5
Introduzione
La Commedia di Dante Alighieri rappresenta senza dubbio uno dei punti più alti della
letteratura occidentale. Prima di questo essa è espressione e perfetta sintesi di una particolare
“ontologia” che, come si vedrà, assume caratteri specificamente cristiani e medievali.
Confrontarsi con un’opera del genere significa, dunque, confrontarsi anzitutto con un vero e
proprio mondo “altro”, dotato di proprie caratteristiche e referente di propri specifici miti. In
ragione di tale complessità, di tale carattere “sincretico” e “polisemico”, l’opera si presta a
diverse modalità interpretative che, cionondimeno, possono e devono trovare legittimazione
soltanto nel confronto con suddetta ontologia. Nelle pagine che seguiranno si cercherà di
provare la validità e l’efficacia, nello specifico, di una lettura mitico-ritualistica della Commedia
dantesca che abbia come proprio strumento d’analisi privilegiato la categoria concettuale del
“rito di passaggio”. In primo luogo, e ciò sarà argomento del primo capitolo, si cercherà di
giustificare l’uso di suddetta strategia interpretativa nel quadro di una più ampia “critica
antropologica”, tenendo in considerazione, nel fare ciò, la polisemia del testo e l’ontologia da
cui esso si sviluppa. Successivamente si passerà all’utilizzo del concetto operativo di “rito di
passaggio” per l’analisi di alcuni canti che, nel quadro complessivo del Purgatorio, svolgono
la funzione di mediare passaggi da uno spazio all’altro, da una condizione spirituale all’altra,
in un continuo moto ascensionale il cui significato alla fine della trattazione sarà reso più chiaro.
In particolare, il secondo capitolo si concentrerà sull’analisi del capitale passaggio compiuto
dal poeta nel trapasso dal mondo infernale a quello purgatoriale in Purgatorio I, e sulla sua
peculiare problematicità, che accompagnerà il viator sino alla fine del suo percorso di
purificazione. Il terzo capitolo si occuperà invece di definire, sempre attingendo al corpus
concettuale del “rito di passaggio”, la trasformazione avvenuta nella condizione del pellegrino
una volta giunto sulla soglia del Purgatorio strictu sensu, episodio che occupa le terzine di
Purgatorio IX e che necessita, per una piena comprensione, di una rapida disamina di
Purgatorio VIII, essenziale per cogliere la condizione spirituale di Dante all’inizio della propria
“ascensione” verso il Paradiso terrestre. Infine, il quarto ed ultimo capitolo avrà il compito di
chiudere l’analisi della vicenda di perfezionamento morale del poeta, riflettendo su Purgatorio
XXVII e sull’ultima prova a cui Dante dovrà sottoporsi, ossia il passaggio entro il muro di
fuoco, propedeutico all’accesso al giardino edenico e alla rinascita finale del poeta, homo novus.
7
1. Ragioni di una prospettiva antropologica
1.1. Abbozzo di una “critica antropologica”
1
Un’opera letteraria, al pari di qualsiasi altro fenomeno culturale, si presta ad essere
interpretata. Ogni nostra azione, infatti, nasce all’interno di un’ontologia che ne struttura
significato e valore, e a cui è necessario riferirsi per poterla efficacemente decodificare. Ciò
appare ancor più valido se ci si riferisce ad operazioni strettamente linguistiche, che necessitano
di un corpus di conoscenze condivise in grado di attribuire significato a segni, altrimenti,
insignificanti
2
: la parola, segno linguistico per definizione, è muta se astratta dal proprio sistema
di “significazione”. Ogni parola è, dunque, primariamente un segno linguistico, ove per “segno”
si intende «qualcosa che sta per qualcos’altro e che serve per comunicare questo
qualcos’altro»
3
; ma, tra queste stesse parole, non tutte possono assumere ciò che si potrebbe
definire come forma simbolica. Senza entrare nei particolari di un discorso troppo complesso
per poter essere presentato in questo contesto, si intende unicamente affermare una differenza
tra parola utilizzata come “segno” e parola avente una “forma simbolica”: il segno linguistico
ha, salvo rare eccezioni, un solo ed unico significato, inequivocabile; al contrario, una forma
simbolica, linguistica e non, sarebbe intrinsecamente polisemica, ossia in grado di unire, nella
sua sostanza, un numero variabile di significati potenzialmente coesistenti tra di loro. Un’opera
letteraria sarebbe quindi costituita da un insieme di segni linguistici, alcuni privi ed altri dotati
di una forma simbolica che, per essere compresa, necessita di un’interpretazione, o di una
“critica”. Questa avrebbe allora il compito, in primo luogo, di cogliere il surplus simbolico delle
parole e delle azioni letterarie. In secondo luogo, rendere tale dato simbolico maggiormente
fruibile alla comprensione del pubblico. Per fare questo, è necessario considerarlo anzitutto
come emanazione di una determinata “ontologia”, ovvero un “modo di essere nel mondo”. La
Commedia dantesca è un’opera letteraria ricca, se non addirittura “satura” di forme simboliche.
