Capitolo 1
2
dei creditori, sia dell’interesse alla conservazione della destinazione
impressa ai beni investiti nell’impresa sociale
1
.
Nella prima parte di questo capitolo, dopo una breve digressione sui
cambiamenti che hanno caratterizzato il diritto di recesso nella sua
storia, sarà effettuata un’attenta analisi della precedente versione
dell’art. 2437 c.c., delle sue caratteristiche principali e dei suoi limiti,
fino a giungere alla riforma del 2003, ed al superamento della
diffidenza cha aveva sempre caratterizzato la configurazione di tale
istituto nel corso degli anni.
La seconda parte sarà dedicata alla funzione svolta dal diritto di
recesso, distinguendo tra quella economica e quella giuridica, non
trascurando i rischi ed i costi ad esso connessi.
1
C. GRANELLI, Il recesso del socio nelle società di capitali alla luce della riforma societaria, in
Le Società, 2004, II, p. 143.
Il diritto di recesso nelle società di capitali alla luce della riforma del diritto societario
3
1.1. L’evoluzione nel corso degli anni dell’istituto del
recesso
Il diritto di recesso ha subito nel corso degli anni notevoli
modificazioni. La storia ci ha insegnato che quest’istituto è entrato a
far parte della disciplina delle società di capitali come temperamento
al principio della modificabilità a maggioranza del contratto sociale
1
, e
come il mezzo più idoneo per conciliare l’interesse della maggioranza
con quello della minoranza, mediante la facoltà di sciogliersi dal
vincolo contrattuale
2
.
La connessione tra il diritto di recesso e l’introduzione del principio di
maggioranza, ha un’ulteriore conferma osservando l’evoluzione sia
dell’ordinamento societario statunitense sia di quello italiano;
entrambe le prospettive di analisi ci mostrano come l’introduzione nel
corso del diciannovesimo secolo, sia dell’"appraisal right" che del
“diritto di recesso”, sia stata dettata da una scelta di politica
legislativa, mirante ad agevolare il passaggio nell’organo assembleare
della regola della maggioranza, senza con questo disincentivare
l’investimento nel capitale di rischio delle imprese da parte degli
azionisti-investitori che non appartenessero al gruppo di controllo
dell’impresa sociale
3
.
1
A. TOFFOLETTO, L’autonomia privata e i suoi limiti nel recesso convenzionale del socio nelle
società di capitali, in Rivista di diritto commerciale, 2004, I, p. 362 ss.
2
G. – M. STASSANO, Il recesso e l’esclusione del socio nella s.r.l. e nella s.p.a., Giappichelli,
Torino, 2005, p. 5.
3
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma del diritto di recesso dalle società di capitali:
fondamento e limiti all’autonomia statutaria, in Quaderni di ricerca giuridica della Banca
d’Italia, 2001, n. 54, p. 22.
Capitolo 1
4
Sicuramente, il principio maggioritario accompagnato dal diritto di
recesso si presenta come una formula che, pur riconoscendo il
dominio della maggioranza, impone a quest’ultima di “internalizzare”,
in tutto o in parte, le conseguenze delle proprie decisioni rispetto a
specifici interessi della minoranza, agendo in tal modo da deterrente
rispetto a determinazioni che pregiudicavano tali interessi
1
.
Il legislatore, ha tradizionalmente manifestato una sorta di diffidenza
per il recesso, cercando sempre di dosare con equilibrio il suo utilizzo.
Temendo forse le ricadute che avrebbe potuto avere sulla stabilità
patrimoniale dell’impresa se fosse stato lasciato
all’autoregolamentazione dei soci, egli ha proceduto nel corso degli
anni a circoscriverne rigidamente l’ambito di applicazione
2
,
individuando le ipotesi in base alle quali si poteva esercitare con molta
attenzione, cercando di non lasciare spazio (o lasciarne il meno
possibile) all’autonomia statutaria
3
.
Il codice di commercio del 1865 si limitava ad un semplice accenno
circa le possibilità di exit, stabilendo sulla base dell’art. 163 che
dovesse “risultare da espressa dichiarazione o deliberazione dei
soci”. In tale codice, l’istituto del recesso non trovava però una sua
regolamentazione, non presentando inoltre un chiaro collegamento
con le modifiche statutarie.
