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risparmio, ecc.). Da ciò deriva che il singolo individuo acquista beni e
servizi sempre più per soddisfare un bisogno di stima e di
autogratificazione; inoltre, egli utilizza i processi di acquisto e di consumo
per manifestare il proprio stile di vita. Il consumo di un prodotto diventa un
atto che esprime la personalità e l’individualità di chi lo compie. E’ quindi
comprensibile, ad esempio, il grande successo ottenuto da prodotti quali gli
orologi Swatch o, nel settore dell’abbigliamento casual, dalla Diesel, le cui
campagne pubblicitarie, cogliendo le tendenze del momento, evidenziano
un certo stile di vita, trasgressivo e non convenzionale, piuttosto che il
prodotto in sé.
2. I nuovi orientamenti del marketing
I cambiamenti attualmente in corso, descritti sinteticamente in
precedenza, determinano uno spostamento del marketing da un
orientamento transazionale a breve termine ad un orientamento relazionale
(relationship marketing), volto alla creazione e alla gestione di relazioni a
lungo termine [Troilo 1994].
Secondo l’approccio tradizionale il marketing si occupava delle
transazioni in un’ottica di breve periodo: una volta ceduto il prodotto al
consumatore, il marketing aveva in gran parte esaurito il suo compito.
La transazione era effettuata utilizzando le leve del marketing mix
(prezzo, prodotto, distribuzione e comunicazione) e l’indicatore del
successo era la quota di mercato: se l’impresa riusciva a mantenere stabile,
o addirittura incrementare, il proprio fatturato in rapporto a quello
dell’intero settore, ciò era sintomo di una politica di marketing di successo.
Esisteva, infine, una stretta connessione tra le attività di marketing e la
funzione organizzativa deputata allo svolgimento delle stesse; da ciò
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conseguiva spesso una scarsa integrazione tra la funzione marketing e le
altre funzioni.
Le tendenze attuali rendono sempre più necessario un controllo del
mercato finale. La maggior parte dei comparti merceologici non cresce più
ed è ormai avviata alla saturazione: gli acquisti avvengono perciò
prevalentemente per sostituzione.
Non è più rilevante la singola transazione, bensì che i consumatori
ripetano gli scambi nel tempo [Ambler 1998]. L’attenzione passa dunque
dalla ricerca di nuovi clienti al mantenimento di quelli acquisiti: un fatturato
realizzato con clienti consolidati, cioè con clienti fedeli che riacquistano
dalla stessa azienda, è più facile, più economico e più sicuro per la
sopravvivenza di quello realizzato con clienti nuovi. Un cliente diventa
consolidato se è stato soddisfatto dell’acquisto precedente: la soddisfazione
del cliente diventa quindi la vera priorità dell’azienda.
Il marketing deve pertanto prevedere i comportamenti del consumatore
e quindi segmenti e prodotti futuri, spostando l’orientamento temporale dal
breve al lungo periodo.
E’ inoltre necessario sviluppare le risorse immateriali quali l’immagine
aziendale, la fedeltà alla marca, la fiducia, la reputazione, più adeguate a
stimolare la ripetizione degli acquisti nel tempo. I consumatori, che
riversano negli atti di consumo motivazioni simboliche e che, data l’elevata
diffusione della tecnologia, trovano tecnicamente più simili i prodotti,
saranno indotti all’acquisto da attributi connessi alle risorse immateriali
piuttosto che a quelle materiali (impianti, attrezzature, risorse finanziarie,
ecc.).
In più, data la criticità assunta dalla customer satisfaction, la quota di
mercato non può essere utilizzata quale unico indicatore di successo. Se
alcuni consumatori acquistano un prodotto, ma insoddisfatti, non ripetono
l’acquisto, e l’impresa riesce comunque a sostituirli con altri acquirenti, la
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quota di mercato non muta, ma di certo non è sintomo di una valida politica
di marketing.
