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INTRODUZIONE
Può sembrare forse un po’ troppo ambiziosa da parte di una laureanda triennale la
scelta di un tema così complesso e così attuale come il rapporto con l’immigrazione. A
farmi maturare questa “ambizione”, se così la vogliamo chiamare, è stato il fortunato
incontro con la Casa di Carità Arti e Mestieri, la cui sede torinese presso Città dei
Ragazzi mi ha accolta come tirocinante nell’aprile del 2008. Allora il mio interesse per
le tematiche dell’immigrazione e dell’intercultura era ancora tutto un’ipotesi, una sfida,
una scoperta, non senza un po’ di sorpresa: il percorso di studi scelto e intrapreso con
tanta passione mi schiudeva davanti una sua nuova e impensata sfaccettatura. Ora, a
distanza di più di un anno, posso dire che quel senso di scoperta e sfida, lungi
dall’essersi esaurito, cresce ad ogni passo che tento verso la conoscenza e l’esperienza
di questa realtà.
Si dice che un ‘classico’ sia un autore o un’opera che non ha mai finito di dire ciò che
ha da dire. Un esempio di ‘classico’ che voglio qui riprendere è il pensiero di Socrate,
dal momento che ho fatto del suo ‘paradosso’ la spina dorsale del mio modo di pensare:
se si riflette con superficialità si crede di sapere già abbastanza, si ritengono sufficienti i
propri pregiudizi; ma più ci si addentra nella conoscenza di qualcosa, più ci si sente
piccoli e comprensibilmente ignoranti. Da questo punto di vista, ecco come si nota che
la mia scelta ambiziosa diventa il minimo che io possa fare per tenere fede allo spirito
con cui mi sono accostata alla vita adulta, e per mettere a frutto le opportunità che ho
avuto.
Costruendo sempre sulle fondamenta del paradosso socratico, per restare nello spirito
giusto con cui affrontare questo lavoro, non dimentico mai la portata di quest’ultimo:
non la risoluzione delle problematicità di una realtà che irrompe nella nostra, non la
conoscenza definitiva di una sconvolgente e dinamica ricchezza, ma una bracciata nel
mare della sua comprensione.
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E se possibile c’è di più. Vale infatti a maggior ragione per l’incontro fra culture ciò
che è ormai largamente riconosciuto in tutti gli ambiti delle scienze sociali da
numerosissimi ed eterogenei autori: la comprensione non è qualcosa che semplicemente
si scopre ed è dato a titolo assoluto ed univoco, ma è essenzialmente una co-
costruzione, un’interpretazione sempre necessariamente parziale da integrare con altri
punti di vista per dare un’immagine multidimensionale che possa avvicinarsi
all’irriducibile complessità che non possiamo fingere di ignorare quando pretendiamo
di fare scienza.
Ritroviamo questo modo di pensare ad esempio in una riflessione ad ampio respiro di
C. Kaneklin, ed a titolo più pertinente in U. Fabietti e in R. Beneduce, autori a cui devo
molto e di cui avrò modo di dire diffusamente nel corso di questo lavoro.
Il mio lavoro intende esplorare il fenomeno migratorio nel contesto di Torino dal punto
di vista degli adolescenti e dei giovani.
Mi semba dunque pertinente confrontare le definizioni che dell’adolescenza danno due
noti ed accreditati dizionari, il primo di Psicologia dello Sviluppo (Bonino) ed il
secondo di Antropologia (Fabietti e Remotti).
1- L’adolescenza è l’età che occupa generalmente gran parte della seconda decade della
vita, durante la quale la persona matura le caratteristiche fisiche e psicologiche
(cognitive, sociali…) che gli/le consentiranno di affrontare la vita adulta.
Nondimeno, è scorretto considerare l’adolescenza semplicemente come età di
passaggio, non più infanzia e non ancora pieno sviluppo: l’adolescente è a pieno titolo
un soggetto in grado di partecipare attivamente e consapevolmente al mondo che lo
circonda, a meno che esso non metta in atto dinamiche volte ad escluderlo in uno
spazio marginale.
