4
Il primo capitolo ripercorre brevemente la storia della montagna o, per meglio
dire, la sua scoperta da parte dell’uomo a partire dalla scalata al Monte Ventoso di
Petrarca avvenuta nel 1346, fino all’attuale sviluppo turistico di molte località alpine,
passando attraverso le rappresentazioni pittoriche del XV e XVI secolo, le prime
spedizioni scientifiche avvenute nel corso del XVIII secolo da parte di intellettuali del
Nord Europa, e la conseguente nascita dell’alpinismo moderno di coloro che, motivati
da interessi esplorativi e scientifici, si sono fatti affascinare tanto dalle altezze sideree
delle montagne alpine da volerne raggiungere la vetta.
Molti fanno risalire la nascita dell’interesse estetico delle Alpi nel 1761, anno
della pubblicazione della Nuova Eloisa di J. J. Rousseau, ma Joutard nel suo libro
L’invenzione del Monte Bianco, ci mostra con innumerevoli esempi lettarari e
iconografici, di come l’interesse per la montagna sia già documentato nel rinascimento;
Joutard, nella sua opera, ripercorre le tappe che hanno reso possibile l’ascensione al
Monte Bianco, riassumendo così la storia non solo della vetta più alta d’Europa, ma di
tutto l’arco alpino.
Joutard utilizza il termine invenzione e non a caso: i luoghi alpestri, prima di
essere scalati ed esplorati dovevano essere scoperti. Emblematico è il caso del Monte
Bianco la cui cima è stata raggiunta l’8 Agosto del 1786 dal medico Paccard e dal
cercatore di cristalli Balmat, entrambi di Chamonix, ma il precursore di
quest’avventura è uno straniero: il botanico ginevrino H. B. De Saussurre, che mostra
dal 1785 un desiderio ossessivo di raggiungere la vetta; sarà tuttavia preceduto dai due
chamoniards e si dovrà accontentare di vedere realizzato il suo sogno di raggiungere il
punto più alto d’Europa l’anno successivo. È dunque il 1786 la data a cui vengono fatti
risalire i natali dell’alpinismo moderno, da questo momento in poi la montagna sarà
visitata da un numero sempre crescente di turisti. L’alpinismo conoscerà uno sviluppo
improvviso e i luoghi alti cedono lentamente la loro aura di inaccessibilità sotto i colpi
violenti di ramponi e picozze sempre più leggeri di alpinisti sempre meno interessati
all’ascolto dei monti e sempre più invasati dallo spirito faustiano della conquista
dell’impossibile «come se [...] alla montagna non ci si potesse accostare che con un
atteggiamento di competizione, di sfida, di appropriazione (significativo il gesto del
piantare la bandiera sulla vetta), di conquista [...], si tratta di superare i propri limiti di
resistenza fisica, di vincere le paure, di lottare contro la montagna per dimostrarsi
5
metaforicamente alla sua altezza; si affrontano sacrifici, pericoli, si rischia la vita in
una sorta di eroismo solitario, ma il fine è semplicemente quello di un’affermazione di
sé, una specie di narcisismo eroicizzante»
3
.
Il secondo capitolo è il frutto di una ricerca, condotta durante l’estate del 2005, in
sei comuni alpini a forte vocazione turistica tre dei quali in Valtellina – Aprica, Bormio e
Santa Caterina in Valfurva – e tre nel Trentino Alto Adige – Canazei, Selva di Val
Gardena e Solda - . Scopo dell’indagine era di mostrare i differenti modi di relazionarsi
alla montagna da parte dei turisti e dei residenti e comprendere quali fossero le
differenze tra queste due regioni confinanti nel vivere il rapporto con la montagna.
Sono stati redatti in tal senso due questionari, uno per residenti e l’altro per
turisti, sulla base di un questionario utilizzato dal Consorzio Turistico Valle del Vanoi
nel corso di un’indagine conoscitiva svolta durante la stagione estiva 2003. I questionari
sono stati somministrati casualmente alle persone incontrate nelle vie di queste località.
