5
bambini potrebbe essere bilingue, nascere in una città lontana migliaia di chilometri da
quella dei genitori, crescere in una ancora più lontana e spostarsi a sua volta per dare vita al
nuovo nucleo familiare.
Riportando in modo critico lo sguardo al presente, il recto positivo e florido delle
società attuali sempre più porose e fluide non può essere preso in considerazione senza il
suo verso problematico. Non solo i già citati stereotipi, i ben noti razzismi e gli illegali
trattamenti differenziati in nome di una cittadinanza natia ormai messa in discussione, ma
anche le storie di fondamentalismi e fanatismi riempiono le pagine di cronaca e infestano
ogni tentativo di riflessione sulla diversità culturale, ripetutamente limitata al generico
appellativo di “scontro tra Oriente e Occidente”, come se la realtà concreta si basasse su
due sole entità, due sole prospettive, due sole prerogative.
Le diffidenze e le paure che oggi affrontiamo come Italiani a volte uniti contro i Non
Italiani, sono già stati vissuti – ma non per questo risolti – da altri Paesi non così lontani dal
nostro, non meno occidentali del nostro.
L’Inghilterra, memore del suo passato da imperatrice coloniale e orgogliosa del suo
presente da regina di tutte le lingue, vive in modo contemporaneamente pacifico e
turbolento la propria geografia umana multietnica e multirazziale. Non mancano odi e
razzismi, di certo, in una città come Londra, meta di turisti ma anche sede di comunità
transnazionali così come di convinti difensori dell’identità nazionale, di quell’essere British
che è storicamente racchiuso nella residenza e persistenza dei reali a Buckingham Palace.
L’Inghilterra anticipa di almeno vent’anni la situazione italiana e con questi vent’anni in più
presenta delle figure e degli immaginari di cui attualmente l’Italia può solo intravedere i
primi timidi tentativi. I figli degli immigrati a Londra o in altre città inglesi sono
sufficientemente grandi d’età da poter sviluppare un intenso dibattito culturale
coinvolgendo in modo più o meno diretto la propria autobiografia, e relativamente forti di
parola da poter portare la propria voce oltre l’etichetta di “espressione dei margini” a cui
una visione prettamente filocentrica desidererebbe relegarli.
In uno scenario che si fa sempre più anonimo, metamorfico e instabile, prendere in
considerazione queste figure e la loro innata fragilità e conseguente ricerca di punti di
riferimento, è innanzitutto un prendere atto che non esistono più identità ferme, luoghi o
patrie per costruirle, strumenti precisi nell’orientarle.
Il senso di questa tesi risiede proprio nella volontà di affrontare alcuni aspetti del
fenomeno della globalizzazione contemporanea, assumendo un punto di vista privilegiato,
6
una prospettiva capace di porsi naturalmente a metà strada tra due o più culture. In
Inghilterra, i cosiddetti migranti di seconda generazione non solo vivono quotidianamente tra
doppie assimilazioni e doppi rifiuti ma operano anche scelte che, al di là dell’essere giuste o
sbagliate, riportano in primo piano le problematiche globali, anzi glocali, di consapevolezza,
appartenenza, costruzione e incessante ricostruzione di significati. Attraverso il loro punto
di vista e di vita, è possibile comprendere concretamente la tensione esistente tra
globalismo e localismo, soprattutto a livello di definizione della loro identità e del loro
essere in bilico tra il passato rappresentato dalla famiglia di origine e il presente costituito
dallo stile di vita inglese.
Sarebbe estremamente interessante affrontare queste tematiche e queste figure
cogliendole dalla vita reale, attraverso uno studio qualitativo di ricerca sociale. In questa
tesi, però – ma senza che questo escluda l’opportunità di raccogliere elementi per una
futura ricerca sul campo –, l’attenzione è rivolta ad una selezionata produzione artistica dei
figli di immigrati in Inghilterra, cioè ad alcune opere letterarie e cinematografiche che sono
state create da identità migranti e mettono in scena il loro cammino, più o meno periglioso,
per uscire dall’esilio esistenziale in cui si sono ritrovati dalla nascita.