L’adolescenza inizia con i cambiamenti fisiologici propri della pubertà accompagnati
da specifiche problematicità psicosociali, e prosegue con il distacco più o meno
marcato e rapido dalla protezione garantita fino ad allora dalla famiglia.
Parallelamente, l’adolescente si impegna a costruire rapporti che tendano ad essere
paritari, di interdipendenza e non di dipendenza con i coetanei e con altri adulti
significativi (insegnanti, allenatori, leader di impegno religioso o civile…).
Anche se la costruzione dell’identità è un processo che inizia nell’infanzia, è in questo
periodo che il sistema di valori va incontro ad una profonda revisione sul piano
intellettuale ed emotivo.
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Questo processo è erroneamente percepito da molti adulti come ribellione;
la ricerca di nuove esperienze che può portare all’attuazione di condotte trasgressive
induce gli adulti a rischiare di etichettare per questo l’adolescente come deviante;
la voglia di vivere le relazioni interpersonali con intensità può essere scambiata per
incoerenza e instabilità, mentre è perfettamente comprensibile che l’adolescente
<<in certi momenti si senta come inebriato della forza interiore che sperimenta, sino a sentirsi
invulnerabile, e in altri momenti avverta un sentimento di impotenza di fronte alla realtà, sì da sentirsi
profondamente depresso>> (Bonino 1997, pag.10).
La dipendenza dalle risposte fornite dall’esterno è forte più che mai, e
contemporaneamente l’importanza attribuita al rapporto con i pari è spesso acritica, è
comprensibile allora il sentimento di solitudine che l’adolescente prova quando non si
sente ascoltato e capito da persone sulle quali aveva investito tanta fiducia. Mentre il
filone psicologico e psicoanalitico ha sempre considerato l’adolescenza come un
fenomeno universale, quello socio-antropologico sottolinea come essa sia una fase di
preparazione alla vita adulta fortemente condizionata dall’ambiente culturale, con le sue
aspettative sociali e il suo modo di attribuire significato ai potenti mutamenti fisici,
psicologici e di ruolo a cui il soggetto va incontro.
I primi studiosi che si sono occupati delle trasformazioni cognitive che si verificano
nell’adolescenza hanno evidenziato lo sviluppo della logica formale, ovvero quella che
può slegarsi da ogni contenuto per applicarsi sistematicamente a situazioni ipotetiche.
Lo sviluppo della coscienza morale è collegato a quello cognitivo.
Queste idee, proprie soprattutto di Piaget, sono state fortemente e ragionevolmente
criticate in quanto sembrano realizzarsi in un artificioso “vuoto sociale”, trascurando
aspetti non ignorabili della vita del soggetto in via di sviluppo. Solo tenendo conto di
questi fattori è possibile capire ad esempio come alcuni adolescenti non siano in grado
di usare pienamente il pensiero formale.
Tutti questi punti di vista parziali si possono superare attraverso la nozione di “compiti
di sviluppo”. Si tratta di un discorso iniziato da Erikson e proseguito in altri termini da
Coleman, in cui si tiene ben presente che non è né necessario né costruttivo invocare
una generica “crisi” per definire il periodo adolescenziale: dobbiamo parlare piuttosto
di percorsi prolungati e differenziati. Essi sono caratterizzati da difficoltà, sfide,
successi ed insuccessi non uguali per tutti gli adolescenti, ma definiti in base alle
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specificità di ognuno ed al contesto socio-culturale, ai livelli micro, meso, eso e macro
del modello di Bronfenbrenner: tutti i livelli infatti sono essenziali per comprendere
veramente l’affascinante realizzarsi dello sviluppo umano.
2- Non ritrovo nel Dizionario di Antropologia la voce “adolescenza”, né suoi sinonimi.
Questo è già una lezione eloquente sull’insensatezza di reificare una concezione dello
sviluppo e delle sue caratteristiche che è validissima nel nostro contesto, ma può non
essere di alcun aiuto o essere addirittura d’ostacolo alla comprensione in altri.