In questo nuovo contesto, indicatori di successo sono quelli che
ricercano le motivazioni alla base della insoddisfazione del cliente e
portano alla messa a punto di metodologie e strumenti atti a rilevarle e ad
apporre dei correttivi. L’obiettivo è quello di individuare e ridurre i
differenziali tra l’offerta dell’impresa e le richieste dei clienti quali il gap di
sintonia (allineamento dell’offerta rispetto alle esigenze dei clienti), il gap
di valore (qualità che i clienti attribuiscono all’offerta inferiore alla qualità
da loro desiderata), il gap di percezione (divergenza tra la qualità
oggettivamente offerta dall’impresa e la qualità percepita dai clienti), il gap
di allineamento (divergenza tra la qualità pianificata dal vertice aziendale e
gli standard qualitativi percepiti dal personale), il gap di progettazione
(divergenza tra gli standard qualitativi dell’organizzazione e la qualità
effettivamente offerta), il gap di realizzazione (incapacità di costruire
un’offerta perfettamente rispondente a quanto progettato), il gap di
coinvolgimento (scostamento tra gli standard qualitativi pianificati dal
vertice aziendale e la qualità offerta dall’impresa) e il gap di consonanza
(divergenza tra gli standard di qualità percepiti e dichiarati dal personale e
le percezioni dei clienti sul livello qualitativo dell’impresa) [Valdani e
Busacca 1992].
Da ultimo, affinché i consumatori siano soddisfatti, è necessaria
un’integrazione funzionale, ovvero un diffuso utilizzo del marketing
interno, che coinvolga l’intera organizzazione, la orienti e la motivi ad agire
verso la realizzazione di un output adeguato alla soddisfazione dei benefici
ricercati dai clienti.
In conclusione, le imprese devono sviluppare un’offerta che soddisfi
pienamente le attese e le esigenze della domanda, adottando un
comportamento costantemente preventivo e proattivo rispetto ai
10
cambiamenti in corso al fine di creare, mantenere e sviluppare una stabile
relazione con i propri clienti.
3. Le soluzioni organizzative
I cambiamenti nello scenario economico e la conseguente enfasi posta
sul concetto di orientamento al cliente hanno indotto le imprese a
considerare il concetto di qualità quale principale fattore di successo per la
competizione.
Tale concetto ha assunto nel tempo significati diversi [Varaldo e Guidi
1997]. La qualità infatti non riguarda più esclusivamente la qualità tecnica o
intrinseca dei prodotti in termini di difetti zero e non può essere ottenuta
unicamente attraverso la conformità alle specifiche (qualità come
rispondenza del processo produttivo a quanto definito e stabilito in
progettazione) e allo scopo (qualità vista cioè in termini di disponibilità,
affidabilità, sicurezza, ecc.).
E’ invece la risposta a tutte le esigenze dei clienti, in particolare a
quelle di servizio. La qualità viene rappresentata dalla capacità di allineare
l’intero sistema aziendale (strategia, struttura, uomini e processi
organizzativi) ai bisogni espressi dal consumatore, perseguendo obiettivi e
strategie orientate a conservare i clienti.
L’organizzazione deve quindi porre in primo piano il problema del
coordinamento e dell’integrazione della sequenza di attività, concentrandosi
sui processi aziendali: infatti l’output offerto al cliente, che è colui che
garantisce la sopravvivenza dell’azienda, è il risultato sinergico dei processi
di realizzazione dei prodotti/servizi e non di una serie di singole attività
funzionali.
La mansione del management diventa pertanto il miglioramento del
processo aziendale. I principali obiettivi da raggiungere sono: rendere il
11
processo efficace ottenendo il risultato desiderato, rendere il processo
efficiente minimizzando le risorse utilizzate e, infine, rendere il processo
adattabile ai mutevoli bisogni del consumatore.
A questo scopo possono essere di ausilio due tecniche diverse, ma
complementari: il Continuos Business Process Improvement (CBPI) e il
Business Process Reeingineering (BPR) [Bredrup 1995].
Attraverso il Continuos Business Process Improvement si mira ad
implementare un miglioramento continuo ed incrementale, avente uno
scopo ed un impatto limitato.
Il Business Process Reengineering, al contrario, focalizza i processi
chiave dell’azienda ovvero quei punti dove si situa il maggior effetto leva,
in cui azioni limitate, ma ben orientate riescono a produrre cambiamenti
significativi e durevoli.