Il diritto di recesso fu finalmente introdotto dal codice di commercio
del 1882 in concomitanza con l’espressa previsione della legittimità di
1
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 20.
2
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 23.
3
A. TOFFOLETTO, L’autonomia privata, op. cit., p. 362 ss.
Il diritto di recesso nelle società di capitali alla luce della riforma del diritto societario
5
modifiche a maggioranza dello statuto societario
1
; il comma terzo e
quarto dell’art. 158, lo inquadrò per la prima volta nella disciplina
delle deliberazioni assembleari, consentendone l’esercizio ai soci
dissenzienti da decisioni riguardanti i casi di
2
:
a) fusione;
b) reintegrazione o aumento di capitale;
c) cambiamento dell’oggetto sociale;
d) proroga della società non esplicitamente consentita nell’atto
costitutivo.
Già in questo periodo, si poteva notare l’assenza di ogni riferimento
specifico alla possibilità di introdurre ipotesi statutarie
3
.
A partire dal 1915, il legislatore, con una serie di leggi speciali ha
cercato ancor di più di ridurre le ipotesi presenti fino a quel momento;
il primo intervento fu attuato con la legge n. 431 del 1° aprile 1915,
che escludeva, almeno temporaneamente siffatto diritto nei casi di
fusione e aumento di capitale.
In seguito, con il r.d.l. n. 1434 del 13 novembre 1931, l’esclusione fu
estesa al cambiamento dell’oggetto sociale “in conseguenza del
conferimento di tutte o parte delle attività sociali di un’altra società”
4
.
Nella successiva legislazione del 1942, l’operato del legislatore venne
inevitabilmente influenzato dagli interventi legislativi intercorsi tra il
1915 ed il 1942 (sopra citati i più rilevanti); quel periodo storico,
1
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 23.
2
R. RORDORF, Il recesso del socio di società di capitali: prime osservazioni dopo la riforma, in
Le Società, 2003, VII, p. 923; G. – M. STASSANO, Il recesso e l’esclusione del socio, op. cit., p.
5.
3
A. TOFFOLETTO, L’autonomia privata, op. cit., p. 362.
4
A. TOFFOLETTO, L’autonomia privata, op. cit., p. 363.
Capitolo 1
6
classificato come una delle stagioni più calde della nostra economia
1
,
ha visto susseguirsi tra loro eventi di portata notevole: la prima guerra
mondiale; il periodo post-bellico in cui la difficile opera di ripresa
economica conseguente ad ogni evento di questo tipo, si poneva nel
mezzo di un disegno evolutivo già iniziato, ma interrotto e sovvertito
dalle vicende storiche contingenti; la crisi bancaria, che avrebbe
prodotto un momentaneo sganciamento dell’impresa da quella fonte di
finanziamenti ed infine, il regime politico che prese il potere in quegli
anni in Italia
2
.
Alla luce di tutti questi fatti, l’istituto giuridico più penalizzato fu
senz’altro il recesso; infatti, nel codice civile del 1942 la disciplina
che lo riguardava
3
fu ulteriormente ristretta rispetto all’art. 158 c.co.,
con il principale intento di non penalizzare la crescita delle imprese
nel nostro paese, in un particolare momento storico
4
.
Nel 1998, il Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria (T.U.I.F.),
nell’art. 131, riconosceva il diritto di recesso anche ai soci dissenzienti
dalle deliberazioni di fusione o di scissione, che comportavano
l’assegnazione di azioni non quotate al posto di quelle quotate.
1
S. PACCHI-PESUCCI, Autotutela dell’azionista e interesse dell’organizzazione, Milano, 1993,
p. 134 ss.
2
S. PACCHI-PESUCCI, Autotutela dell’azionista, op. cit., p. 134 ss.
3
Per la prima volta il recesso ebbe nel codice civile, un articolo tutto per se (l’art. 2437 c.c.)
collocato nell’ambito della disciplina delle modificazioni dell’atto costitutivo. Per maggiori
dettagli, R. RORDORF, Il recesso del socio di società di capitali, op. cit., p. 924.