Il profilo degli intervistati è consultabile nei grafici.
Molte domande sono state poste sia ai turisti che ai residenti al fine di permettere il
confronto su questioni che, seppur vissute diversamente, coinvolgono entrambi i gruppi.
Per questo motivo, la lettura dei questionari è stata suddivisa in quattro aree
fondamentali: la prima relativa alla viabilità, in cui si chiedeva agli intervistati quali
fossero le iniziative che le amministrazioni locali dovrebbero sostenere per migliorare il
sistema viario. La seconda indaga le opinioni di turisti e residenti circa il rapporto tra
locali e ospiti, e quanto il turismo influenzi a loro giudizio la società locale. La terza è
invece dedicata alle riflessioni degli intervistati sui mutamenti che il fenomeno turistico
ha apportato al paesaggio; si chiedeva non solo di esprimere un giudizio su una scala di
valori da 1 (nessun mutamento) a 6 (cambiamenti profondi), ma di motivare il loro voto
portando degli esempi concreti, che come vedremo sono quasi tutti rivolti al traffico e
alla speculazione edilizia.
L’ultima area è relativa alla domanda che chiude il questionario: “come descriverebbe il
suo rapporto con la montagna?” le cui risposte, se da una parte fanno pensare a un
atteggiamento rispettoso e civile nei confronti della montagna, dall’altro fanno sorgere il
dubbio che le loro parole siano in parte plagiate dalle rappresentazioni e descrizioni dei
3
L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997, pp. 77-78.
6
luoghi alti che l’attuale cultura pubblicitaria inventa per attirare un numero sempre
maggiore di turisti. L’attuale consumismo turistico riduce così a merce anche i luoghi del
nostro abitare facendoci dimenticare che «abitare un luogo vuol dire [...] prendersene
cura [...] il propugnare l’esclusivo valore dell’economia è il più sicuro mezzo per
liquidare quello che resta delle identità regionali o locali, o per continuare a sottomettere
territori dotati di storia, culture e logiche proprie, ad altri diversi»
4
.
Il paragrafo che chiude il capitolo cerca di mostrare, attraverso l’analisi del flusso
turistico in Canazei e Bormio negli ultimi venti anni, quale futuro si prospetta per queste
due destinazioni turistiche.
Sono stati intervistati in totale 251 persone, 149 tra i turisti e 102 tra i residenti.
Il terzo e ultimo capitolo è una riflessione conclusiva, in forma d’intervista, con
Luca Pozzi, assessore con delega al territorio e all’ambiente nella Comunità Montana
Alta Valtellina, sui dati ottenuti dai questionari.
4
L. Bonesio, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna editrice, Casalecchio (Bo)
2002, pp. 85-86.
7
1. La montagna nella storia
Siamo nel 1336, Francesco Petrarca raggiunge la cima del Monte Ventoso, 1912 metri
sul livello del mare, un’altitudine che oggi farebbe sorridere qualsiasi alpinista, che la
considererebbe forse nemmeno degna del nomignolo “montagna da pascolo”, quasi che
fosse l’altezza l’essenza di un monte.
È probabilmente l’avventura petrarchesca ad aprire, in largo anticipo, l’era dei luoghi
alti. Tuttavia dal suo resoconto, La lettera del Ventoso. Familiarum rerum libri IV, 1,
emergono due prospettive contrastanti: una moderna, che anticipa di almeno due secoli
l’ammirazione estetica per i paesaggi; l’altra, ancora ancorata al medioevo, che porta il
poeta a considerare la sua ascensione come una pericolosa deviazione dalla sola realtà
degna d’essere indagata, l’anima. Non è un caso che appena raggiunta la vetta, sul
sentiero del ritorno, Petrarca legga un passo delle Confessioni di S. Agostino: «E gli
uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei
fiumi e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle; e trascurano se stessi»
5
.