Secondo la definizione data da Hammer e Champy [1994], teorici di
tale modello, il reengineering è il ripensamento di fondo e il cambiamento
radicale dei processi aziendali finalizzato a realizzare straordinari
miglioramenti nei parametri critici delle prestazioni come i costi, la qualità,
il servizio e la rapidità. Essendo un ridisegno radicale che ignora tutti i
sistemi e le procedure esistenti ed inventa modi del tutto nuovi per
realizzare il lavoro, si attua solamente se vi è la necessità di un
miglioramento radicale: i miglioramenti di qualche punto percentuale si
realizzano perfezionando ciò che già esiste.
Tuttavia, sebbene tali strumenti manageriali ridisegnino il processo in
funzione dei bisogni del consumatore, prestano scarsa attenzione alle
imprese che utilizzano prassi migliori; tendono, di conseguenza, a
rafforzare una sensazione di superiorità e ad alimentare giustificazioni di
comodo.
In quest’ottica diviene importante l’utilizzo del benchmarking quale
strumento manageriale finalizzato all’implementazione della qualità totale.
Tale tecnica permette di identificare le pratiche che consentono una
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performance superiore nelle aziende prese come modello e che possono
essere poi adottate nella propria organizzazione.
Si tratta di un ampliamento di orizzonte, che porta ad uscire dal proprio
contesto abituale, confrontandosi con il resto del mondo e innesca una
spirale virtuosa di cultura aziendale, che porta all’abbandono del “si è fatto
sempre così” per sostituirlo con “non c’è limite al meglio”
1
.
4. Sintesi degli argomenti
Questo lavoro si propone come obiettivo di illustrare le caratteristiche
principali del benchmarking sotto l’aspetto sia teorico, sia pratico.
Lo studio si articola in cinque capitoli.
Nel primo capitolo viene illustrato il concetto di benchmarking. Si
descrive la genesi di tale tecnica (il contesto in cui nacque e i suoi sviluppi
ulteriori) e se ne riportano le principali definizioni formulate dalla
letteratura. Vengono inoltre descritti i principi e i requisiti che stanno alla
base di questa metodologia e i vantaggi che ne derivano. Si analizzano,
infine, le varie tipologie di benchmarking. Quelle più significative si
caratterizzano per il tipo di partner scelto per attuarlo (interno, competitivo
ed intersettoriale) e per l’oggetto del benchmarking stesso (strategico,
operativo e di processo).
1
Il benchmarking è talmente connaturato nella cultura delle imprese giapponesi da rendere
inutile una parola specifica. I termini dantotsu (sforzarsi per essere il meglio del meglio) e sukko
(trasferire il personale in aree esterne all’organizzazione affinché apprendano e riferiscano nuove
conoscenze) riassumono i principi del benchmarking giapponese, legato al concetto di
apprendimento continuo.
Taiichi Ohno, vice-presidente esecutivo della Toyota, può essere considerato il precursore di
tale tecnica manageriale: dall’osservazione della modalità di rifornimento degli scaffali di un
supermercato americano per rispondere ai bisogni della domanda, compiuta durante un viaggio di
lavoro nel 1956, egli modellò il sistema kanban di gestione del flusso di magazzino. Il principio
dello scaffale divenne dunque l’ispiratore che rese operativo il metodo di gestione delle scorte just-
in-time.
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Il secondo capitolo contiene considerazioni etiche e legali; esamina,
poi, il ruolo svolto dalle organizzazioni di benchmarking, ponendo una
particolare attenzione alla realtà italiana.
Nel terzo capitolo vengono presentate le fasi nelle quali si articola il
processo di benchmarking. Il processo proposto nasce dall’esperienza
maturata dalla Xerox (prima azienda ad aver implementato il
benchmarking) e descritta da Robert Camp, responsabile del processo di
benchmarking all’interno dell’azienda stessa.
Il quarto capitolo illustra il grado di conoscenza e diffusione del
benchmarking nell’attuale contesto industriale italiano.