4
A. TOFFOLETTO, L’autonomia privata, op. cit., p. 363 ss.
Il diritto di recesso nelle società di capitali alla luce della riforma del diritto societario
7
1.1.1. La disciplina previgente: l’art. 2437 c.c.
Il diritto di recesso, nella disciplina ante-riforma, era considerato
come uno strumento di tutela del socio di minoranza, che gli
consentiva l’exit dalla società al verificarsi di rilevanti modifiche
dell’assetto organizzativo.
Un istituto che esprimeva il conflitto tra due interessi: quello della
maggioranza dei soci, ad un costante adeguamento
dell’organizzazione societaria al variare delle condizioni di mercato o
delle situazioni dell’impresa; quella del singolo socio o della
minoranza, a non veder modificata, senza il proprio consenso,
l’organizzazione stessa, e le condizioni del proprio investimento
partecipativo.
Al potere della maggioranza di modificare le clausole essenziali
dell’originario contratto sociale si poneva, dunque, un correttivo: il
diritto del socio assente o dissenziente, rispetto alla relativa delibera,
di uscire dalla compagine sociale, commutando il proprio status socii
in quello di creditore della società per il rimborso delle azioni
1
.
In tal senso, la norma di riferimento era l’art. 2437 c.c., che recitava:
“I soci dissenzienti dalle deliberazioni riguardanti il cambiamento
dell’oggetto o del tipo di società, o il trasferimento della sede sociale
all’estero hanno il diritto di recedere dalla società e di ottenere il
rimborso delle proprie azioni, secondo il prezzo medio dell’ultimo
semestre, se queste sono quotate in borsa, o, in caso contrario, in
1
F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e
applicativi, in Rivista delle società, 2005, I, p. 487.
Capitolo 1
8
proporzione del patrimonio sociale risultante dal bilancio dell’ultimo
esercizio.
La dichiarazione di recesso deve essere comunicata con
raccomandata dai soci intervenuti all’assemblea non oltre i tre giorni
dalla chiusura di questa, e dai soci non intervenuti non oltre i quindici
giorni dalla data dell’iscrizione della delibera nel registro delle
imprese.
E’ nullo ogni patto che esclude il diritto di recesso o ne rende più
gravoso l’esercizio”.
La disciplina scaturente da tale articolo, era comune sia per le s.p.a.
che per le s.r.l. (per queste ultime, l’art. 2494 c.c. rinviava all’art. 2437
c.c.).
La relazione ministeriale al codice civile, sosteneva, che pur
rispettando “qualche corrente contraria al mantenimento del diritto di
recesso, si era ritenuto che tale diritto dovesse essere conservato”, in
quanto costituiva un “ottimo strumento di tutela per il socio
dissenziente”, precisando tuttavia, la necessità di limitare i casi in cui
poteva essere esercitato.
Alla luce di quanto disposto dalla relazione e di tutti gli altri
cambiamenti che l’avevano preceduta (cfr. § 1.1), risultava ormai
evidente che il diritto di recesso costituiva una fattispecie di rilievo del
tutto marginale nella prassi societaria italiana; questo non tanto in
considerazione del ridotto numero di casi di uscita dalla società che si
registravano, bensì sull’osservazione che in conseguenza della
disciplina codicistica, la sussistenza del diritto in questione non
Il diritto di recesso nelle società di capitali alla luce della riforma del diritto societario
9
svolgeva nessuna funzione di incentivo sulle decisioni di investimento
dei soci nelle società, né condizionava le determinazioni della
maggioranza in ordine alle modifiche statutarie che legittimavano il
suo esercizio da parte dei soci dissenzienti
1
.
In aggiunta, la legislazione indicava un criterio di rimborso che, specie
nelle società non quotate, si rivelava manifestamente inadeguato a
rispecchiare l’effettivo valore della partecipazione per la quale il socio
esercitava il recesso
2
. Infruttuosi, furono i molteplici tentativi della
dottrina di individuare un correttivo, idoneo ad evitare, il pregiudizio
economico che gravava sul socio recedente da una società non
quotata
3
.
Un tema molto importante alla luce della precedente versione dell’ art.
2437 c.c., oggetto di contesa tra contrattualisti e istituzionalisti,
riguardava la tassatività delle ipotesi di recesso
4
.