Analizzare alcuni casi letterari e cinematografici non vuol dire necessariamente falsare
la realtà o restituirne una visione edulcorata, soprattutto se i testi presi in considerazione
sono crudeli nelle loro descrizioni e crudi nella loro essenzialità. Al contrario, il potere della
parola e dell’immagine non andrebbe mai sottovalutato. Soprattutto non andrebbero mai
sottovalutati come mezzi di comunicazione la letteratura e il cinema, mezzi che non solo
raccolgono ma anche creano un immaginario che può rivelarsi a volte molto più
convincente del purtroppo effimero fatto di cronaca
Utilizzare alcune opere di e con identità migranti per capire il viaggio continuo che
l’attuale si pone nella definizione del sè e dell’altro, può essere un modo per scrutare da
vicino questioni culturali di cui troppe volte si discute solo tramite categorie logiche che
ormai hanno perso senso e sono destinate ad andare al di là di quella barra o trattino con
cui si indicano il bene/male e l’euro-centrismo.
Il fatto che queste opere assumano un significato particolare all’interno del contesto
inglese che le ha originate non vuol dire che esse non possano essere d’esempio per il
presente dell’Italia e per il suo futuro, semplicemente esse vanno inquadrate nel modo
opportuno. A questo proposito, la tesi appare strutturata per gradi come qui di seguito
spiegato.
7
Nei primi due capitoli, si analizza il contesto storico-sociale e le sue ripercussioni
psicologiche prima a livello generale – la società globale postmoderna – e poi a livello
particolare – la società multietnica in Inghilterra. Partire da questi elementi, sebbene possa
sembrare fuorviante rispetto agli obiettivi preposti, non è assolutamente superfluo,
innanzitutto perchè l’identità del singolo è lo specchio della politica di integrazione o meno
e del senso di cittadinanza suggeriti da un determinato Paese. Inoltre, poiché il fine è quello
di analizzare le risposte (o le mancate risposte) date al problema da parte della letteratura e
del cinema, è fondamentale chiarire quali siano le domande e le problematiche del contesto.
Per capire e analizzare le opere è anche importante conoscerne l’a priori, il punto di
partenza implicito, la forma mentis e l’esperienza di vita da cui gli autori iniziano le loro
narrazioni. Senza questo studio preliminare, si rischia di cadere in una mis-interpretazione,
che risenta del vissuto italiano e quindi non riesca a percepire davvero l’essenza delle
questioni in atto.
Nel terzo e quarto capitolo, dopo un breve excursus sulla letteratura e sul cinema
“britannici e migranti”, l’attenzione si concentra sui libri e film scelti proprio per la loro
capacità di rappresentare e drammatizzare le problematiche identitarie della seconda
generazione, con il fine di sottolinearne – in pieno appoggio della logica parallela di
globalizzazione e differenziazione – continuità e discontinuità.
Migrare oggi non è solo spostarsi fisicamente. È il migrare delle culture nelle altre
culture, senza sintesi o certezze assicurate. È il migrare di chi non si muove dalla propria
terra e forse neanche sa ben identificarla. È il migrare di identità, in perenne bilico tra
presente e passato, alla ricerca del futuro.
8
1.
Il contesto migrante
Il mondo che ora abitiamo appare rizomatico – questo sollecita, da un lato,
teorie di sradicamento, alienazione e distanza psicologica tra individui e gruppi,
e dall’altro fantasie (o forse incubi) di vicinanze elettroniche.
Così scriveva nel 1990 l’antropologo Arjun Appadurai
1
. A distanza di sedici anni, non si
può che confermare l’esistenza di elementi fluidi e contraddizioni nelle società attuali.
Ormai composto dalla sovrapposizione di culture diverse, in continua ricerca della propria
identità e in perenne evoluzione, il reale sfugge a qualsiasi tentativo di concettualizzazione e
analisi che voglia definirlo come una totalità, seppur stratificata o irregolare.
