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INTRODUZIONE
Il presente lavoro nasce da un grande interesse nell‟esplorare il complesso e articolato
rapporto tra identità di genere, orientamento sessuale e disturbi del comportamento
alimentare.
La mia attenzione, in particolar modo, è stata volta ad approfondire il ruolo
dell‟identità di genere e dell‟orientamento sessuale come fattori incidenti sulla
vulnerabilità all‟insoddisfazione corporea e ai disturbi dell‟alimentazione, come
attestano i numerosi studi presentati nei capitoli che seguono.
Il comportamento alimentare presenta una natura multifattoriale: fattori biologici,
psicologici, familiari e socioculturali, strettamente correlati tra loro concorrono alla
genesi di tali disturbi, in particolare nelle fasce più giovani della popolazione di sesso
femminile, in evoluzione e in diffusione crescente nella società contemporanea
occidentale (tale da indurre alcuni Autori a parlare di disturbi a carattere di “epidemia
sociale”). Le eccessive preoccupazioni circa l‟essere attraenti fisicamente e la
conseguente insoddisfazione rispetto al proprio corpo comportano, senza dubbio, una
maggiore vulnerabilità ai disturbi dell‟alimentazione.
Da tale lavoro emergono chiare differenze nell‟importanza che i diversi campioni
esaminati, ossia uomini e donne eterosessuali e uomini e donne omosessuali,
attribuiscono all‟essere attraenti fisicamente e i conseguenti fattori di rischio e fattori di
protezione legati al proprio genere e al proprio orientamento sessuale nell‟incorrere in
tali complesse sindromi.
L‟organizzazione di tale lavoro si compone di tre grandi capitoli.
Nel primo, vengono presentati i due concetti relativi all‟identità di genere e
all‟orientamento sessuale. Nel presentare l‟identità di genere, vengono dapprima distinti
e definiti termini, utilizzati spesso in maniera interscambiabile, strettamente correlati ad
essa (identità sessuale, identità di genere, ruolo di genere). Vengono, inoltre, illustrate le
principali teorie riguardo la sua determinazione e il suo sviluppo, dal modello biologico
a quello psicodinamico e psicofisiologico, fino ad arrivare al dibattito natura-cultura e al
conseguente intreccio dinamico di processi che si svolgono nell‟ambito di un sistema
formato indissolubilmente dall‟organismo e dal suo ambiente. Seguono i concetti di
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mascolinità, femminilità e di androginia psicologica con la presentazione grafica dei due
strumenti psicometrici maggiormente utilizzati (il BEM e il PAQ) che permettono di
valutare la spiccata compresenza di tratti mascolini e femminili. La complessità e la
multidimensionalità dell‟orientamento sessuale chiudono il primo capitolo.
Nel secondo capitolo vengono presentati i Disturbi del Comportamento Alimentare
con relativa storia, classificazione diagnostica (secondo i criteri del DSM IV-TR),
quadri clinici ed epidemiologia. L‟intersezione delle molteplici influenze coinvolte in
tali disturbi vengono successivamente argomentate prendendo in considerazione tre
specifiche componenti che possono influenzarne la comparsa: la cultura sociale con il
rilievo che acquista “l‟immagine del corpo” nella sua dimensione privata e sociale; gli
aspetti psico-biologici individuali e, in particolare, la fase critica in cui il sintomo
generalmente insorge, ossia l‟adolescenza ed infine le caratteristiche specifiche, i
modelli di interazione e le disfunzionalità delle famiglie di cui il paziente fa parte.
Il terzo, infine, parte centrale e preponderante di tale lavoro, accoglie le
correlazioni tra identità di genere, orientamento sessuale e disturbi del comportamento
alimentare. Vengono presentati, infatti, grazie alle varie ricerche empiriche, le attitudini
e i comportamenti alimentari in campioni di femmine e maschi, eterosessuali, e
omosessuali. L‟influenza del ruolo di genere (mascolinità, femminilità, androginia) e
dell‟orientamento sessuale (eterosessuale, omosessuale o bisessuale) in grado di predire
l‟autostima corporea o la prevalenza dei disturbi alimentari, concludono tale lavoro.