Tuttavia la montagna e il paesaggio alpino devono ancora essere scoperti, o, utilizzando
un termine di Philippe Joutard, “inventati”.
Il termine paesaggio è un concetto che poche culture hanno avuto, è una parola che
indica un genere artistico che ritrae un fuori che viene reso visibile da una finestra, la
quale fornisce allo sguardo un limitum laddove invece ci sarebbe un continuum: è la
prospettiva artificiale, che ritagliando una porzione di mondo, la sottrae al continuum
della natura.
È necessario attendere il XV secolo prima di poter avere testimonianze di una pittura di
paesaggio la cui teorizzazione si è resa possibile dopo la contrapposizione cartesiana tra
res extensa e res cogitans, tra soggetto e oggetto. Prima di questo secolo venivano ritratti
paesaggi coltivati, una natura fortemente antropomorfizzata. La pesca miracolosa di
Conrad Witz (Figura 1) è un primo esempio, ma assolutamente anticipatorio.
5
Petrarca F., La lettera del Ventoso: familiarum rerum libri 4.1, tr. it. di M. Formica, Tararà, Verbania
1996.
8
Figura 1 - Conrad Witz, La pesca miracolosa.
A partire dal XV secolo, anche in concomitanza con i grandi viaggi esplorativi oltre
oceano, nuove realtà vengono scoperte anche nel vecchio continente; e la montagna è
una di queste, favorita certamente dal passaggio obbligato che intellettuali e artisti del
nord Europa dovevano affrontare per giungere nella nostra penisola. Iniziano a farsi
strada temi cari al romanticismo, come la relazione tra l’orrido e il piacevole, tema
destinato a durare a lungo. La canonizzazione di questa percezione estetica avviene
attraverso la scrittura letteraria (poesie, diari di viaggio...) e l’effetto culturale è tanto
dirompente da trasformarsi in cliché. Che stupore trovare in un questionario, alla
domanda “che rapporto ha con la montagna?” la risposta “piacevole sofferenza”!
Conrad Witz, 1446 La pesca miracolosa,
Questo dipinto rappresenta forse la prima raffigurazione del massiccio del
Monte Bianco, visibile sullo sfondo, di cui si abbia notizia.
9
Nel XVI secolo, «abbandonata la visione d’estrema sintesi simbolica e formale della
roccia, la montagna, pur ancora luogo inesplorato per gli artisti, comincia a diventare
oggetto di maggiore attenzione, proprio per la sua complessità fenomenica»
6
, ma siamo
pur sempre nel secolo in cui nella Natura si cercavano equilibrio e armonia. La montagna
viene raffigurata quasi sempre come sfondo di composizioni sacre (figura 2).
Figura 2 - Leonardo da Vinci, La vergine delle rocce.
Sono interessi scientifici, rivolti in prima battuta ai ghiacciai, ad aprire la strada e gli
occhi ai viandanti delle Alpi, che iniziano a compiere i primi passi sulle distese innevate
di quei luoghi che prima d’allora erano considerati solo orribili dimore di streghe e
6
G. Belli, La montagna come simbolo: tra XV e XVII secolo, in G. Belli, P. Giacomoni, A. O. Cavina (a
cura di), Montagna, Arte, scienza, mito da Dürer a Warhol, ed. Skira, Ginevra – Milano 2003, p. 53.
Leonardo da Vinci, La vergine delle rocce, 1483-1485, tavola trasportata
su tela, 198x122 cm, Parigi, Louvre, particolare.
10
dragoni (figura 3), occasione di leggende che perdureranno a lungo e che ancora oggi,
nei racconti di alcuni saggi vecchi di montagna, trovano ascolto in bambini di alcune
piccole località alpine.
Figura 3 - Johann Jacob Scheuchzer, Drago di montagna.
Un drago di montagna assale un viandante, da:
Johann Jacob Scheuchzer, Itinera per Helvetiae Alpinas
Regiones, Leyda 1723.