1
Il titolo di questo paragrafo trae ispirazione dall’opera di Ezio Raimondi, La critica simbolica, in Id., Metafora
e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino: Einaudi, 1970, pp. 3-30.
2
Sull’interpretazione dei segni linguistici, si veda Gaetano Berruto-Massimo Cerruti, La Linguistica. Un corso
introduttivo, Torino: Utet, 2017
2
, p. 7.
3
Ivi, p. 4.
8
Sulla scorta dei capitali studi di Erich Auerbach
4
, queste forme simboliche possono essere
generalmente ripartite in “allegoria”, “figura” e “simbolo”
5
. Come notato dallo stesso autore
6
,
suddette forme possono, in alcuni casi, coesistere e contaminarsi vicendevolmente, generando,
in ultima analisi, una dimensione fortemente polisemica all’interno del testo che, per poter
essere compresa, necessita di un’interpretazione.
Da quanto si è detto risulta evidente che una critica di questo tipo abbia come postulato
principale quello secondo cui «un’opera letteraria contenga un senso nascosto o implicito e che
tocchi alla strategia del lettore [di] portare alla luce questo significato profondo […]»
7
. Ora, è
possibile individuare diverse “strategie” utili alla decodificazione del “significato profondo” di
un’opera letteraria, altrimenti definibile come “surplus simbolico”
8
. Tra queste strategie
interpretative si è scelto di utilizzare, per l’analisi dei brani danteschi oggetto di studio, una di
tipo “mitico-ritualistica”, fondata sul presupposto che i principi strutturali della letteratura
abbiano uno stretto rapporto con la mitologia e la religione
9
. Tale strategia interpretativa, si
vedrà, è assolutamente giustificata per un’opera come la Commedia dantesca che, per voce dello
stesso autore, si propone al lettore come «poema sacro» (Par. XXV, vv. 1-9) e «sacrato poema»
(Par. XXII vv. 61-63). Per un’analisi di questo tipo è essenziale anzitutto definire le categorie
di “mito” e di “rito”, e come esse possano influenzare profondamente l’agire umano in ogni
ambito della sua esistenza.
1.2. Mito e Rito: verso un’interpretazione “mitico-ritualistica”
La fine del XX secolo è stata un’epoca caratterizzata da una serie di importanti riflessioni
critiche che hanno portato, in estrema sintesi, alla rivalutazione, da parte delle scienze
cosiddette “umane”, delle proprie principali categorie di analisi. Alla luce di questa
rivalutazione, anche la categoria del “mito” ha assunto nuove sfumature di significato. Nella
4
Cfr. Erich Auerbach, Figura, in Id., Studi su Dante, tr. it. dal tedesco di Maria Luisa de Pieri Bonino, dall’inglese
di Dante della Terza, Milano: Feltrinelli, 2021
10
, pp. 176-226. [ed. orig. Figura, in «Archivium romanicum», XXII,
(1938), 4, pp. 436-489].
5
Cfr. Ivi, p. 211. Lo studioso, si noti, utilizza la nozione di “forma simbolica”, ma lo fa associandole un significato
“stretto”. In questo contesto con il termine di “forma simbolica” si intende definire le varie modalità attraverso le
quali è possibile rappresentare potenzialmente più cose per mezzo di un’altra.