La maggior parte degli autori, ancorati alla tradizione contrattualistica,
era concorde nell’ammettere la possibilità di prevedere ulteriori cause
di recesso per via statutaria, vista anche la mancanza di una norma
espressa di divieto. Secondo Tantini (1973), “se mancasse l’ultimo
capoverso (dell’art. 2437 c.c.) e la legge si limitasse ad indicare i tre
casi di recesso senza nulla aggiungere, si potrebbe anche cercare di
dedurre, nel sistema della disciplina delle società per azioni,
l’inderogabilità del recesso sia per quanto ne riguarda l’estensione che
1
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 11.
2
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 12.
3
C. GANDINI, Modificazioni dell’atto costitutivo nelle società di capitali: recesso, aumento di
capitale e diritto di opzione, in Giurisprudenza commerciale, 1988, II, p. 729.
4
G. PRESTI, Questioni in tema di recesso nelle società di capitali, in Giurispruedenza
commerciale, 1982, I, p. 102.
Capitolo 1
10
la restrizione (…) nel silenzio mi sembra più coerente ritornare al
principio dell’autonomia contrattuale e dedurne la possibilità di un
diverso regolamento statutario più favorevole al socio”.
La giurisprudenza e parte (seppur minore) della dottrina escludevano,
nel silenzio della legge sul punto, che lo statuto potesse contemplare
ipotesi ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge per due ragioni
principali:
1) una parte della corrente, poneva l’accento su come l’effetto
“disgregante” che il recesso produceva sull’assetto patrimoniale e
finanziario della società
1
, rappresentasse una minaccia per l’integrità
del patrimonio sociale che veniva considerato come garanzia per i
creditori. L’esigenza di conservazione del patrimonio sociale, e gli
interessi a questa sottesi, imponevano di adottare una soluzione
interpretativa idonea a confinare il diritto di recesso nel ristretto
ambito delineato dal legislatore
2
;
2) una seconda parte, sosteneva che l’ampliamento per via statutaria
dei casi di recesso potevano privare di effettività lo stesso principio
maggioritario, finendo col subordinare il perseguimento dell’interesse
corporativo alla soddisfazione del socio dissenziente
3
. Cosi facendo,
c’era il rischio di compromettere la possibilità di un rapido e pronto
adeguamento della struttura della società alla continua evoluzione
dell’impresa e dei mercati; possibilità che tuttavia poteva
1
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 12 ss.
2
D. GALLETTI, Il recesso nelle società di capitali, Giuffrè, Milano, 2000, p. 278.
3
F. GALGANO, Diritto commerciale, Zanichelli, Bologna, 1973, p. 338.
Il diritto di recesso nelle società di capitali alla luce della riforma del diritto societario
11
rappresentare una condizione imprescindibile per la soddisfazione
dell’interesse generale all’efficienza dell’impresa
1
.
Circa le modalità ed i termini di esercizio del recesso
2
, è interessante
notare che, mentre sembrava assodato il riconoscimento della
legittimazione all’esercizio del diritto in questione ai soci dissenzienti
e assenti, lo stesso non si poteva dire per i soci astenuti. Invero,
mentre alcuni sostenevano che essi andavano considerati allo stesso
livello dei dissenzienti, poiché dimostravano un chiaro intendimento
in tal senso
3
, per altri, vista l’importanza della questione,
l’atteggiamento di indifferenza degli astenuti non era meritevole di
tutela
4
.
Il secondo comma dell’art. 2437 c.c. parlava dei termini e dei modi
attraverso cui bisognava dare comunicazione alla società
dell’intenzione di recedere. Anche su questo punto c’era stato un
acceso dibattito; una parte della dottrina
5
ed alcune pronunce
giurisprudenziali
6
sostenevano che il termine per la comunicazione del
recesso dovesse essere riferito alla ricezione e non al semplice invio
della raccomandata. Tale argomentazione era sostenuta,
principalmente, vista la natura del diritto; difatti il recesso era
considerato come una dichiarazione unilaterale recettizia, e come tale,
era ritenuta efficace solo al momento dell’avvenuta conoscenza da
1
S .CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 13.