11
Ci troviamo tuttavia anche nel periodo in cui alcuni illuminati artisti si fanno portavoce
di attenzioni e sentimenti che anticipano un atteggiamento moderno nei confronti della
Natura. Uomini straordinari come Dürer e Leonardo, la cui attenzione ad aspetti
naturalistici è ben testimoniata nelle loro opere (figura 4).
Figura 4 - Albrecht Dürer, Trento vista da Nord.
Nel XVI secolo possiamo rintracciare in alcuni autori, pensieri che troveranno la
loro eco nelle parole dei primi grandi alpinisti del secolo scorso. In primo luogo Konrad
Gesner, che nel 1541, in una lettera all’amico Jacques Vogel esprime la propria
ammirazione per i monti con queste illuminanti parole:
«Senza che io me lo sappia spiegare, il mio spirito è commosso da quelle altezze
sorprendenti e rapito nella contemplazione dell’opera dell’Architetto Sovrano. [...] Io
Albrecht Dürer (1471-1528)
Trento vista da Nord, 1945 Acquarello e vernice opaca bianca su carta, 23,8 x
35,6 cm Brema, Kunsthalle Bremen Kupferstichkbinett.
12
dichiaro dunque nemico della natura chiunque non giudichi le alte montagne degne di
lunga contemplazione. Certamente le parti superiori delle cime più elevate sembrano
essere al di là delle condizioni ordinarie e sfuggono alle nostre intemperie, come se
facessero parte di un altro mondo»
7
.
Parole del tutto simili le possiamo trovare in Zapparoli, alpinista leggendario dei primi
decenni del secolo scorso, affascinato dalla maestosità della parete est del Monte Rosa,
l’unica immensa parete delle Alpi a conformazione himalaiana, dove scomparirà
misteriosamente in una delle sue tante insuperate ascensioni.
«Noi tutti nasciamo in una stalla, cella o culla di porfido è lo stesso. Crescendo,
limitiamo la nostra visuale fra strettissime vie, ambienti angusti, grigiore di masse,
costrizioni. Ma v’è un regno più d’ogni altro esaltante la mia innata ispirazione
d’infinito. [...] L’Alpe. [...] Quando ogni scatto del creato costa un brivido nella notte, si
viene iniziati a una comprensione totale delle pene del mondo che laggiù rinnova la sera
il pubblico ai teatri, al mattino i dolenti alle uscite ospitaliere. Pencolanti tra assemblee di
monti, squadroni di catene, ci si sente schegge sperdute nel rilievo siderale d’un pianeta
spento»
8
.
Chi potrebbe sospettare che a separare questi due scritti siano ben quattro secoli? Prima
di Gesner, se escludiamo il simbolismo sacro che da sempre e non solo nella storia
dell’Occidente accompagna la descrizione di monti come il Sinai, Monte della
rivelazione, luogo di incontro tra terra e cielo, dove la Divinità parla la lingua degli
uomini o il Monte Tabor, Monte della Trasfigurazione, ma altri esempi si potrebbero
elencare, rare sono le testimonianze letterarie o pittoriche sulla montagna: «Gli antichi
guardavano soprattutto la vetta della montagna e la vedevano come il punto di
comunicazione della terra con il cielo»
9
.
Dopo Zapparoli la figura della montagna s’è fatta sempre più evanescente e oggi il
simbolismo sacro d’un tempo, l’interesse scientifico del 1600 e il sublime romantico ha
lasciato posto alle avventure no-limits di coloro che non riconoscono alle rocce altro che
un numero corrispondente alla difficoltà tecnica d’una via.
7
K. Gesner, Trattato sul latte e sulle industrie lattiere, C. Froschauer 1541, cit in E.Pesci, La montagna
del cosmo. Per un estetica del paesaggio alpino, cit., pp. 150-152.
8
E. Zapparoli, Intuizioni Alpine, Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, 1938, pp. 549-553, cit. in ivi,
pp. 194-197.
9
Gian Luigi Brena, Alzo gli occhi verso i monti, in A. Stragà (a cura di), Oltre le vette, cit., p. 29.