Al contrario, il mondo che si apre di fronte a noi è spazialmente, temporalmente e
soggettivamente instabile. Gli accresciuti contatti, le interazioni a livello mondiale e le
diffuse migrazioni hanno non solo posto culture diverse l’una accanto all’altra, ma hanno
anche già prodotto comportamenti talmente ibridi da rendere difficile l’individuazione di
una cultura locale genuinamente autoctona, dotata di spazi e tempi ben definiti.
Opportunità e rischi, tradizioni e rivoluzioni, definizioni ed eccezioni si contendono
lo stesso, ormai, non-luogo. Il presente incerto si confronta con il nascente passato sullo
sfondo di un non-tempo. L’esistenza non mira più a raggiungere l’essere, ma a trasformarsi
e a divenire per sfuggire al non-essere.
1
Appadurai, A., “Disjuncture and difference in the global cultural economy”, Public Culture, 2, 1990.
9
1.1 Tra globale e locale: lo spazio della cultura
La caduta dei grandi sistemi ideologici, la messa in crisi dell’idea ottocentesca di Stato
nazionale come comunità sovrana e compatta al suo interno e la velocizzazione delle
comunicazioni sono stati gli elementi più interessanti degli anni di fine secolo. Se questo
all’inizio ha avuto evidenti effetti sull’economia e la finanza, generando la volontà di
spingersi verso la liberalizzazione e l’integrazione dei mercati nonostante i timori scaturiti
ora dalla potenza americana ora dai network asiatici,
2
oggi con l’intensificazione e
l’interdipendenza dei rapporti sociali le negoziazioni sono compiute soprattutto a livello di
cultura. L’internazionalizzazione dei circuiti di mobilità del capitale, dell’informazione, delle
manifatture e dei servizi ha infatti viaggiato di pari passo con il movimento delle
popolazioni e quindi con quello associato delle loro pratiche culturali.
Come già verificatosi in ambito economico con le attività produttive sempre più
decentrate e sparse sul globo, così in ambito culturale si è assistito ad una crescente
mobilità di “oggetti culturali” al di fuori degli spazi di un linguaggio e di un contesto
specifico. Lo schema fisso che precedentemente vincolava una cultura ad una particolare
locazione si è spezzato, permettendo alle culture di andare oltre quelli che venivano
considerati i confini naturali. Nell’ambito culturale, però, il fenomeno di
transnazionalizzazione non si è sviluppato semplicemente nei termini di diffusione o nuova
distribuzione. Dal momento che il movimento non riguarda una risorsa qualsiasi bensì la
cultura, che
non è un semplice deposito d’informazione, [ma] un meccanismo organizzato
in modo estremamente complesso, che conserva l’informazione
3
[e] determina
i modi di pensare, di apprendere, di lavorare, di percepire le proprie emozioni,
di creare opere d’arte, d’innovare la produzione, di pregare, di adottare codici
di comunicazione,
4
gli effetti di tale spostamento non possono essere sottovalutati. Ad ogni deterritorializzazione
è seguita infatti una riterritorializzazione della cultura, il che ha portato ad un cambiamento
2
Naisbitt, J., Ripensare il futuro, I nuovi paradigmi del business, (a c. di R. Gibson), Il Sole 24 Ore Libri,
Milano, 1997.
3
Lotman, J.M., e Uspenskij, B.A., Tipologia della cultura, Bompiani, Milano, 1975, p. 28.
4
Bernardi, U., Culture e integrazione: uniti dalle diversità, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 339.
10
nella percezione tale da far sì che l’idea di cultura come luogo di appartenenza passasse al
vaglio dell’idea di cultura come processo di transizione e trasformazione
5
. Essa, quindi,
cessa di essere un punto di partenza o riferimento, per divenire un elemento migrante verso
il nuovo habitat di significazione.
In questo andare incerto a cui sono sottoposte le culture così come gli uomini, risiede
la peculiarità del fenomeno della globalizzazione. In esso, infatti, spinte verso l’unità e
spinte verso la frammentazione, connessione ed eterogeneità, rottura e molteplicità
coesistono, generando fondamentalmente instabilità.
A seconda dei casi e dei momenti, la realtà viene descritta con la famosa metafora del
“villaggio globale”
6
, oppure con la meno nota, ma pur sempre efficace, visione di un
“mondo dissipato, un mondo in frantumi”.