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Capitolo primo
IDENTITÁ DI GENERE E ORIENTAMENTO SESSUALE
“Un fenomeno resta inspiegabile
finchè il campo di osservazione non è abbastanza ampio
da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica”
Paul Watzlawich, La pragmatica della comunicazione umana, 1967.
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1.1. L’IDENTITÁ: TRA SESSO E GENERE
La parola identità indica la possibilità e la capacità della persona di sentire che è e
rimane se stessa malgrado tutti i cambiamenti che possono verificarsi nel corso della sua
vita che non impediscono all‟individuo di sentirsi e riconoscersi persona costantemente
uguale a se stessa nel corso del tempo. “L’identità è il senso del proprio essere continuo
attraverso il tempo e distinto, come entità da tutte le altre” (Erikson, 1968, p. 58).
Secondo il modello psicofisiologico essa rappresenta il prodotto della
corrispondenza tra rappresentazioni del Sé, inteso in senso corporeo e psicologico ed
esperienza di sé (Ruggieri, 1997), anch‟essa corporea e psicologica. In altri termini,
perché si possa parlare d‟identità, è necessario che il soggetto abbia
un‟autorappresentazione. Questa è fortemente segnata da processi sociorelazionali sia
nel microambiente (da quello materno, proprio delle primissime fasi, a quello
genitoriale e familiare nelle fasi successive) che nel macro ambiente, processi che
producono modellamento attraverso schemi e valori culturalmente condivisi (Ruggieri,
Ravenna, 1999).
La costruzione dell‟identità è, dunque, un processo complesso che si sviluppa
gradualmente e che ha origine nelle primissime capacità del bambino di sentire,
percepire e sperimentare gli elementi che vanno a costituire la propria immagine
corporea e la propria esistenza fisica come fondamento dell‟esserci. Le informazioni
vengono rimandate dal centro alla periferia e viceversa, in un feedback continuo e
circolare. Ha luogo così un processo di graduale costruzione dell‟identità il cui nucleo
fondamentale è, appunto, la primitiva esperienza corporea che si arricchisce con gli anni
e con le esperienze accumulate (Erikson, 1968; Stern, 1987; Ravenna, Iacoella, 2000).
Il concetto d‟identità si riferisce, dunque, alla totalità di una persona inglobando in
sé aspetti biologici, psicologici e sociali. Essa accompagna l‟individuo per tutto l‟arco
della vita ed è il risultato di diverse combinazioni tra identità sessuale, identità di
genere, identità di ruolo e identità sociale consentendo all‟individuo di ricercare una
propria collocazione attraverso la quale perseguire il proprio benessere.
Il termine identità sessuale si riferisce alla relazione complessa di sesso e genere
come componenti dell‟identità; comporta un‟integrazione tra il sesso determinato
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biologicamente, l‟identità, il ruolo di genere e l‟orientamento sessuale (Simonelli,
2006).
Il concetto, che fa riferimento in questo caso alla mascolinità o alla femminilità di
una persona, risulta essere determinato da cinque fattori biologici:
i cromosomi sessuali;
la presenza di gonadi maschili o femminili;
la componente ormonale;
le strutture riproduttive accessorie interne;
gli organi sessuali esterni (Simonelli, 2002);
La maggior parte degli individui è chiaramente definibile come maschio o come
femmina attraverso la presenza di questi cinque fattori. Esiste, però, una minoranza di
casi in cui uno o più di questi aspetti biologici possono subire interferenze dando vita ad
un‟identità sessuale ambigua detta “ermafroditismo” (Haeberle, Gindorf, 1998) o
“pseudoermafroditismo” a secondo che queste ambiguità riguardino rispettivamente
caratteristiche sessuali primarie (relative al tipo di gonadi e strutture genitali) o
secondarie (relative alle differenze anatomiche, funzionali e comportamentali).