2
Qui l’argomento in questione sarà trattato a livello superficiale e senza i dovuti approfondimenti.
Per una maggiore completezza, si vedano tra gli altri: D. GALLETTI, Il recesso del socio, op.cit.,
p. 151 ss.; G. PRESTI, Questioni in tema di recesso, op. cit., p. 105 ss.
3
G. PRESTI, Questioni in tema di recesso, op. cit., p. 103 ss.
4
G. COTTINO, Diritto commerciale, CEDAM, Padova, 1987, p. 731.
5
G. PRESTI, Questioni in tema di recesso, op. cit., p. 106.
6
Sentenza della corte di Appello di Milano 13 maggio 2003, in Le Società, 2003, p. 622 ss.
Capitolo 1
12
parte della società. Non tutti erano d’accordo con questa corrente di
pensiero, dal momento che una parte (seppur minore) della dottrina
obiettava che il termine di tre giorni, doveva riferirsi all’invio della
raccomandata, poiché, l’eccessiva brevità non poteva che creare
notevoli problemi al socio dissenziente, che si trovava esposto al
rischio, nonostante l’esercizio del suo diritto entro i termini di legge,
di restare nella compagine societaria, laddove quest’ultima non avesse
negli stessi termini ricevuto la relativa comunicazione
1
.
Certamente, queste regole imposte dal legislatore erano giustificate
dall’interesse della società a conseguire con rapidità la certezza della
propria compagine e il patrimonio sul quale poteva fare affidamento
2
,
ma allo stesso tempo erano penalizzanti per il socio (soprattutto per
quello intervenuto in assemblea), che si trovava a doversi pronunciare
in un termine brevissimo e a dover sperare nella celerità del servizio
postale italiano (al cui riguardo il legislatore è stato eccessivamente
ottimista). Per cercare di risolvere tali problemi, parte della dottrina
3
ammetteva la possibilità, circa l’invio della dichiarazione, di utilizzare
altri mezzi di comunicazione (telex, telegramma, etc.), a condizione
che presentassero maggiori garanzie rispetto alla raccomandata; per
Galletti (1999) però, “le forme di trasmissione differenti”, dovevano
essere “obbligatoriamente previste in alternativa, e non mai in
sostituzione di quella principale” (che restava sempre la
raccomandata).
1
F. LEVERONE, La natura recettizia della comunicazione del recesso nella disciplina
previgente, in Le Società, 2004, V, p. 625.
2
D. GALLETTI, Il recesso del socio, op. cit., p. 254.
3
G. PRESTI, Questioni in tema di recesso, op. cit., p. 106 (nota 19).
Il diritto di recesso nelle società di capitali alla luce della riforma del diritto societario
13
Da più parti era stata quindi invocata una legislazione più favorevole
per il socio, tale da consentire un’estensione dei termini; infatti, il
nostro paese, era l’unico al mondo che imponeva termini decadenziali
così stringenti per ottenere di uscire dalla società. In tutti gli altri
paesi, il relativo periodo non scendeva quasi mai al di sotto i trenta
giorni
1
.
È interessante poi notare, come per parte della dottrina non c’erano
ragioni logiche per impedire alla società di revocare la deliberazione
assembleare che aveva visto il cambiamento di un elemento essenziale
dell’atto costitutivo, e che a sua volta aveva dato origine al diritto di
recesso da parte dei soci (che erano in contrasto con tale
deliberazione). Se invero, la ratio dell’art. 2437 c.c. era quella di
tutelare il socio di minoranza in caso di modificazione degli elementi
essenziali del contratto sociale, allora non poteva esserci tutela
migliore di quella di restare nella compagine sociale alle condizioni
originarie
2
. La revoca della deliberazione si sarebbe potuta verificare
in coincidenza di una serie notevole di recessi, contro cui la società
non avrebbe potuto altro che fare marcia indietro, per non essere
costretta a distribuire una parte ingente del suo patrimonio sociale
3
.
Un altro argomento di estrema rilevanza, riguardava la determinazione
della quota del socio recedente, e più nello specifico i criteri di
valutazione utilizzati e l’iter seguito per il suo rimborso.