7
La complessità di qualsiasi generalizzazione è
evidente soprattutto a livello della cultura: se, da un lato, l’indebolimento del destino
nazionale e la perdita del senso di appartenza dovuto alla privazione di un saldo punto di
riferimento quale è il legame con una specifica cultura all’interno di specifici confini, può
apparire un elemento fortemente negativo e destabilizzante, dall’altro, la continuazione di
quella stessa cultura in un altro territorio e l’incontro con culture diverse segna la rinascita
di un nuovo senso di appartenza che si rinsalda attraverso la distribuzione di comunità
etniche sul territorio metropolitano.
La cultura del cosiddetto “postmoderno globale” non si esprime più attraverso una
singola ideologia o un linguaggio singolo, proprio perché gli effetti di globalizzazione si
integrano a quelli di differenziazione, tralasciando i concetti di nazione e nazionalismo per
entrare in una serie di realtà locali. Più che essere una replica uniforme di modelli unici, la
cultura mondiale si configura come un’organizzazione della diversità, un’interconnessione
crescente di culture locali differenti ma anche lo sviluppo di culture senza un netto
ancoraggio in un particolare territorio.
Nel momento in cui il globale sembra avere la meglio, fa la sua ricomparsa il locale.
Nonostante infatti gli effetti di internazionalizzazione abbiamo spesso più impatto
mediatico, questi non possono sottrarsi alle varie articolazioni del locale. Secondo Stuart
5
A questo proposito, cfr. Chambers, I., La questione postcoloniale: cieli comuni, orizzonti divisi, Liguori
Editore, Napoli, 1997, p. 19.
6
McLuhan, M., Understanding Media: The Extensions of Man, Gingko Press, 1964.
7
Pynchon, T., Vineland, Milano, Rizzoli, 1991.
11
Hall e altri
8
, anzi, la globalizzazione contemporanea ha una struttura che è allo stesso
tempo globale e locale ed è affetta da una loro mutua e continua riorganizzazione. Tale
struttura implica nuove forme di migrazione – del lavoro e di flussi di capitale –, nuovi tipi
di relazione tra i processi di globalizzazione e la costruzione di livelli multipli di località che
simultaneamente interrompono e amplificano questi flussi. Ad esempio, l’erosione della
nazione e delle identità nazionali è controbilanciata dal ritorno ancora più forte di
“esclusioni difensive”, da nuove relazioni ecologiche e nuove pratiche culturali che fanno
scaturire l’unità dalla differenza. I luoghi sono sempre più influenzati da fattori esogeni per
cui non è più possibile pensarli, sentirli e interpretarli come entità a sé, ma, allo stesso
tempo, sono sottoposti a continue verifiche locali giocate a livello di questioni di
appartenenza e di origini che ossessionano l’immaginario contemporaneo e relativizzano le
separazioni tracciate dai confini. L’economia spaziale subisce, pertanto, una continua
metamorfosi e riorganizzazione, al di là della sua rappresentazione e concettualizzazione nel
non-luogo del “glocale”. Questo ha ovviamente effetti destabilizzanti dal momento che lo
spazio, il territorio, l’ambiente in quanto fattore culturale, costituiscono il riferimento
indispensabile per la memoria collettiva e nel momento in cui perdono la loro stabilità, noi
perdiamo “l’illusione di non cambiare con il tempo e di ritrovare il passato nel presente”
9
.
Intanto, però, la cultura è costretta a liberarsi di confini e orizzonti – troppo angusti
per reggere la sfida lanciata dalla globalizzazione – e a cercare altri spazi di espressione.
Come ha scritto Homi Bhaba nell’introduzione a Nation and Narration, il luogo della cultura
nazionale
non è unitario e coeso né può essere visto semplicemente come “altro” in
relazione a ciò che è oltre o al di fuori di esso: la frontiera è bifronte, e il
problema dell’interno/esterno si trasforma in un processo di ibridizzazione che
incorpora nuova “gente” entro il corpo politico e genera altri centri di
significato.