Nel quinto, ed ultimo capitolo, si riporta un’applicazione concreta di
benchmarking realizzata dalla Riello, azienda italiana leader nel settore del
benessere ambientale, evidenziandone criticità e vantaggi. Il caso Riello si
riferisce, in particolare, ad un progetto di benchmarking teso al
miglioramento della customer satisfaction.
Infine, si riportano nella conclusione delle considerazioni sul futuro del
benchmarking e si analizzano, in particolare, le prospettive di applicazione
nel contesto italiano.
Desidero esprimere la mia gratitudine a quanti hanno contribuito alla
realizzazione di questo lavoro.
In particolare, rivolgo i miei più sentiti ringraziamenti al Ch.mo Prof.
Umberto Collesei per i preziosi suggerimenti ricevuti e alla R.B.L. Riello
Bruciatori Legnago per la disponibilità concessami.
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CAPITOLO 1
IL CONCETTO DI BENCHMARKING
SOMMARIO: 1. Le origini del benchmarking. – 2. Definizione e contenuto del
benchmarking. – 3. I principi del benchmarking. – 4. I requisiti del benchmarking.
– 5. Il benchmarking e l’analisi competitiva. – 6. Il benchmarking come strumento
di apprendimento. – 7. I vantaggi del benchmarking. – 8. Le tipologie di
benchmarking.
1. Le origini del benchmarking
La disciplina del benchmarking è nata negli Stati Uniti in tempi
relativamente recenti.
La cronologia del benchmarking si può far risalire al 1972 quando SPI
(Strategic Planning Institute), società di ricerca e consulenza operante in
Europa con il nome di Pims (Profict Impact of Market Strategy), mise in
evidenza che per trovare soluzioni efficaci alla competizione è necessario
abbinare alla logica settoriale la ricerca di modelli di riferimento in altri
comparti, studiando e applicando l’esempio di imprese che hanno successo
in condizioni simili.
Un secondo passo importante per il benchmarking si riferisce
all’esperienza Xerox, azienda che per prima ha individuato e
istituzionalizzato tale metodologia [Cross e Iqbal 1995, 4].
Negli anni sessanta e settanta, la Xerox era un’azienda leader
nell’industria delle fotocopiatrici e operava in un regime di sostanziale
15
monopolio. Quando, durante la metà degli anni settanta, terminò il periodo
di copertura brevettuale, si trovò a fronteggiare concorrenti molto
aggressivi che si dimostravano superiori nei prezzi, nella qualità e in altre
importanti misure. Fu così che nacque il benchmarking: per le crescenti
perdite di quote di mercato, la Xerox si vide costretta ad analizzare a fondo
la concorrenza, ma con un approccio diverso da quelli già utilizzati e più
aggressivo ed esteso rispetto alla tradizionale analisi competitiva.
Le prime fasi di benchmarking, avviate nel 1979, vennero definite
“confronto di caratteristiche e di qualità dei prodotti” e presero di mira i
costi unitari di produzione delle varie unità produttive. A questo scopo si
ricorse all’analisi retrospettiva del prodotto (reverse engineering) partendo
dai prodotti della sua affiliata giapponese, la Fuji-Xerox, per confrontare le
caratteristiche funzionali e meccaniche; ciò comportò lo smontaggio del
prodotto e un’accurata analisi dei materiali e dei metodi usati per costruirlo.
Un benchmarking di maggior portata, chiamato “benchmarking
competitivo”, fu realizzato nel 1981 quando vennero analizzate anche le
copiatrici prodotte dai concorrenti giapponesi (Minolta, Ricoh, Canon e
altri). Le indagini confermarono che i costi di produzione negli Usa erano
sensibilmente più alti: la concorrenza vendeva le macchine al costo di
fabbricazione della Xerox. Sulla base di questi risultati vennero adottati dei
punti di riferimento esterni (benchmark) come traguardi dei propri piani
aziendali e si stabilì che il benchmarking doveva essere usato da tutte le
unità commerciali e da tutti i centri di costo come strumento per rivedere e
cambiare il proprio modo di lavorare.
Il progetto ebbe così successo che, negli anni successivi, l’attenzione
venne estesa oltre lo studio del prodotto finito o del servizio e si concentrò
sui principali processi aziendali (la distribuzione, la fatturazione e l’incasso,
i servizi di riparazione, l’assistenza post vendita).
