5
Durante gli anni ’60, con l’istituzione della scuola media unificata, iniziò nel
nostro paese il fenomeno della scolarizzazione di massa: le scuole speciali per
soggetti minorati aumentarono progressivamente e contemporaneamente vennero
istituite le classi differenziali per tutti quei bambini che, pur non essendo disabili,
creavano alla scuola problemi di gestione comportamentale e di organizzazione
didattica.
E’evidente come la tendenza di quegli anni fosse ancora quella di allontanare
gli invalidi, gli svantaggiati e tutte le forme di disadattamento ambientale dal
tessuto sociale e scolastico collettivo e di “proteggere”in questo modo l’istituzione
scolastica.
Con gli anni ’70, che furono gli anni della grande “democratizzazione” della
scuola e della società, la figura sociale delle persone handicappate perde quella
connotazione di marginalità quasi totale che si era concretizzata con l’esclusione e
l’isolamento del periodo precedente; si apre, infatti, un forte dibattito socio-
politico entro il quale matura sempre di più la critica alle strutture emarginanti e al
modo in cui vengono assistiti, curati ed educati gli handicappati negli istituti.
Prendono avvio così le prime esperienze spontanee di inserimento scolastico, le
quali però, prive di un apparato organizzativo capace di sorreggerle e di un
adeguato approfondimento culturale, avvengono in modo scoordinato e senza
alcuna progettazione specifica.
L’enfasi veniva posta sullo “stare con gli altri”, sulla partecipazione ad ogni
attività ed esperienza della scuola, indipendentemente dal raggiungimento di
obiettivi significativi in termini di apprendimento per l’alunno in situazione di
handicap; mancava perciò una vera e propria progettazione didattica e l’obiettivo
6
prioritario della “socializzazione in presenza” veniva affidato alla figura a cui era
delegato il rapporto con l’alunno “diverso”: l’insegnante di sostegno.
Nonostante i limiti di queste prime sperimentazioni, la presenza di alunni
disabili costrinse gradualmente la scuola a porsi il problema di come gestire la
diversità all’interno della classe.
Durante gli anni ’80 si determinò una consistente evoluzione rispetto al tema
dell’handicap: venne superato l’approccio dell’uguaglianza, per cui il bambino
handicappato doveva essere il più possibile come gli altri, per assumere
l’approccio della diversità come risorsa individuale; ciascun alunno è diverso da
tutti gli altri per elementi di storia e di identità, per stili di apprendimento e per
capacità comunicative e cognitive: per questa sua specificità egli vuole essere
riconosciuto.
Il termine integrazione ha così sostituito quello di inserimento nell’ambito
scolastico, sociale e legislativo, segnando il passaggio dalla realtà del bambino
disabile inserito nella scuola, ma sostanzialmente isolato ed evitato, alla fase in
cui ci si impegna attivamente perché egli sia pienamente integrato nel gruppo dei
suoi coetanei, della scuola, del territorio.
Naturalmente la realizzazione di questi intenti non è stata e non è di facile
attuazione: essi non solo pongono problemi di gestione organizzativa alla scuola
ma, più importante, esigono l’attivazione di processi di cambiamento e di
adattamento profondi, il riconoscimento e l’assunzione di responsabilità sia da
parte della comunità scolastica che di tutte le istituzioni e i soggetti che ruotano
intorno al “sistema handicap”.
7
Il presente lavoro si apre con la descrizione dell’excursus culturale e legislativo
che ha condotto alla promulgazione della legge n. 104 del ’92, legge-quadro
sull’assistenza, l’integrazione e i diritti delle persone handicappate, che ha
recepito le istanze migliori condotte negli anni precedenti e ha riproposto una
nuova spinta innovativa, qualificata e qualificante l’integrazione scolastica dei
bambini portatori di handicap.
Dalla constatazione che a livello teorico l’integrazione dei bambini disabili
nelle classi della scuola comune è affermata come un diritto ormai acquisito ed
irreversibile, è nata l’idea di condurre un’indagine conoscitiva in alcune scuole
elementari e medie che accolgono alunni in situazione di handicap, con lo scopo
di verificare concretamente le modalità e il grado di attuazione del processo
integrativo.
8
Capitolo 1
Evoluzione della legislazione italiana
La storia della legislazione a favore dei disabili nel nostro Paese, è la storia
della condizione delle persone handicappate e di come e quanto è cambiata la
concezione dell’handicap nel contesto sociale e culturale.
Le norme legislative che hanno regolato la vita dell’istituzione scolastica in
Italia, negli ultimi decenni, possono essere intese quali indicatori della sensibilità
che la nostra società è stata in grado di manifestare nei confronti dell’integrazione
sociale e scolastica degli handicappati e delle modificazioni di questa sensibilità.