10
8
A questo proposito, cfr. Hall, S., “The Question of Cultural Identity”, in Modernity and its futures,
eds S. Hall, D. Held and A.G. McGrew, Polity, Cambridge, 1992.
Tra gli altri: cfr. Massey, D., Space, Place and Gender, Polity, Cambridge, 1994 e Robins, K., “Tradition
and Translation: National Cultures in a Global Context” in Enterprise and Heritage, Crosscurrents of
National Culture, eds J. Corner and S.J. Harvey, Routledge, London, 1991.
9
Halbwachs citato in Bernardi, U., Culture e integrazione: uniti dalle diversità, Franco Angeli, Milano,
2004, p. 81.
10
Bhaba, H., Nation and Narration, Routledge, London, 1990 (trad. it. Nazione e narrazione, Meltemi,
Roma, 1997, p. 38).
12
1.2 Tra passato e presente: il tempo delle migrazioni
Fin dall’antichità, l’uomo ha manifestato una forte vocazione alla migrazione e al
movimento. Nella sua lunga storia iniziata milioni di anni fa con le forme primitive di
Homo habilis e Homo erectus, la specie umana è sempre stata tentata dal nomadismo e
dalla ricerca di nuovi territori. Non appena per una mutazione genetica favorevole o per
un’innovazione culturale si verificava un aumento della popolazione presente in un dato
territorio, una parte di essa era indotta ad allontanarsi dal gruppo verso spazi liberi e nuove
esperienze.
Le migrazioni, generate sia da fattori biologici sia da fattori culturali, hanno non solo
smussato le differenze genetiche fino alla formazione di un’unica specie umana su tutto il
pianeta, ma hanno anche segnato tappe rilevanti nella storia, come la grande corrente che a
partire dal Seicento portò, con la forza, sette milioni di neri dall’Africa in America, e quella
che fra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento condusse cinquanta milioni di
europei nel Nord America, nell’America Latina e in Australia.
Più recentemente, a partire dalla metà del secolo scorso, l’Europa, un tempo centro
di emigrazione, è diventata la principale meta dei flussi migratori. Nel secondo dopoguerra,
infatti, il processo di ricostruzione e il successivo sviluppo industriale insieme alla
liberalizzazione di scambi di merci e persone attirò milioni di persone dai Paesi del Sud
Europa verso le nazioni del Centro e del Nord. Agli inizi degli anni Settanta, poi, molti
giovani provenienti soprattutto dall’Africa e dall’Asia, e successivamente quelli dei Paesi
dell’Europa orientale dopo la caduta del muro di Berlino e l’affermarsi della politica della
perestrojka, si diressero verso i Paesi a economia di mercato dell’Europa occidentale. Così,
già alle soglie del nuovo millennio si calcolavano circa 150 milioni di persone stabilmente
all’estero e tra i 25 e i 30 milioni di stranieri nei soli Paesi dell’Unione Europea. La
Germania, ancora oggi, è meta prevalentemente di persone che arrivano dalla ex Jugoslavia,
dai Paesi dell’Est e soprattutto dalla Turchia; in Inghilterra, gli immigrati sono per lo più
asiatici; in Francia, in Spagna e negli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo i flussi
provengono in gran parte dal Marocco, dall’Algeria e dalla Tunisia.
Essendo l’attuale processo di globalizzazione un promotore del movimento delle
persone, risulta ben evidente quanto le migrazioni passate e quelle presenti incidano sul
contemporaneo, sul suo immaginario e sulla sua essenza temporale. Questi spostamenti,
13
infatti, hanno effetti a lungo termine che si ripercuotono anche sulle generazioni successive
a quelle che li hanno compiuti.
Le migrazioni che si sono verificate negli anni Cinquanta del secolo scorso
incominciano a farsi sentire proprio adesso, proprio sui figli degli immigrati, che pur non
muovendosi vivono la condizione migrante e, in un certo senso, la subiscono più dei loro
padri. Il suo peso è superiore a quello di un viaggio e aumenta il senso di spaesatezza, in
quanto mentre
il viaggio lascia sottintendere un possibile ritorno, un potenziale rientro alla
base. La migrazione, invece, comporta un movimento in cui non sono
immutabili o certi né i punti di partenza né quelli di arrivo, richiede che si
risieda in una lingua, in storie, in identità costantemente soggette a mutazione.