In seguito, il confronto venne attuato non solo con i concorrenti diretti,
ma anche con i best performer. Dovunque trovasse qualcosa che gli altri
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facevano meglio, la Xerox fissava quel livello di performance come nuovo
standard delle proprie operazioni. E’ emblematico al riguardo il caso del
miglioramento della distribuzione dei propri prodotti dato dal confronto con
la distribuzione degli stivali e di altre attrezzature da pesca sviluppata dalla
L.L. Bean, una società di vendita per corrispondenza all’avanguardia nella
gestione del magazzino e nell’evasione degli ordini.
Dal 1990 il benchmarking è stato esteso a tutti gli aspetti aziendali
diventando parte integrante della cultura manageriale. Attualmente il
benchmarking alla Xerox è considerato, insieme al coinvolgimento del
personale e alla qualità del processo, il punto centrale del programma della
gestione della qualità ed è il principale fattore che ha determinato il
risanamento della posizione competitiva.
Dall’esperienza della Xerox l’uso del benchmarking si diffuse
rapidamente in tutti gli Stati Uniti. Numerose imprese quali Motorola, 3M,
Ford, Hewlett-Packard, IBM, AT&T e DuPont iniziarono a credere nelle
nuove pratiche di analisi comparativa e a scambiarsi esperienze.
Nel corso degli anni ’80, tale nuova prassi ricevette ulteriori spinte. Nel
1989 apparve il primo libro scritto da Robert Camp, in cui si illustravano gli
sforzi di benchmarking alla Xerox e, in seguito, nacquero lo Spi
Benchmarking Council di Pims e l’International Benchmarking Clearing
House.
Un altro impulso significativo allo sviluppo del benchmarking fu
l’inclusione, nel 1987, del benchmarking fra i criteri di giudizio del
prestigioso premio americano per la qualità, il Malcom Baldrige National
Quality Award [Zairi 1992, 36]. Il premio ha lo scopo di promuovere la
diffusione di una consapevolezza dell’importanza della qualità e di
riconoscere i risultati qualitativi conseguiti da aziende americane, nonché di
promuovere la conoscenza delle strategie qualitative di successo.
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Il benchmarking viene esplicitamente richiesto come requisito per la
certificazione; è specificatamente contemplato in una sezione del premio,
ma la sua importanza è evidente in tutti i criteri di valutazione,
influenzando, direttamente o indirettamente, fino al 50 per cento del
punteggio. Le aziende vengono incoraggiate a considerare la natura e
l’efficacia delle loro prassi e dei loro risultati qualitativi in relazione a quelli
di altre organizzazioni definite come “best-in-class” (le migliori di un
settore funzionale) o “world class”, di classe mondiale. Le aziende sono
spinte a confrontare le loro prassi non soltanto con quelle dei loro
concorrenti, ma anche con quelle di qualsiasi organizzazione che abbia
raggiunto una posizione di notevole eccellenza relativamente a processi o a
risultati.
In Europa il benchmarking si è diffuso solo negli anni ’90 quando le
aziende in qualche modo collegate con quelle statunitensi hanno
incominciato a praticare il benchmarking.
Dopo l’esperienza statunitense, molte altre nazioni europee hanno
ritenuto di istituire dei premi per facilitare la diffusione della cultura della
qualità totale, nei quali il benchmarking appare proprio come uno dei criteri
di valutazione.
Importante è stata l’introduzione, nel 1992, dell’European Quality
Award, promosso dall’ European Foundation for Quality Management
2
(EFQM) con il supporto della Commissione Europea e dell’European
Organization for Quality (EOQ) e presentato annualmente alle
organizzazioni che dimostrano di aver raggiunto risultati eccellenti nel
management della qualità. Il punteggio per l’assegnazione del premio tiene
infatti conto dei confronti con le organizzazioni esterne includendo sia i
concorrenti diretti, sia le organizzazioni “best-in-class” (ove possibile).
2
Fondata nel 1988 dai presidenti di 14 grandi aziende europee e successivamente allargata
ad altre tipologie di soci.