6
Cfr. Ivi, pp. 214-215.
7
Raimondi, Metafora e storia, cit., p. 3.
8
Sulle altre modalità interpretative, si veda ivi, p. 5.
9
Ivi, pp. 14-15.
9
piena consapevolezza della varietà delle definizioni proposte, a partire dall’antichità sino ad
arrivare ai giorni nostri, del fenomeno “mito” e dell’inevitabile riferimento all’etimo greco
“mythos” che impone il senso primario di “racconto”, si accoglie in linea di massima la
definizione del classicista Geoffrey S. Kirk, autore di diverse opere sul tema
10
. L’autore,
considerando la molteplicità irriducibile dei fenomeni situabili a diverso titolo entro la categoria
del “mito”, propone una nozione assai ampia del termine definendolo come “racconto
tradizionale”. Per quanto volutamente vaga sia questa nozione
11
, essa pone in primo piano due
dati fondamentali. Il mito è, anzitutto, un fenomeno linguistico che, in quanto tradizionale, si
trasmette nel tempo poiché considerato come “socialmente significante”. Qual è la ragione della
“salienza” del fenomeno mitico? In accordo con quanto affermato dallo storico delle religioni
Angelo Brelich
12
, la rilevanza del racconto mitico risiederebbe nella sua capacità di fornire un
senso, una giustificazione ad una realtà altrimenti indecifrabile e incontrollabile, fonte di
un’angoscia altrimenti insanabile. Ogni società, ogni cultura, ogni ontologia ha come
fondamento ultimo un insieme di miti, più o meno coerente, avente la capacità di fornire dei
“modelli” e delle “giustificazioni” ad ogni azione compiuta dall’essere umano, sottraendolo,
dunque, dall’angoscia dell’“insensatezza” del reale
13
. Imitando o raccontando gli atti esemplari
dei personaggi protagonisti delle vicende mitiche, generalmente divinità o esseri semi-divini,
l’essere umano sarebbe allora in grado di accedere alla «sola valida rivelazione della realtà»
14
.
Da questo punto di vista, il mito è allora parte integrante di qualsiasi processo di
«mondiazione»
15
, termine con il quale si definisce, nello specifico, la stabilizzazione di certi
aspetti, materiali e non, percepiti nel mondo abitato e vissuto dall’essere umano
16
. In base al
processo di mondiazione coinvolto, l’essere umano sarebbe portato a percepire e, di
conseguenza, ad interagire in modi diversi con gli esseri, animati o non animati, che
10
Si veda, in particolare, George S. Kirk, Il Mito, tr. it. di Barbara Fiore, Napoli: Liguori, 1980, pp. 17-55 (ed. orig.
Myth: Its Meaning and Functions in Ancient and other Cultures, Berkeley and Los Angeles: University of
California Press, 1970).
11
Cioè in grado, con questa “vacuità” semantica, di accogliere diversi fenomeni.
12
Cfr. Angelo Brelich, Prolegomeni a una storia delle religioni, in Religione e storia delle religioni, a cura di
Henri-Charles Puech, tr. it. di Maria Novella Pierini, Bari: Laterza, 1988, pp. 3-55, in part. pp. 24-25 (ed. orig.
Histoire des Religions, Paris: Gallimard, 1970-1976, vol. 1, pp. 1-59; 3, pp. 1279-1328).
13
Cfr. Mircea Eliade, Miti, sogni, misteri, tr. it. di Giovanni Cantoni, Torino: Lindau, 2007, pp. 17-18 (ed. orig.
Mythes, rêves et mysteres, Paris: Gallimard, 1957).
14
Ibidem.
15
Philippe Descola, Modi di essere e forme di dipendenza, in Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia,
a cura di Roberto Brigati e Valentina Gamberi, tr. it. di Roberto Brigati, Macerata: Quodlibet, 2019, pp. 93-105,
in part. p. 94 (ed. orig. The ontological Turn in French Philosophical Anthropology, discorso d’apertura di una
sessione esecutiva del convegno annuale dell’American Anthropological Association (Chicago, 23 novembre
2013).
16
Per approfondire il significato dato dall’autore al concetto di “mondiazione”, cfr. ibidem. Il termine potrebbe,
forse, essere più comprensibile se reso nella forma di “mondo-formazione”.