Tuttavia, i cambiamenti in questo settore sono stati, spesso, così lenti, complessi e
a volte contraddittori che solo con adeguate forzature possono essere letti
totalmente a favore dei disabili.
E’ utile quindi cercare di evidenziare i momenti critici che hanno caratterizzato
i vari passaggi nella coscienza sociale.
1
Possiamo individuare quattro di questi momenti, ognuno dei quali sottende
modi diversi di concepire l’handicap e il problema della sua integrazione:
1
Meazzini P., 1997, p. 157
9
• Prima fase: esclusione (1920-1960)
• Seconda fase: medicalizzazione (1960-1970)
• Terza fase: inserimento (1970-1977)
• Quarta fase: integrazione (1977-1994)
1.1 Fase dell’esclusione
Il primo intervento dello Stato in materia di istruzione ai minori “anormali” si
ha con la Riforma Gentile del 1923, con la quale l’istruzione obbligatoria viene
estesa ai ciechi ed ai sordomuti e dalla quale prende avvio l’organizzazione delle
classi differenziali.
Il successivo art. 415 del Regolamento Generale dell’Istruzione Elementare del
1928, recita che:
“Quando gli atti di permanente indisciplina siano tali da lasciare il dubbio che
possano derivare da anormalità psichiche, il maestro può, proporre
l’allontanamento definitivo dell’alunno al Direttore Didattico, il quale curerà
l’assegnazione dello scolaro alle classi differenziali che siano istituite nel comune
o, secondo i casi, d’accordo con la famiglia, inizierà le pratiche opportune per il
ricovero negli istituti per l’educazione dei corrigendi.”
E’ facile constatare come la filosofia che ispira questo provvedimento sia
quella dell’esclusione: i comportamenti inadeguati determinano l’allontanamento
10
dell’alunno dall’istruzione normale e il suo inserimento in strutture speciali; in
questo modo l’istruzione scolastica risulta “protetta”.
Questa mentalità si esprime attraverso due comportamenti: il rifiuto e la delega.
Il primo determina sia l’assenza dell’handicappato nella scuola pubblica, sia la
mancanza di un intervento dello Stato in campo educativo.
A questi problemi devono far fronte altri soggetti istituzionali, in particolare i
grandi Comuni e le istituzioni caritative e assistenziali, laiche e religiose.
Sorgono così gli istituti medico-psicopedagogici (quasi sempre con internato)
volti a colmare l’assenza dello Stato in questo settore.
Caratteristiche fondamentali di questa prima legislazione sono la legittimazione
della separazione dei portatori di handicap dal contesto sociale, la monetizzazione
dell’handicap come risposta ai bisogni ed alle esigenze delle famiglie e la
divisione dei cittadini con handicap in categorie individuate in base al tipo di
deficit o alla sua causa.
2
Una tappa fondamentale dell’evoluzione legislativa in questa fase storico-
culturale è rappresentata dalla promulgazione della Costituzione (1948): essa,
come è noto, sancisce i fondamentali diritti civili della nostra società e la nozione
di uguaglianza effettiva dei cittadini viene finalmente configurata con pienezza
giuridica.
Art. 3: “…è fatto obbligo allo Stato di rimuovere gli ostacoli economici e
sociali che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini ed impediscono il pieno
sviluppo della personalità umana”
2
Gallotta V., Vitale C., 1987
11
Art. 34: “…non solo viene resa obbligatoria e gratuita l’istruzione inferiore
per almeno 8 anni, ma viene affermato che la scuola è aperta a tutti”
Art. 38: “Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione ed
all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono
organi ed istituti predisposti o integrati dello Stato.”
Nonostante la promulgazione della carta costituzionale avesse riconosciuto
precisi diritti a tutti i cittadini, si assiste, tuttavia, fino agli anni ’60, ad un
avvicendarsi di provvedimenti che di volta in volta interessano una specifica
categoria di portatori di handicap ed ognuno dei quali considera soltanto una
particolare esigenza (economica, sanitaria, ecc.).
Anche nel settore scolastico non si registrano cambiamenti significativi: la
tendenza rimane quella di allontanare gli invalidi dal tessuto sociale e scolastico
collettivo e di emanare disposizioni che consentano la presenza e la crescita
vertiginosa di classi differenziali e scuole speciali.
12
1.2 Fase della medicalizzazione
Gli anni ’60 segnano un preciso stacco rispetto al passato, non soltanto per il
numero davvero elevato degli atti normativi prodotti, ma anche per la diversa
logica che caratterizza l’intervento statale.
