia con strumenti filosofici significa avvicinarvisi per gradi, preoccuparsi di
non farsi portare fuori strada dal senso comune che la vorrebbe etichettata in qualche meandro della
pazzia – il cui eco risuona ancora labile alle orecchie di chi sa ascoltare.
Comprendere la schizofrenia non vuol dire mettere in discussione l’approccio psichiatrico bensì
convincerlo a collaborare per un fine più alto di una diagnosi
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basata su una descrizione tout-court
dei fenomeni; a tal proposito, un occhio scettico potrebbe obiettare che c’è già stata, nella storia della
filosofia, una corrente di pensiero affine a queste tematiche, che ha saputo intersecare il metodo
fenomenologico a situazioni patologiche: la psicopatologia fenomenologica per l’appunto.
Un occhio attento tuttavia risponderebbe che sì, numerosi sono gli studiosi che hanno dato un
contributo fondamentale alla causa, ma che, se si va a fondo della questione, né Bergson né tantomeno
Minkowski potranno rientrare nella suddetta nomenclatura filosofica.
Principalmente per due ragioni su tutte: la prima risulta essere, da parte di entrambi, la totale e ferma
volontà di abolire etichette
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, nominalismi scevri e rientri più o meno menzionabili in una o più correnti
di pensiero; mentre la seconda, propedeutica alla prima, vien da sé e si sposa con il tema proposto: in
che modo si sarebbe mai potuto trattare la schizofrenia se si fosse catalogato
6
da un lato Bergson in
un tale inquadramento e dall’altro Minkowski?
La schizofrenia stessa sfugge ad una cornice predefinita e di conseguenza anche coloro che hanno
contribuito a leggerla con tale visio e a creare gli strumenti per coloro che, in futuro, avessero voluto
farlo.
Mi viene in aiuto il titolo di una celebre opera di Rocco Ronchi per spiegare meglio questa sterile
diatriba; con il “Canone Minore”
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, infatti, vengono designati tutti i filosofi che, all’interno di una
doverosa cronologizzazione della filosofia e della sua storia, hanno saputo sfuggire
all’inquadramento, al “Canone Maggiore”.
Apertura dunque al relativismo
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o semplicemente terza via? Nessuna delle due, in realtà.
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E. Minkowski, La schizofrenia, tr. it. RCS Libri, Milano, 2007, pp.44, 45: «Ma essere psichiatri non vuol dire soltanto
saper enumerare dei sintomi. Siamo degli esseri viventi, e questa vita continua a palpitare fino ai limiti estremi della
degradazione delle forze psichiche. Ed è questa che vogliamo conoscere e a tale scopo vogliamo servirci coraggiosamente
di tutti i mezzi che la natura ha messo a nostra disposizione».
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Eugenio Borgna, Nei luoghi perduti della follia, Feltrinelli Editore, Milano, 2020, Introduzione a cura di Federico Leoni:
«Progetto nel cui orizzonte rientra per altro verso un ulteriore filone tematico di cui converrà dare conto, ricordando, se
non altro, l’ininterrotta denuncia che si ritrova direttamente o indirettamente tra le righe di ogni testo pubblicato da Borgna
già durante gli anni sessanta, della rigidità delle classificazioni nosologiche tradizionali, dell’inaffidabilità di ogni
partizione netta tra forme diverse di disagio mentale, delle indebite ipostatizzazioni cui erano andati incontro quelli che
in origine la psichiatria aveva proposto come semplici raggruppamenti sintomatici, etichette dal valore semplicemente
euristico».
6
Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Introduzione di Pier Aldo Rovatti, Un tema percorre tutta l’opera di Bergson, pp.
XVII, XVIII.
7
Rocco Ronchi, Il canone minore, Feltrinelli Editore, Milano, 2017.
8
Henri Bergson, Storia dell’idea di tempo, Corso al college de France 1902-1903, Mimesis Edizioni, Milano, 2019, p.12.
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L’intento di questo elaborato, piuttosto che ragionare sull’affermazione fissa di una tesi, proverà a
comprendere il modo in cui lo scenario permette il dubbio.
Non è casuale che abbia già posto, nel corso di queste poche righe, più domande di quelle che avrei
dovuto fare; parimenti la trama che verrà delineandosi si rifarà a questo atteggiamento, non
imponendo una logica diretta dell’interrogazione bensì pensando ad essa come moto di discussione.