La voce che più si può avvicinare all’argomento è “Antropologia dell’educazione”. Si
tratta di un campo di indagini che definisce la cultura come un modello che attraverso
l’apprendimento si imprime nei propri individui e ne determina gli aspetti specifici di
pensiero e azione (Benedict, 1934); i metodi stessi con cui ciascun gruppo trasmette la
cultura consente di spiegare il carattere dell’adulto e non solo: si può individuare un
continuum che dalle prime forme di interazione del bambino con l’ambiente
(nutrimento, allevamento, educazione), porta agli orientamenti stessi di una cultura.
(Mead, 1930).
A questo proposito Linton e Kardiner (1945) hanno formulato la nozione di
“personalità di base”, che nasce dalla dialettica fra carattere individuale, metodi
educativi e cultura: è una sorta di denominatore psicologico comune a tutti i membri di
una determinata cultura.
Trattandosi di un ambito eminentemente applicativo, l’antropologia dell’educazione si
pone come obiettivo quello di attutire gli effetti spesso distruttivi di metodi scolastici
propri della nostra cultura utilizzati su studenti non occidentali: tali metodi possono
indurre lo studente a non riconoscere più i propri valori tradizionali, ma nello stesso
tempo a non integrarsi nel sistema di valori che la nuova società gli ha trasmesso, senza
però accoglierlo.
Solo recentemente si è sviluppata una sensibilità a questi aspetti nel campo
dell’educazione, soprattutto in contesti scolastici multietnici con le proprie difficoltà di
comunicazione, di comprensione e adattamento reciproco.
Struttura del lavoro
Procederò ora come segue, in tre capitoli e una conclusione:
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1- Nel primo capitolo approfondirò il concetto di antropologia culturale, con alcune
questioni particolarmente rilevanti per la mia ricerca; quindi, espliciterò tutto per
quanto riguarda lo svolgimento di quest’ultima: le condizioni, i modi, i tempi,
l’approccio e alcune mie impressioni.
2- Nel secondo capitolo affronterò il tema dell’immigrazione prima da un punto di vista
generico, poi approfondirò alcune questioni quali: la rilevanza della cultura d’origine, le
motivazioni e gli obiettivi del migrante, la scolarità della popolazione immigrata.
Tutto questo inserendo estratti significativi dalle registrazioni ottenute nella mia ricerca,
affinché siano direttamente le parole delle persone coinvolte ad esprimere al meglio i
concetti e le esperienze.
3- Nell’ultimo capitolo approfondirò la questione dell’identità del migrante; infine esporrò
quanto è emerso dalla mia ricerca riguardo al rapporto degli immigrati con cultura
d’accoglienza e con i nativi, approciandomi ad esso dal punto di vista dei diretti
interessati, con le loro espressioni e percezioni.
In questo capitolo quindi riporterò ampiamente le parole dei soggetti della mia ricerca.
Una breve conclusione sarà la fine di questo lavoro di tesi, ma certamente non dei miei
sforzi verso la comprensione e la conoscenza dell’immigrazione e dell’intercultura.
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CAPITOLO 1
“Dobbiamo studiare l’uomo e ciò che lo riguarda più intimamente, cioè la presa che
ha su di lui la vita. […] studiare il comportamento e la mentalità senza il desiderio soggettivo
di provare di cosa vive questa gente,di rendersi conto della sostanza della loro felicità, è,
a mio avviso, perdere la più grande ricompensa che possiamo sperare di ottenere dallo
studio dell’uomo. […] Forse il modo di pensare dell’uomo ci sarà rivelato e avvicinato lungo cammini
che non avevamo mai percorso prima; forse prendendo coscienza della natura umana in una forma
molto lontana ed estranea a noi, una qualche luce si riverserà anche sulla nostra”
(Malinowski, 1973, p. 49)
1.1 L’antropologia culturale: scienza di frontiera su un mondo terzo
In un contesto come quello di Torino, contesto metropolitano in cui la realtà
dell’immigrazione è una presenza forte che merita di essere riconosciuta a livello
intellettuale e pratico nelle sue mille sfaccettature, bisogni e potenzialità, sono numerosi
ormai i lavori etnografici che hanno rivolto la loro attenzione al fenomeno migratorio,
sebbene ciò non esaurisca la complessità del fenomeno e comporti sempre nuovi
argomenti di analisi e riflessione di cui questo lavoro intende essere un introduzione e
insieme un proseguimento.