Il primo cambiamento consiste nel fatto che lo Stato ritiene suo preciso
compito interessarsi e occuparsi direttamente anche degli handicappati
“psicofisici” o “gravi”, non però all’interno della scuola normale, bensì attraverso
un rafforzamento e una diversificazione di strutture speciali.
Cambia anche il modo di concepire l’handicap: se nella fase precedente la
figura sociale delle persone handicappate aveva avuto come connotazione costante
la marginalità quasi totale, concretizzata quasi sempre con l’esclusione e
l’isolamento, l’atteggiamento clinico psichiatrico di stampo positivista e
organicista di questo periodo fa si che l’handicap venga ora concepito come
“malattia”.
Questa concezione si basa su due principi: la diagnosi come ricerca delle cause
organiche e la cura realizzata con interventi prettamente sanitari.
Di conseguenza l’individuo viene identificato con la lesione dell’organo e con
il deficit che da essa dipende: l’handicappato è una persona che deve essere
curata, la maggior parte delle volte, lontano dal proprio contesto di vita.
Vengono istituiti gli ospedali psichiatrici e i riformatori per l’assistenza
all’infanzia, attraverso i quali lo Stato si fa garante di curare tutte quelle persone
13
che per disagio psicofisico o per abbandono erano fino ad allora sopravvissute
grazie all’esistenza di enti assistenziali e caritatevoli.
A partire dagli anni ’50 fino al 1970 vengono elaborati strumenti di ordine
medico-scientifico che contribuiscono, ancora una volta, a rafforzare l’immagine
dell’handicappato come quella di soggetto da emarginare: la diffusione delle
équipe psico-medicopedagogiche, l’affermarsi di una scuola con presupposti
selettivi e la diffusione di un sistema assistenziale basato esclusivamente su una
concezione custodialistica.
La segregazione in luoghi isolati sembra essere la forma di cura più
soddisfacente e la soluzione più idonea ai vari problemi che i portatori di handicap
pongono in famiglia e all’organizzazione sociale.
Anche nel settore più strettamente scolastico “la diversità viene intesa come
malattia sociale e l’approccio è eminentemente di tipo medico”
3
.
L’attenzione è centrata sul deficit: l’handicap “definisce” il soggetto che
diventa un caso e l’insegnante si affida allo specialista il quale classifica l’alunno
e, attribuendogli un’etichetta, rassicura l’insegnante.
L’attribuzione di “etichette stigmatizzanti” porta l’insegnante ad evidenziare
solo i comportamenti dell’allievo che rientrano nei giudizi già emessi. Viene
inoltre rafforzato l’atteggiamento di “delega” e quindi manca l’assunzione di
responsabilità personali.
La comunità scolastica, nel suo insieme, non è coinvolta in alcun modo in
questo processo: essa è estranea al lavoro collegiale e, non possedendo la
3
Meazzini P., 1997, p. 159
14
necessaria flessibilità, non ammette al suo interno la diversità dell’handicap,
sentita come minaccia per l’ordinario svolgimento dell’attività didattica.
La certificazione dell’handicap non è quindi un’indicazione fornita dalla scuola
al fine di avviare iniziative adeguate di recupero, ma un lasciapassare verso
strutture speciali.
15
La Circolare Ministeriale n. 4525 del 9/7/’62 prevede che:
“la segnalazione della minorazione sarà fatta dall’insegnante, con relazione
scritta al Direttore Didattico, il quale, dopo che le competenti autorità sanitarie
avranno accertato il tipo di minorazione, avvierà l’alunno alla scuola
corrispondente”
Come conseguenza di tale politica assistiamo, nell’arco di questo decennio, ad
un costante e notevole incremento di istituzioni speciali, fino a raggiungere la
punta massima nel 1973-74: il processo di emarginazione e di esclusione
raggiunge livelli mai registrati prima e i minori con handicap in istituti passano da
27.985 a 41.443 (circa il 50%).
4
Proprio in questi anni ha però inizio una flessione, dapprima lieve, poi sempre
più imponente ed accelerata, sintomo di una tendenza completamente invertita: si
avvia un forte dibattito socio-politico entro il quale matura sempre di più la critica
alle strutture emarginanti e al modo in cui vengono assistiti, curati ed educati gli
handicappati negli istituti.
I maggiori promotori della contestazione alle strutture totalizzanti e fautori
dell’inserimento scolastico e sociale dei disabili sono innanzitutto le associazioni
di famiglie, i gruppi di operatori, le organizzazioni sociali spontanee e le
amministrazioni locali.