D’altronde, il tema di cui ci si fa carico non esisterebbe se, a monte, non ci si facesse qualche
domanda, più d’una al punto di giungere alla messa in discussione di certezze assodate, di elementi
psichiatrici evitati con ardita tenacia dogmatica, di situazioni troppo singolari per essere estese alla
propria esistenza.
Ebbene qui il pensiero diverrà sforzo, nel momento in cui approcciare un universo umano dissimile
dal normale, genericamente istituitosi nel tempo, sarà possibile. La possibilità di muovere un passo
verso l’alienato da noi, ciò che per noi e per la nostra storia viene categorizzato tale, il solo
“movimento teso a” darà speranza.
Parlare con le parole dell’analisi non solo non permette di cogliere le nuance ma pone uno iato
significativo tra autore-oggetto di tesi, soggetto normale-alienato patologico, giudicante-giudicato.
La schizofrenia non è una categoria e non è un universale. Non può essere posta come categoria dal
punto di vista filosofico quantomeno; esige una diagnosi precisa ma la parte descrittiva a noi dice
poco
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. L’equilibrio nel dosare le parole è qui essenziale più che mai. Con questo non si vuole
denigrare l’approccio psichiatrico, la discussione sarebbe più sterile di quanto possa essere impari tra
le parti. Non si vuole portare avanti uno scontro su quale disciplina sia in grado di capire la
dimensione del paziente, semplicemente perché non si intende polarizzare
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l’attenzione su un
paziente bensì sulla costruzione dell’esperienza che l’Essere stesso ha compiuto nel suo unico e
proprio paradigma esistenziale.
Ed è da questa definizione, pur sempre approssimativa per natura, che entra prepotentemente
l’approccio critico prima di Bergson e poi di Deleuze.
Maestro e allievo
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, relazione indiretta mai negata dal secondo anzi, se possibile enfatizzata e onorata.
Per semplificare, quando ci si trova sulla cresta dell’onda
12
, non è necessario cadere per mettere in
dubbio le proprie certezze, esse sono già in crisi nel momento stesso in cui procedono nel
9
Marcel Merleau-Ponty, Il primato della percezione, p.29: «è vero che, quando si descrive il mondo percepito, si arriva
a delle contraddizioni. Ed è anche vero che se c’è un pensiero non contraddittorio, questo escluderà, come semplice
apparenza, il mondo della percezione».
10
E. Minkowski, Trattato di psicopatologia, p. 53.
11
Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Introduzione di Pier Aldo Rovatti, Un tema percorre tutta l’opera di Bergson, p.
XVII.
12
R. Ronchi, L’organo della stupidità, Doppiozero, 2021; si confronti la riflessione nell’elaborato con il correlato uso del
termine “surfer”, a sua volta di rimando al lemma “nuance” utilizzato più in là nel lavoro: «Non è un caso se, salvo rare
eccezioni, il bergsonismo sia stato così a lungo assente nel dibattito filosofico italiano o sia stato considerato con
sufficienza, come se difettasse di quella profondità “abissale” di cui si compiace il “pensiero negativo”. Il saggio di Leoni
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sopraggiungersi alla mente, nell’insieme indivisi di istanti in cui sperimento l’esperienza della
vertigine.
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Lo stesso valga per il tempo.
Non basta che un’azione avvenga per dichiararla passata; Bergson ci insegna che la questione non
deve essere ridotta ad una tale banalità. Quantomeno in filosofia.
Le specificità del suo pensiero verranno trattate adeguatamente più avanti.
Deleuze procede oltre; preso atto dell’insegnamento bergsoniano sulla definizione del tempo e sul
continuum che lo fonda ontologicamente, il filosofo si concentra in Differenza e ripetizione, testo di
riferimento, sulle implicazioni concernenti il fenomeno della ripetizione, delle spinte che lo muovono
e delle conseguenze verso le quali la ciclicità del suo avvento ponga in crisi l’esperienza stessa
dell’Essere, posto sempre nel continuum fenomenologico.
Tutto ciò, seppur coerente con un piano teoretico necessita una integrazione pragmatica se vuole
essere definito veramente creativo (produttore di linee divergenti, di crisi e possibilità). Non varrebbe
la pena rendere autoreferenziale il fondamento stesso dell’ontologia esistenziale.
Il campo applicativo è presto delineato: la schizofrenia. Nulla di nuovo se non fosse che la crisi su
cui siamo in bilico ci spinga a proseguire oltre la generica definizione di questa patologia e ci permetta
di arrivare alla singolarità unica e propria dell’esperienza umana.