Ciò che è visto come un problema nel rapporto tra la nostra società e il fenomeno
dell’immigrazione è originato da una visione riduttiva, superficiale e
monodimensionale di esso.
Questa parzialità è già sottolineata da Sayad in riferimento a un fenomeno migratorio di
molti decenni precedente a quello dei primi stranieri a Torino: gli algerini in Francia,
inizialmente per la quasi totalità uomini soli in cerca di lavoro poveramente qualificato
intenzionati a tornare nel paese di origine dopo uno o pochi anni. Solo in un secondo
momento il periodo di permanenza in Francia cominciò mediamente ad allungarsi fino
a diventare definitivo, e insieme si videro le prime donne e bambini giunti a formare
famiglie intorno ai lavoratori. Fu messa così in crisi la visione “rassicurante”, dal punto
di vista della nazione colonialista, dell’immigrato come mera forza lavoro, in diritto di
vivere sul territorio francese solo nella misura in cui costituiva una forza lavoro utile e
necessaria, ridotto a contare solo in funzione delle proprie braccia.
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Ben altri bisogni, diritti e questioni sociali emersero in modo così urgente da non poter
essere ignorati o derogati ulteriormente: l’istruzione, la sanità, abitazioni vivibili e
dignitose, maggiori interazioni con la società ospitante a diversi livelli, da quello
relazionale a quello istituzionale.
L’antropologia, un tempo definita “scienza delle società primitive”, si è profondamente
modificata insieme al mondo in rapida trasformazione del quale persegue la
conoscenza. Nella ‘nostra’ Torino non è detto che per tentare di praticare antropologia
sia indispensabile allontanarsi di migliaia di chilometri dalla propria università e
raggiungere società prive di (o libere da, a seconda dei punti di vista!) decisivi contatti
con la nostra.
Questo “cronotipo idillico” (Bachtin, 1997) della tradizione incontaminata, descritta dai
padri della disciplina (penso a Malinowski in Argonauti del Pacifico Occidentale),
secondo Fabietti non è solo desueta, ma propriamente falsa: essa reitera ideologie e
stereotipi coloniali, mentre fin dalla sua nascita avvenuta nel contesto dell’espansione
coloniale l’antropologia è sempre stata scienza del confine, scienza di frontiera,
praticata in contesti di scambio e contatto.
La concezione delle società come entità discrete e separate è un’eccessiva
semplificazione, così come ogni tipizzazione socio-culturale de-temporalizzata che ne
può derivare.
A maggior ragione, l’oggetto di studio che oggi sfida la nostra comprensione e sete di
conoscenza è una dialettica fra la nostra società e molte altre, in senso ulteriore e
differente.
Se un tempo era necessario farsi “argonauti” (non solo metaforicamente), oggi è l’Altro
a venire da noi, intenzionato ad inserirsi in una certa misura nella nostra società ma non
per questo a pagare il prezzo più alto e iniquo che possiamo immaginabile: ovvero la
perdita della propria ‘cultura’ che è legame, appartenenza, visione del mondo, pratiche
di vita, ecc.
L’Altro è continuamente a contatto con noi, per strada, sui mezzi pubblici, a scuola, al
lavoro… ma è cosa ben diversa tradurre questo contatto in conoscenza. Occorre quindi
non dare nulla per scontato: l’obiettivo a cui tendere è rendere familiare ciò che è
estraneo ed estraneo ciò che è consueto. Nel corso del mio percorso di tirocinio ho anzi
sperimentato che:
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“vedere non consiste soltanto nello stare attenti, ma anche e soprattutto nello stare disattenti, nel
lasciarsi accostare dall’inaspettato e dall’imprevisto” (Affergan cit. in Fabietti 1999, pag. 35).