1
D. GALLETTI, Il recesso del socio, op. cit., p. 253.
2
G. PRESTI, Questioni in tema di recesso, op. cit., p. 110 ss.
3
G. PRESTI, Questioni in tema di recesso, op. cit., p. 110.
Capitolo 1
14
Innanzitutto è necessario distinguere tra le s.p.a. chiuse e le s.r.l da
una parte, e le s.p.a. aperte (alle quali il legislatore consentiva la
possibilità di fare ricorso al pubblico risparmio per l’investimento nel
capitale di rischio) dall’altra.
Nelle prime, il diritto di recesso risultava estremamente efficace
poiché, non avendo accesso ad un mercato secondario delle
partecipazioni, i soci correvano il rischio di rimanere “prigionieri del
loro titolo” non trovando soggetti interessati al suo acquisto al di fuori
dei soci stessi che componevano la compagine societaria, i quali,
potevano sfruttare a loro vantaggio la posizione di “quasi
monopsonio” di cui godevano
1
.
Il criterio generale per la determinazione della quota a favore del socio
recedente prevedeva che le azioni dovessero essere rimborsate in
proporzione al patrimonio risultante dal bilancio dell’ultimo esercizio,
per esso intendendosi, il bilancio relativo all’ultimo anno conclusosi
precedentemente al giorno del recesso, senza che potesse quindi
assumere rilievo la situazione patrimoniale della società alla data del
recesso stesso
2
.
I criteri legali di bilancio che si collocavano in un’ottica prudenziale
di continuazione dell’impresa, erano particolarmente punitivi per il
calcolo della reale consistenza patrimoniale della società, poiché
funzionali ad una prospettiva di redditualità storica e non futura;
infatti, il tutto produceva una sensibile sottovalutazione del patrimonio
1
S. CAPPIELLO, Prospettive di riforma, op. cit., p. 21.
2
Cosi sosteneva la Sentenza del tribunale Milano, 2 maggio 1996.
Il diritto di recesso nelle società di capitali alla luce della riforma del diritto societario
15
sociale, che si ripercuoteva a danno dei soci recedenti e a favore
dell’impresa, dei suoi creditori e dei soci superstiti
1
.
La dottrina aveva compiuto notevoli sforzi per superare il dettato della
legge e giungere alla valutazione più esatta possibile.
Così, mentre per alcuni la suddetta valutazione doveva eseguirsi in
ottemperanza alla versione allora vigente dell’art. 2425 c.c.,
apportando al bilancio tutte le modifiche necessarie a determinare il
netto patrimoniale nella misura più prossima al reale
2
, per altri, ogni
deroga al disposto che imponesse, in caso di recesso, che la base di
valutazione delle società non quotate fosse costituita dall’ultimo
bilancio, non appariva giustificato alla luce dell’attuale normativa
3
. Né
mancava chi riteneva che una più esatta valutazione potesse partire
solo da un bilancio straordinario, stilato appositamente per la
circostanza in questione
4
.
Nelle s.p.a. quotate invece, si faceva riferimento al prezzo medio di
borsa dell’ultimo semestre. Sebbene tale criterio fosse più favorevole
al socio, esso non era idoneo a rappresentare il vero valore del
patrimonio sociale, essendo le quotazioni di borsa influenzate,
soprattutto in un mercato finanziario anomalo come il nostro, da
1
V. SISCARO, Nuovo ordinamento societario e recesso da società non quotata: determinazione
del rimborso delle azioni fra logica corporativa ed istanze contrattualistiche, in Vita notarile,
2004, I, p. 567; G. PRESTI, Questioni in tema di recesso, op. cit., p. 112; R. RORDORF, Il
recesso del socio di società di capitali, op. cit., p. 929.
2
G. FERRI, Recesso del socio e speciali ragioni di deroga ai criteri legali di valutazione nel
bilancio di esercizio, in Rivista di diritto commerciale, 1975, II, p. 136.
3
L. DE ANGELIS, Sui criteri di valutazione delle azioni del socio recedente, in Rivista
trimestrale di diritto proc. civ., IV, 1977, p. 1251.
4
P. ADAMI, Rimborso di azioni espropriate e art. 2437 c.c.: profili di incostituzionalità, in
Giurisprudenza commerciale, 1982, II, p. 519.