13
È possibile anche oggi trovare alpinisti non invasati da una assurda e vana idea di
conquista. Messner alla contemporanea cultura del no-limits
10
, contrappone questa
affermazione rilasciata in un’intervista: «Non vado al limite per sapere ciò che mi è
possibile. Vado al limite per fare esperienza di ciò che non mi è possibile. [...] Non
voglio andare oltre il limite[...] andare oltre il limite significa trovarsi in un attimo
nell’aldilà: morire»
11
.
Il passaggio dall’interesse scientifico a quello moderno di alpinismo è rapido. Nei primi
secoli del XVIII secolo, alcuni luoghi sconosciuti, o considerati irraggiungibili, escono
dall’anonimato. È il famoso caso di Chamonix, che in breve tempo diventa la prima
località turistica alpina, sebbene nota soprattutto a intellettuali e artisti.
Quanto mai attuale è l’osservazione, riportata da Philippe Joutard, di De Luc, che
preferisce raggiungere la località valdostana per una via alternativa, a causa della grande
frequentazione della via tradizionale: «Ci siamo ben guardati dal prendere questa strada
10
Parlando di sport estremi, di buggy jumping, free climbing, corse automobilistiche e quant’altro, è facile
chiedersi quale sia il motivo che spinge certe persone a compiere azioni al limite delle possibilità umane.
Vorrei proporre due interviste condotte per «Die Zeit» al celebre alpinista R. Messner e al pilota Niki
Lauda riportate sul libro di H. Heberhard Richter Convivere con l’ansia perché possono offrire numerosi
spunti di riflessione.
Alla domanda di Müller «com’è la pazzia che lei teme?», Messner risponde: «Camminerei su e giù nella
stanza come un animale selvaggio prigioniero in gabbia. Non riuscirei più a pensare con lucidità.
Quand’ero uno studente che in realtà voleva scalare le montagne, di notte mi svegliavo spesso fradicio di
sudore per la paura, perché continuavo a macinare lo stesso pensiero. I miei pensieri giravano a vuoto
[...]. Se avessi continuato a studiare, invece di andare sull’Himalaya, probabilmente mi sarei sparato».
Simile è la risposta data dall’altro celebre personaggio sportivo, l’automobilista Niki Lauda, che così
afferma: «Ho paura della notte. Quando è buio ho paura che mi salti addosso qualcuno. [...]. Nella mia
auto non ho paura perché la domino». (H.H. Richter, Convivere con l’ansia. Le sue origini, le sue forme,
gli effetti e le reazioni, tr. it. di C. Buttazzi, Rusconi, Milano 1993, pp. 106-107). Questo concetto del
dominio, del controllo, credo sia fondamentale e mi porta a fare una riflessione: Messner e Lauda possono
placare la loro ansia grazie al controllo esercitato sul proprio corpo piuttosto che sulla propria auto,
l’azione è per loro tutto, tanto che in un’altra intervista condotta da Michael Albus (R.Messner con
M.Albus, Non troverai i confini dell’anima, Oscar Mondadori, Milano 2000, pp.52-53) Messner afferma:
«Durante l’azione ha luogo solo l’azione. Ma proprio in quelle ore d’azione, passo dopo passo,
specialmente nei momenti di pericolo, io sono la risposta vivente a tutte le domande». Insomma è
l’attività ad essere importante, anzi l’attività è tutto. In alcune imprese no-limits, come il buggy jumping,
invece, la persona difficilmente ha il controllo di quel che accade; pochi saprebbero allacciarsi
l’imbracatura e assicurarsi all’elastico, dipendono totalmente dagli altri, non si può parlare di attività (se
non nell’attimo del salto), ma al contrario di una passività quasi assoluta. Per questo credo occorra fare
distinzione tra le varie attività rischiose.