Oggi più che mai conta per l’antropologia la forza dell’ironia:
“se con ironia intendiamo la capacità di generare aporie che mettono in grado di mostrare i
limiti delle nostre certezze […] per suscitare uno sguardo critico dall’interno, capace di
prendere la parola tutte le volte che la condizione umana risulti in pericolo” (Fabietti 1999, p.
X della prefazione)
Ora, se da una parte l’antropologia sfida con il dubbio metodico ogni pregiudizio e ogni
abitudine, dall’altra parte riconosce che non ha senso pretendere di potere con questo
arrivare ad una presunta razionalità priva di legami con il contesto culturale. A maggior
ragione, oggi non si tratta più, o almeno non solo, di presentare la coerenza interna di
culture e modi di vivere “altri” al fine di destare la consapevolezza che il nostro mondo
non è che una cultura tra tante altre; oggi rappresentare l’altro significa saperlo inserire
in un sistema politico, storico ed economico sempre più interdipendente, globalizzato,
valorizzando il significato che le peculiarità culturali ancora conservano, e la
produzione di nuovi significati e simboli all’interno di tutto questo:
“la distinzione fra tradizionale e moderno finisce dunque con l’avere poco rilievo nell’analisi
etnografica dei nostri giorni” ( Marcus e Fischer, 1994, pag. 94)
Una questione che riveste una particolare importanza in antropologia è la centralità del
ruolo del ricercatore (la sua presenza) nella co-costruzione di nuovi significati
particolari e ‘locali’, nei quali il ricercatore stesso è compreso: l’etnografia è, a questo
titolo, una forma di “produzione di cultura” (Tedlock e Mannheim, cit. in Fabietti 1999,
pag. 39).
Le interpretazioni sono reciproche, i flussi di senso sono bidirezionali. In questa
dinamica sono tutt’altro che estranei gli aspetti del potere psicologico e sociale, dato in
varie forme dal contesto e dal rapporto tra il ricercatore e il soggetto. Negare tali aspetti
non è edificante quanto comprenderli e tenerne conto come di un fattore connaturato.
Ispirandomi all’analogia proposta da Pocock (1961) tra il rapporto dell’antropologo con
il soggetto della ricerca e il rapporto dell’analista con il paziente, questa idea di un
“mondo terzo” che non è solo quello dell’antropologo né solo quello del nativo mi
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ricorda il concetto di “terzo intersoggettivo” proposto da Ogden, che pur riferendosi ad
un campo diverso dall’antropologia (la terapia psicoanalitica) offre un’espressione che
a mio parere ben si presta a descrivere l’entità e la potenza di questa dialettica che crea
e ricrea continuamente un mondo condiviso tra noi e l’altro, unica opportunità di
ascolto e osservazione.
Questa implica l’intenzionalità della conoscenza in senso più etico che epistemologico,
fondamentale garanzia contro l’esaurirsi dell’antropologia in uno statico ritratto di isole
tra di loro incomunicabili; connesso al concetto di intenzionalità è infatti quello di
“potere della risonanza” (Wikan, cit. in Fabietti 1999 pag. 47): l’impegno a cogliere e
veicolare significati che poggiano sugli stati emozionali delle due parti, sul loro
incontro come due soggetti di esperienza, verso un avvicinamento che non è
identificazione e fusione. Non lo è, perché l’obiettivo è e non può che essere appunto
descrivere la relazione tra i nostri significati e quelli dell’altro: altrimenti, come
sottolinea Shutz, se ci fosse totale immedesimazione non ci sarebbe conoscenza. Si
finirebbe ancora una volta, come già sottolineato, per ritrarre universi inconnettibili. Al
contrario, l’antropologia è già costituita di relazione anche per il solo fatto,
imprescindibile, di essere una traduzione e di implicare la presenza del ricercatore, che
inevitabilmente modifica gli equilibri del campo, ricopre un ruolo e viene a costituire
una delle variabili presenti. Lungi dall’essere semplicemente un intruso, il ricercatore
diventa un componente attivo nella dinamica delle relazioni sociali tra i componenti
della scena locale. Lo stesso vale per gli altri attori sociali presenti, diversi dagli
“informatori” dell’antropologo, in un sistema interdipendente dato per scontato da chi
lo condivide.