Nel nostro caso si parlerà del caso clinico della malata che faceva le scarpe.
Fenomeno alquanto strano per i più, senza speranza per gli addetti ai lavori, singolare per alcuni.
E singolare lo è stato veramente, se Jung stesso deciso di trascriverlo nei suoi quaderni clinici.
Tuttavia evitarlo significherebbe cristallizzare tale esperienza umana nella cornice schizofrenica di
appartenenza; per timore, per non curanza o semplicemente per un parametro di non conformità alla
legge: quella umana di riferimento, l’abituale, la canonica, il pensiero umano appunto.
E se si provasse ad invertire la rotta e risalire la china, laddove il pensiero da umano riesce ad essere
propriamente umano? Bergson insegna a tal proposito.
Ed è così che lo si proverà a seguire: la bussola in un viaggio, specialmente dall’ardua riuscita, non
va mai dimentica; e se si ha la possibilità di averne una tarata a dovere, meglio non abbandonare la
via.
Bergson scrive per educare; non lo avrebbe mai ammesso ma è così.
Minkowski scrive per fissare l’esperienza; si serve di Bergson mentre lo fa per non cadere in errore
ed evitare analisi superflue dei suoi pazienti.
ci restituisce, invece, un Bergson filosofo della superficie capace di seguire con la propria arte da “surfer” (che Bergson
chiamava arte della nuance) il flusso inarrestabile della vita che non può che vivere».
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Riccardo Panattoni, Altitudo, il melangolo, Genova, 2019. Il capitolo di riferimento è Verticalità p. 16.
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Deleuze scrive per non perdere la spinta del movimento; vuole andare oltre le nozioni, crea
neologismi, mette in crisi i fenomeni stessi della realtà comune.
Tutto ciò verrà a costituire il bagaglio culturale e pedagogico grazie al quale si potrà avvicinare la
schizofrenia; universo alienante ed alienato visto dal migliore dei mondi possibili. Mondo in cui il
pensiero dominante è il pensiero comune timoroso di una struttura rizomatica che ne metta in
discussione le premesse, che teme nuove forme d’esperienza dell’Altro, che vede il divenire come
mera categoria temporale e non come tendenza fondante della struttura esperienziale.
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1. Bergson e Minkowski: dalla filosofia alla psichiatria
“Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo nel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati. Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran porto”
Dino Campana, Opere. Canti orfici e altri versi e scritti sparsi
Come già accennato in precedenza, i protagonisti del seguente Capitolo saranno anche coloro che
detteranno le basi fondamentali del ragionamento posto in essere; con ciò si intende stabilire le linee
guida terminologiche e di pensiero mediante le quali poter inscrivere un caso clinico all’interno di
una cornice e di un’ermeneutica filosofica.
Parlare di Bergson e Minkowski è parlare di maestro e allievo: tuttavia via circoscrivere l’attività del
primo nel secondo, e viceversa, risulterebbe ingiusto.
Difatti entrambi, con i propri strumenti di pensiero, hanno saputo educare le menti attraverso la
scrittura ancor prima che attraverso gli insegnamenti in aula e la professione di medico.
“Primum filosofare, deinde vivere
14
”potrebbe essere il motto rivisitato per entrambi; per il primo non
si obietta alcunché mentre per quanto concerne il medico russo, la situazione diviene ostica
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.
Tacciato di filosofeggiare
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piuttosto che curare, Minkowski non ha scisso la propria professione da
quello che, in determinati ambiti medici, sarebbe potuto essere una passione come un’altra bensì,
conscio dello sforzo di integrazione immane che lo attendeva, ha consapevolmente scelto di
14
Ritengo che questa concezione del pensiero rispecchi esattamente le frasi che verranno e la conseguente impostazione
a monte del lavoro: dall’umano al propriamente umano, non ragioniamo nella logica del prima vivere (pensare alle cose
vitali e utili) bensì al contrario prima è necessario porre l’attenzione verso l’essenza stessa di esse.
15
E. Minkowski, Il tempo vissuto, p. 7.
16
E. Minkowski, Trattato di psicopatologia, p. 31: «Quanto ai miei lettori medici, mi rendo conto che questo trattato, per
il suo orientamento, esula in parte dal campo delle nostre preoccupazioni quotidiane. Forse essi lo troveranno troppo
“filosofico”. Il fatto è che questo trattato, per quanto possa apparire filosofico, è nato a contatto diretto con i pazienti».