A prima vista mi verrebbe da affermare che sono sempre esistite imprese di tal fatta, uomini che nel
tentativo di raggiungere i propri limiti, animati dal desiderio di guardare al di là di essi, hanno spesso
incontrato la morte, ma forse è la motivazione ad essere diversa: non siamo di fronte a individui che
hanno messo in pericolo la propria vita - penso in particolare alle imprese estreme di certi esploratori del
passato - per uno scopo che andava oltre la propria persona. Qui lo scopo è lenire quella sensazione
d’ansia legata all’incapacità di accettare i propri limiti, alla paura della passività, all’angoscia di sentirsi
soffocare, forse al bisogno di riconoscersi come individui forti, invulnerabili che possiedono il completo
controllo di tutto ciò che sta fuori di loro, riflesso forse dell’incapacità di gestire un’ansia tutta interiore.
11
R.Messner con M.Albus, Non troverai i confini dell’anima, cit., p.85.
14
oggigiorno così frequentata. Oltre al fatto che essa non era più una novità per alcuni di
noi, spiace che non regni più tra gli abitanti del luogo quella semplicità naturale che tanto
ci piace ritrovare in montagna»
12
.
Sono i temi del traffico e della perdita d’identità di un luogo a causa della frequentazione
turistica che troviamo in queste righe, non da parte di un turista insoddisfatto del XXI
secolo, ma di un esploratore nell’anno 1778.
Interessi scientifici dicevamo essere alla base dell’invenzione del paesaggio alpino, ma la
montagna non se ne stava lì muta ad osservare scienziati e artisti mentre con i loro nuovi
strumenti tecnologici la misuravano in lungo e in largo. Quei paesaggi lentamente
iniziarono a penetrare nei remoti accessi dell’anima degli esploratori e un nuovo
sentimento faceva germogliare nelle loro menti. Sentimento che molti studiosi fanno
risalire all’uscita dell’opera di J. J. Rousseau La nuova Eloisa nel 1761, ma qualche
decennio prima, esattamente nel 1732, è Albrecht Haller a inaugurare «la moda alpestre
in Europa [...] il merito di Haller non sta tanto nell’originalità delle sue idee sulle Alpi e
sull’alta montagna – quasi tutte erano state concepite prima di lui – quanto alla
formulazione adatta ai suoi contemporanei»
13
.
Joutard mette in evidenza come alcuni passi del celebre poema di Haller siano stati fonte
d’ispirazione per Rousseau, come i seguenti che sembrano teorizzare il mito del buon e
onesto montanaro tanto caro al filosofo della Nouvelle Eloise:
«Lungi dalla orgogliosa vanitate
De le penose cure, e de’ tumulti
De la città quì sempremai la dolce
Tranquillità dell’animo soggiorna.
Il viver faticoso di quel popolo
Ne’ lor corpi robusti accresce forza;
Né pigr’ozio gl’impingua. Il lavor desta,
E il medesimo lavoro in calma pone
Gli spirti lor; la sanità, e il piacere,
12
J. -A. de Luc, Lettres historiques et morales sur les montagnes et sur l’historie de la terre et de
l’homme, La Haye 1778, p. 397, in Ph. Joutard, L’invenzione del Monte Bianco, tr. it. di P. Crivellaro,
Einaudi, Torino 1993, p.102.
13
Ph. Joutard, L’invenzione del Monte Bianco, cit., pp. 69-73.
15
Rendon dolci, e soavi i loro travagli. [...]
Felice è ben, che, come te lavora
I patrii campi con i buoi, ch’ei stesso
Educò [...]»
14
.