10
l’accompagnano nella sua esistenza. A loro volta, questi processi di “mondo-formazione” sono
legati a miti specifici, in grado di generare specifici modi di abitare il proprio mondo oppure,
detto in altri termini, comportamenti specifici
17
. Questi non possono essere qualificati allo
stesso modo di quelli quotidianamente esperiti per il semplice fatto di riferirsi direttamente ad
un mito: essi sono propriamente “rituali”. Un comportamento “rituale” è qualificato, di
conseguenza, dal fatto di essere reiterato nel tempo secondo schemi definiti da un “codice-
mito”
18
. Utilizzando un linguaggio drammaturgico, è possibile considerare il mito come la
“sceneggiatura” su cui si basa l’esecuzione rituale
19
. Queste azioni propriamente “rituali”
costituiscono l’essenza del comportamento mitico, il cui scopo principale è astrarre l’essere
umano dall’hic et nunc quotidianamente esperito e porlo su un piano diverso, sacro, ove tutto
acquista un significato nuovo e totale. Non è un caso che la maggior parte di queste azioni si
collochi in un tempo e in uno spazio differente e separato rispetto a quello normalmente
occupato dalle altre attività umane
20
. Un tempo ed uno spazio in cui, mediante l’atto rituale,
avviene il recupero dell’«illud tempus» del mito
21
, una sua rievocazione, nel mondo
contingenziale, in grado di illuminarne la vera, e reale, essenza.
Riassumendo, il comportamento mitico-rituale si fonda sull’imitazione reiterata di modelli
esemplari legittimamente definibili come “sacri”, in quanto non soltanto preesistono alla
condizione attuale, ma ne costituiscono il fondamento indispensabile
22
. Questi modelli, è
chiaro, variano a seconda della mitologia a cui si riferiscono. Utilizzare come strategia
interpretativa una di tipo “mitico-ritualistica” significa, in ultima analisi, “disinnescare” il
surplus simbolico del testo mettendone in evidenza, per analogia
23
, i legami con la mitologia e
la “ritologia” di riferimento che, nel caso della Commedia, è precisamente di tipo “cristico”.
17
Si potrebbe forse affermare che comportamenti specifici, a loro volta, sono potenzialmente in grado di creare
nuovi miti. Tale potenzialità è insita nella polisemia del mito, interpretabile ed esperibile in diversi modi, imitabile
con diversi comportamenti che, soddisfatte determinate condizioni, possono infine portare alla creazione di nuovi
discorsi mitici.
18
Cfr. Emily A. Shulz e Robert H. Lavenda, Antropologia culturale, a cura e tr. it. di Manuela Tassan, Bologna:
Zanichelli, 2015
3
, p. 155 (ed. orig. Cultural Anthropology: A Perspective on the Human Condition, Oxford: Oxford
University Press, 1995).
19
Si veda, per approfondimenti, ibidem.
20
I rituali, come noto, sono eseguiti in tempi “festivi” e in luoghi “sacri”, sospesi in un tempo e in uno spazio
“altri” rispetto a quelli quotidianamente vissuti.
21
Cfr. Eliade, Miti, sogni, misteri, cit., pp. 24-25.
22
Per approfondimenti sulla definizione di “sacro”, si veda Giulia Sfameni-Gasparro, Introduzione alla storia
delle religioni, Bari-Roma: Gius. Laterza e Figli, 2011, p. 9.
23
Ogni “scienza” si fonda essenzialmente su processi analogici. Tuttavia, la conoscenza non avrebbe alcun tipo di
sviluppo se tutto fosse riconducibile, per analogia, a qualcosa di già conosciuto. In altre parole, è necessario
lasciare spazio all’emergere dell’“anomalia”, dato irriducibile e che necessita, per poter essere compreso, d’un
cambiamento di prospettiva o di punti di riferimento. La natura composita, polisemica, della Commedia impone
chiaramente che sia lasciato spazio alle “anomalie” che il testo presenta, le quali impongono a qualsiasi tentativo
di interpretazione “analogica” una certa dose di flessibilità e ammissione d’arbitrarietà.