4
Gallotta V., Vitale C., 1987
16
La loro critica si arricchirà via via di contributi scientifici che modificano il
concetto stesso di handicap e di handicappato, considerato ora come “diversità” da
accettare.
Dal 1968 in poi, con la contestazione globale della struttura sociale allora
esistente, vengono messe in discussione anche le strutture che separano malati e
svantaggiati (quindi manicomi e scuole speciali) con la motivazione che il “male”
non si sconfigge con l’isolamento ma con l’integrazione.
Al bambino handicappato, insomma mancano stimoli e socializzazioni che si
otterrebbero con un inserimento nella scuola comune, a fianco dei compagni
normali.
Infatti, si sostiene giustamente, la mancanza di istruzione e l’inesperienza di
relazioni umane costituiscono un handicap aggiuntivo che rende difficile sviluppo
ed autonomia.
1.3 Fase dell’inserimento
L’intenso dibattito pedagogico della fine degli anni ’60 e le spinte ideologiche
del movimento contestativo, fanno sì che la scuola divenga una scuola “di massa”.
Prendono avvio agli inizi degli ani ’70 le prime esperienze spontanee di
inserimento scolastico, le quali però, prive di un apparato organizzativo capace di
sorreggerle e di un adeguato approfondimento culturale con funzione di filtro,
avvengono senza alcuna progettazione specifica, tanto da meritarsi l’etichetta di
“inserimenti selvaggi”.
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Pertanto, più che alla capacità di gestire con razionalità ed efficacia il difficile
processo dell’inserimento, si assiste al formarsi di due schieramenti contrapposti:
da una parte la richiesta della comunità sociale di un inserimento nelle classi
comuni, dall’altra il mondo della scuola e degli operatori che, impreparati a
rispondere a tali problematiche, vorrebbero il mantenimento delle classi speciali.
Il nuovo orientamento della coscienza pubblica si manifesta anche sul piano
legislativo: gli atti normativi dei primi anni ’70 segnano l’abbandono
dell’approccio medico a favore di una politica di inserimento.
A partire dalla legge 30 marzo 1971, n.118 si assiste ad una graduale
affermazione dei diritti civili dei portatori di handicap: questa può essere a ragione
considerata la prima tappa del cammino verso il reinserimento e l’integrazione.
“…l’istruzione dell’obbligo [degli alunni in situazione di handicap] deve
avvenire nelle classi normali della scuola pubblica salvo i casi in cui i soggetti
siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale
gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento
nelle predette classi normali.”
Con questa legge il Parlamento contempla provvidenze destinate alla generalità
o quasi delle persone in situazione di handicap, interrompendo una lunga stagione
di norme che riguardavano, di volta in volta, categorie diverse di invalidi; anzi,
successivamente la Camera si preoccupa di impegnare il Governo “perché in sede
di applicazione della legge il concetto dell’estensione dell’intervento a tutte le
18
categorie non fosse deformato con interpretazioni limitative, specie per quanto
atteneva alla definizione del concetto di minorazione”
5
.
Sul piano pedagogico e didattico l’attenzione della legge n.118 è centrata
esclusivamente sugli interessi dell’alunno in situazione di handicap e non della
comunità scolastica che lo circonda. L’impedimento stesso alla frequenza della
classe comune, può derivare solo dalle difficoltà che il minore potrebbe
riscontrare, non già da eventuali turbamenti al resto della classe.
Inoltre l’eventuale insuccesso dell’inserimento non deve essere misurato solo
sul terreno dell’apprendimento, ma anche su quello dell’inserimento: in questo
modo la socializzazione viene resa un obiettivo istituzionale avente pari dignità
rispetto alla acculturazione valorizzando il concetto stesso di inserimento; esso è
quanto mai vasto e comprende una somma di relazioni umane e sociali atte a
sviluppare la personalità complessiva del minore e di competenze ben distinte
dalla sola acquisizione di un determinato corredo di conoscenze.
6
Al di là dell’indubbia validità dei cambiamenti apportati dalla legge 118, essa
prevede però un limite all’integrazione per i soggetti affetti da handicap gravi.
Questa puntualizzazione dà origine a interpretazioni fortemente riduttive del
diritto all’educazione e all’istruzione nelle classi comuni e ad episodi non isolati
di emarginazione dei minori in situazione di handicap.
E’ proprio in riferimento ai contenuti dell’art. 28 che nei successivi 20 anni, i
governi perfezionano le disposizioni e approvano le necessarie modifiche alle
5
Pavone, Tortello, 1983, p.23
6
Comassi M., Ed. Del Cerro, Tirrenia,1979