Il mito del buon selvaggio non era destinato ad avere vita eterna, se non nel fantastico
mondo dei moderni dépliant turistici. Non mi riferisco solo ai risultati dell’indagine da
me svolta, bensì a un passo tratto dai Voyages dans les Alpes dal primo grande
esploratore della zona del Monte Bianco, Horace-Bénédict de Saussure
15
, riportato
ancora da quella inesauribile fonte bibliografica e storica che rappresenta l’opera citata di
Joutard. Queste sono le parole quanto mai attuali del naturalista ginevrino: «Questo
grande afflusso di stranieri e la quantità di denaro che essi lasciano a Chamouni hanno un
po’ alterato l’antica semplicità, e anche la purezza dei costumi degli abitanti di questa
valle. Tuttavia, gli stranieri non hanno assolutamente nulla da temere; nei loro riguardi è
osservata la fedeltà più inviolabile, saranno tutt’al più esposti a qualche fastidiosa
insistenza e a qualche piccolo imbroglio dettato dall’eccessiva premura di farsi
ingaggiare come guida»
16
.
Sembra quasi di leggere le affermazioni di alcuni degli intervistati. Identità scomparsa,
paesaggio deturpato, prezzi troppo elevati, sono solo alcune delle critiche che i turisti
muovono alle località alpine visitate. Ma non sono forse le loro stesse pretese a inquinare
questi luoghi, non è per incontrare i favori di un numero maggiore di turisti che i locali
mutano - per un ritorno di natura economica, beninteso, non per altruismo - le loro
abitudini e i loro paesaggi?
A Haller non interessava solo affermare la bellezza estetica delle Alpi, ma voleva anche
mettere in discussione l’opinione comune secondo cui le zone alpestri non avevano
utilità alcuna, luogo comune questo che «rendeva complessa e difficile ogni deduzione
sul loro inserimento in un disegno divino ordinato verso il bene dell’uomo, presente in
14
A. von Haller, Ode sur les Alpes, Bern 1773, pp. 19, 31, 59 e 61, cit in Ph. Joutard, L’invenzione del
Monte Bianco, cit., pp. 74,75.
15
H.B. de Saussurre, noto naturalista ginevrino, raggiunse la vetta del Monte Bianco nel 1787. La vetta
venne raggiunta la prima volta l’8 agosto 1786, dal dottore M. G. Paccard e dal cercatore di cristalli J.
Balmat, entrambi di Chamonix. È a questa data che potremmo fare risalire i natali dell’alpinismo
moderno.
16
H.-B. de Saussure, Voyages dans les Alpes, Genève 1786, tomo II, par. 733, in Ph. Joutard,
L’invenzione del Monte Bianco, cit., p. 103.
16
ogni teologia naturale»
17
. Così, nel testo di Haller, gli esempi sull’utilità delle zone alte,
sia per la conoscenza fisica del mondo, che per la moralità incarnata dai montanari, non
mancano a presentarsi. Se questo non bastasse qualche decennio più avanti, nel 1786,
Stephan von Stengel, nella sua Philosophische Betrachtung über die Alpen, cerca una
dimostrazione scientifica che attesti l’utilità della catena alpina per l’uomo, partendo
dall’ipotesi di una loro assenza o posizione diversa. «Stengel propone l’esperimento
mentale di chiedersi che cosa succederebbe se le Alpi, anziché a Sud, fossero poste a
Nord della Baviera. [...] Ne conseguirebbe la desertificazione dell’Italia e dei fiumi che
scorrono verso di essa, il vento africano arriverebbe molto più a Nord portando con sé
malattie e altri effetti negativi, mentre poste più a Nord, le Alpi ghiaccerebbero più
ampiamente, peggiorando notevolmente il clima. Ogni argomentazione di questo tipo,
come in ogni teologia naturale, è legata all’idea di stampo leibniziano che i piani di Dio
sono sempre i migliori, e in questi vanno fatte rientrare anche le Alpi, che vengono così
progressivamente connotate positivamente anche dal punto di vista fisico-teologico»
18
.