Svilupperò nei prossimi capitoli questi aspetti, ma mi sembra centrale fin d’ora
sottolineare la loro importanza.
L’antropologia culturale non hai mai goduto di grande considerazione presso gli
ambienti accademici, istituzionali e culturali nel nostro Paese: questo ha portato, come
e forse più che negli altri paesi, sia un certo sforzo nella direzione di uno scientismo
modellato su altre discipline, sia una tendenza marcatamente contraria. Se quindi la
prima alternativa conduce a scelte epistemologiche troppo scarsamente
problematizzate, la seconda ha trascurato di soffermarsi su alcune questioni centrali del
metodo, sostenendo che l’osservazione partecipante dell’etnografo è un fatto di
sensibilità personale e creatività. Non vi è però un accordo univoco e sistematico che
indichi il metodo in antropologia. Quel che è certo è che nell’antropologia:
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“l’obiettività non si situa né nella coerenza logica di una teoria, né nell’evidenza dei dati, bensì
nella creazione dell’intersoggettività umana” (Fabian, cit. in Fabietti 1999 pag.82)
L’attendibilità etnografica non è disgiunta dal processo di testualizzazione: quindi dalla
descrizione delle scelte teoriche, delle modalità di accesso alle informazioni e dei passi
compiuti per giungere dalle annotazioni e registrazioni prese sul campo, alle
argomentazioni del testo etnografico. Il problema sollevato poco sopra riguardo allo
scientismo in antropologia ritorna anche nell’aspetto della testualizzazione: se da un
lato la necessità di presentarsi come scienziati per distinguersi dal dilettantismo di
scrittori, viaggiatori e missionari che un tempo erano le uniche fonti di
impressionistiche ed etnocentriche notizie etnografiche ha portato gli antropologi a
tentare di “togliersi dal testo” (Geertz, cit. in Fabietti 1999, pag. 91), dall’altro essi non
hanno potuto fare a meno di rientrarci, in quanto unici testimoni, unica vera prova
vivente della realtà dell’esperienza etnografica, a titolo di autori come:
“fondatori di discorsività: studiosi che hanno lasciato nei loro testi un’impronta decisa e nello
stesso tempo hanno costruito dei teatri di linguaggio nei quali molti altri, in modo più o meno
convincente, hanno operato” (Geertz, cit. in Fabietti 1999 pag. 92).
Se dunque non vi è un metodo stabilito con univocità da un qualche manuale per
antropologi, sono questi autori-modello a legittimare, autorizzare appunto, il nostro
modo di presentare il lavoro.
Gli autori-modello sono per Geertz ‘grandi’ autori, quelli che si possono chiamare i
padri della disciplina (Lévi-Strauss, Benedict, Malinowski…).
Concludendo, il risultato di un lavoro antropologico riuscito dovrebbe essere non una
retorica retrospezione di tipo “pastorale”, ma un’allegoria capace di rendere
moralmente significativa per il lettore la situazione descritta grazie alla riflessività, che
non è immedesimazione ma è interpretazione mediata: arriviamo a sentire “come”
l’altro. Così l’etnografia:
“guadagna profondità soggettiva attraverso ruoli, riflessioni e rovesciamenti drammatizzanti.
La scrittrice e i suoi lettori […] possono ascoltare e contemporaneamente dare voce all’altro”
(Clifford, cit. in Fabietti 1999, pag. 104).