11
Il nostro è un tempo di popoli in movimento e di movimenti di popoli. Permanenti o
provvisorie, spontanee o coatte, entro confini nazionali o fra stati e continenti diversi,
queste migrazioni prevedono sempre una fase di emigrazione, cioè l’abbandono
dell’ambiente di origine, e una di immigrazione, cioè l’inserimento nelle società di arrivo. La
dispersione provocata da milioni di individui che lasciano la terra natale per stabilirsi
altrove, nella speranza di migliorare le condizioni economiche o nella volontà di sfuggire a
conflitti etnici e religiosi, sconvolge e mette in discussione temi quali la nazione, la sua
letteratura, la sua lingua e il suo senso di identità, centralità e omogeneità psichica e
culturale. Il tempo perde la sua linearità e si apre al confronto tra presente e passato.
11
Chambers, I., Migrancy, Culture, Identity, Routledge, London, 1994 (trad. it. Paesaggi Migratori. Cultura e
identità nell’epoca postcoloniale, Costa&Nolan, Genova, 1996, p. 9).
14
1.3 Tra essere e non essere: la ricerca del soggetto
Nel contesto finora delineato di questo nuovo disordine mondiale, sorge naturale chiedersi
come si articolino il globale e il locale nella ricerca di identità e quante diverse modalità di
appartenenza siano possibili.
Ciascuno di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità,
a concepire la propria identità come la somma delle sue diverse appartenenze,
invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a
strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra.
12
Se la mobilità accelerata dei flussi e l’affievolimento dei vincoli tradizionali costringono
l’uomo, di per sé amante della stabilità, a mettere in discussione i propri confini e i propri
orizzonti culturali, egli è costretto a riflettere sul proprio essere nella società, sul suo porsi
rispetto ad essa e sull’accettare le nuove connotazioni assunte dall’identità a seguito del
doppio movimento di globalizzazione e differenziazione.
Come ben spiega Charles Taylor in Multiculturalism and the “Politics of Recognition”
13
,
l’identità è innanzitutto una questione tutta moderna, che emerge solo alla fine del
Settecento con il crollo delle gerarchie sociali che costituivano un tempo la base dell’onore.
E’ solo allora che nasce l’“identità individualizzata”, un proprio modo di essere originali
che si scopre in se stessi e si desidera venga riconosciuto. Nelle società precedenti, infatti,
non esisteva questo bisogno dal momento che tutto era stabilito e derivato dalla posizione
sociale. Nel momento in cui viene a mancare questo punto di riferimento, non esistendo
più un a priori, si rafforza il bisogno di seguire l’ideale di autenticità
14
e di conquistare il
proprio riconoscimento. A partire da Rousseau ma soprattutto con Herder, il contatto con i
propri sentimenti diventa essenziale per rendersi esseri umani veri e completi. Diventa cioè
fondamentale capire che
c’è un certo modo di essere uomo che è il mio, e io sono chiamato a vivere la
mia vita in quel modo, non a imitazione della vita di un altro. Ora questo
12
Maalouf, A., L’identità, Bompiani, 1999.
13
Taylor, C., Multiculturalism and the ‘Politics of Recognition’, Princeton University Press, 1992.
14
Trilling, L., Sincerity and Authenticity, Norton, New York, 1969.
15
concetto dà un’importanza tutta nuova alla fedeltà a se stessi: se non sono
fedele a me stesso perdo lo scopo della mia vita, perdo ciò che essere uomo è
per me.
15
L’identità moderna è, così, la visione che una persona ha di quello che è e delle proprie
caratteristiche che lo definiscono come essere umano, è il risultato delle relazioni con gli
altri e della negoziazione di ciò che essi vogliono vedere in noi, è la risposta a domande
esistenziali per l’umanità quali chi siamo? e da dove veniamo?. Come il riconoscimento è
importante, così il mancato riconoscimento o il misconoscimento di un’identità da parte di
altre persone non passa inosservato ma può provocare nell’individuo o nel gruppo un
danno reale, una reale distorsione.