Non mancano certo voci fuori del coro, Hegel non trova traccia alcuna di sublime né di
una logica che possa ascrivere le zone alte in qualche progetto divino votato al bene
dell’uomo. Scrive Hegel nel suo Diario di viaggio sulle Alpi bernesi : «Dubito che anche
il teologo più credulo oserebbe qui, su questi monti in genere, attribuire alla natura
stessa di proporsi lo scopo della utilità dell’uomo, che deve invece rubarle quel poco,
quella miseria che può utilizzare, che non è mai sicuro di non essere schiacciato da pietre
o da valanghe durante i suoi miseri furti, mentre sottrae una manciata d’erba, o di non
aver distrutta in una notte la faticosa opera delle sue mani, la sua povera capanna e la
stalla delle mucche. In questi deserti solitari gli uomini colti avrebbero forse inventato
tutte le altre scienze e teorie, ma difficilmente quella parte della fisico-teologia che
dimostra all’orgoglio dell’uomo come la natura ha preparato ogni cosa per il suo
godimento e il suo benessere; un orgoglio che al tempo stesso caratterizza la nostra
epoca»
19
.
17
P. Giacomoni, Il fascino del selvaggio. L’invenzione estetica delle Alpi in epoca romantica e oltre., in
G. F. Frigo, P. Giacomoni, W. Müller-Funk (a cura di), Pensare la Natura. Dal Romanticismo
all’ecologia, cit., p. 250.
18
Ivi, p. 249.
19
G. W. F. Hegel, Diario di viaggio sulle Alpi bernesi, in E. Pesci, La montagna del cosmo. Per
un’estetica del paesaggio alpino, cit., pp. 174-175.
17
Una posizione questa non ancora del tutto scomparsa: l’idea che la Natura sia a nostra
completa disposizione è oggi solo alleggerita dalla consapevolezza che senza limite di
sfruttamento alcuno il futuro della Terra è messo in pericolo. Ma i luoghi, come ricorda
Magnaghi, non sono “bestie da soma”, non è nella ricerca del limite dello sfruttamento
che si rende possibile tracciare una via alternativa all’allontanamento dell’uomo dalla
Natura.
È su questo terreno che si sono posati i semi degli attuali dibattiti in campo ecologico,
che hanno dato vita a una flora vastissima e diversificata di atteggiamenti, da quelli di
cieca fiducia nella tecnologia, a quelli che vedono in un ritorno al selvaggio l’unica via
di salvezza per l’umanità. La prima posizione è ben testimoniata da Rudyard Kipling, il
quale nel Segreto delle macchine, fa recitare un coro di strumenti tecnologici con queste
parole:
«Anche se il nostro fumo adesso nasconde il cielo ai vostri occhi
Presto svanirà e le stelle torneranno a brillare
Perché con tutta la nostra potenza e il peso e la grandezza che abbiamo
Noi non siamo altro che i figli del vostro sapere»
20
.
Oggi l’inquinamento luminoso rende difficile allo sguardo di cogliere il bianco velo della
Via Lattea, dobbiamo affidarci agli occhi privi di stupore dei moderni telescopi, che
ingannandoci con una falsa vicinanza alle cose, ci allontanano sempre più dalla loro
essenza.
La seconda prospettiva è invece quella di un ritorno all’origine dell’uomo, ma «i miti del
primitivismo non tengono in alcun conto le sofferenze che costa la pura e semplice lotta
per la sopravvivenza in un ambiente naturale ostile. Non tengono conto del fatto che la
natura (presentata come una realtà da difendere) non è né vergine né intatta, ma è essa
stessa il risultato della presenza umana sulla Terra»
21
. Questo atteggiamento è proprio di
chi non comprende l’eterna dialettica tra Uomo e Natura; non permettere all’uomo alcun
tipo d’intervento non ha come conseguenza la sopravvivenza dell’umanità e della
20
R. Kipling, A choise of Kipling’s verse (a cura di T.S. Eliot) London 1961, in R. Runcini, Illusione e
paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell, Laterza, Roma-Bari 1968, pp. 200-201.
21
P. Rossi, Dedalo e il labirinto: l’uomo, la natura, la tecnica, in G. F. Frigo, P. Giacomoni, W. Müller-
Funk (a cura di), Pensare la Natura. Dal Romanticismo all’ecologia, cit., p. 35.