Nel presente, accanto a questi elementi emergono nuove questioni sul concetto di
identità. Proprio in un mondo fatto di relazioni distanziate, di reti lunghe di processi
economici, di pluriappartenenze deterritorializzate e indebolimento dei soggetti storico-
sociali, è inevitabile che sorgano situazioni contrapposte attorno alla definizione identitaria.
Da una parte, infatti, la fine dell’agire collettivo determina una tendenza all’egologia, secondo
cui ogni discorso parte dall’io. Dall’altra, la forte sensazione di instabilità che ne deriva
viene compensata dal trionfo della moltitudine, cioè dalla forma dell’essere sociale spaesato di
fronte al mondo
16
.
Nell’epoca dello sradicamento, dei processi globali e dei luoghi sociali affievoliti e
indistinti, il presente ossimorico fa sì che sia possibile contemplare contemporaneamente un
sentire individuale che con le sue emozionalità diventa motore di una ricerca continua di senso
in un percorso sociale fatto di comunicazioni, contrattazioni, scambi e competizioni, e un
essere moltitudine che si configura come l’esperienza di essere in molti a “non sentirsi a casa
propria”. L’intrinseca instabilità si traduce così in una costante ricerca di conferme a livello
interpersonale e nella costruzione narrativa
17
e dinamica del proprio sé. L’identità non si
15
Taylor, C., Multiculturalism and the “Politics of Recognition”, Princeton University Press, 1992 (trad. it.
Multiculturalismo, Anabasi, Milano, 1993, p. 48)
16
Sui temi di egologia e trionfo della moltitudine, cfr. Bonomi, A., Il trionfo della moltitudine. Forme e
conflitti della società che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
17
“A person’s identity is not to be found in behaviour, nor - important though this is - in the
reactions of others, but in the capacity to keep a particular narrative going. The individual’s
biography, if she is to maintain regular interaction with others in the day-to-day world, cannot be
wholly fictive. It must continually integrate events which occur in the external world, and sort them
into the ongoing ‘story’ about the self.”
(Giddens, A., Modernity and Self-Identity. Self and Society in the
Late Modern Age, Polity Press, Cambridge, 1991, p. 54)
16
presenta allora come uno status da raggiungere e fissare una volta per tutte, ma come un
progetto che ognuno di noi è chiamato a portare avanti e a modificare nel tempo. L’identità
non è qualcosa di omogeneo, statico, perfettamente definito e definibile, ma qualcosa che si
forma in movimento,
18
una produzione mai completa, sempre in divenire e sempre
composta con, e non esterna a, la rappresentazione.
19
La consapevolezza della natura complessa e costruita dell’identità dà la chiave per
arrivare ad altre possibilità, quali scoprire nell’apparente completezza dell’individuo
l’incoerenza, l’estraniazione, lo strappo causato dallo straniero, che sovverte e ci costringe a
riconoscere la questione che lo straniero è in noi. Infatti, nel riconoscimento dell’altro,
dell’alterità radicale, riconosciamo di non essere più al centro del mondo, la nostra
centralità si sposta ed è sottoposta a movimento e a metamorfosi.
Il soggetto, in bilico tra essere e non essere, si rifugia nella ricerca di identità plurime, che è
innanzitutto il riconoscimento del valore della differenza, che può portare a individuare
nell’alterità una dimensione dell’io, la scoperta di essere “altro tra altri”.
20
18
Chambers, I., Migrancy, Culture, Identity, Routledge, London, 1994 (trad. it. Paesaggi Migratori.
Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Costa&Nolan, Genova, 1996, p. 30).
19
Hebdige, D., “Digging for Britain: An Excavation in Seven Parts” in Baker, H.A. (eds.), Black
British Cultural Studies: A Reader, University of Chicago Press, 1996, p. 120.
20
Pagetti, C. e Palusci, O., The Shape of a Culture, Carocci, Roma, 2004, p. 21.