L’identità di genere, in particolare, rappresenta la percezione sessuata e persistente
di se stessi, come appartenente al genere maschile, femminile o ambivalente (di grado
maggiore o minore) (Simonelli, 2002). Essa rappresenta l‟integrazione sociale di aspetti
biologici, psichici e culturali; è un sentimento di appartenenza, una convinzione intima e
profonda che si acquisisce.
Le definizioni prevalenti nella nostra cultura prevedono solo due generi,
corrispondenti ai due sessi biologici. Da sempre, però, si sono verificate deviazioni da
questo percorso precostituito, ritenuto rigidamente l‟unico possibile e soprattutto il solo
considerato nella norma. È a partire dagli anni „70 che si comincia a fare una distinzione
tra l‟aspetto fisico e biologico, detto “sesso” e costrutto culturale, detto “genere”
(Fausto-Sterling, 1985); il genere, infatti, un termine entrato a far parte del lessico
comune come mutazione dell‟anglosassone gender, usato per la prima volta in un
discorso scientifico da Gayle Rubin (1975) ha a che fare con le differenze socialmente
costruite fra i due sessi e con i rapporti che si instaurano tra essi in termini di
comportamenti distintivi e appropriati (Ruspini, 2003).
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“Sesso” e “genere” usati spesso e impropriamente come sinonimi, in realtà si
riferiscono l‟uno alla componente biologica, l‟altro al vissuto di appartenenza a uno dei
due generi (Ravenna, Iacoella, 2000).
Mentre per gli altri animali è il sesso cromosomico a determinare il comportamento
sessuale, nell‟uomo la componente biologica è solo uno dei fattori in gioco; se
l‟attribuzione del sesso biologico è alla nascita, in assenza di patologie genetiche,
abbastanza semplice, molto più complesso è il costituirsi del vissuto dell‟identità di
genere. Infatti, se si immaginano i generi maschile e femminile come due estremi di un
continuum, all‟interno di questi due poli si collocano infinite possibilità di esistenza e di
espressione (Kenrberg 1995, Benjamin 1996, Ravenna, Iacoella, 2000). Da questa
distinzione seguono due punti importanti:
primo il fatto che il sesso non determini il genere rende conto della
variazione che si ritrova nei ruoli di genere nelle varie culture. Per esempio
può spiegare come in alcune società gli uomini adottino comportamenti più
accudenti nei confronti dei propri figli e le donne ruoli più aggressivi.
secondo che il sesso non determini il genere si può vedere nel fatto che,
anche se così comunemente ritenuti inscindibili, non c‟è in effetti nessuna
connessione o relazione casuale tra i due (Di Ceglie, 2003).
La percezione profonda della propria appartenenza al maschile o femminile si manifesta
nel ruolo di genere con cui si fa riferimento all‟interpretazione corporea, relazionale e
sociale della percezione sessuata del proprio genere di appartenenza (Simonelli, 2002).
Ruolo è un termine sociologico mutuato dal teatro e designa l‟insieme di
comportamenti, regole e attese connesse all‟esercizio di una data posizione sociale, per
esempio quella di “sacerdote” o di “ufficiale di polizia” (Burr, 2000). Il concetto di
ruolo contiene però anche un significato interattivo, implicando reciprocità;
l‟espressione designa, quindi, anche il modo in cui gli uomini e le donne recitano la loro
parte con la loro condotta reciproca.
L‟identità sessuale rappresenta, dunque, il punto di partenza necessario per
giungere alla costruzione dell‟identità di genere che avrà come sua espressione
relazionale il ruolo di genere già a partire dall‟infanzia. L‟identità sessuata è presente in
tutti i mammiferi mentre l‟identità e il ruolo prevedono e riflettono l‟insieme dei valori
che i membri di un dato gruppo condividono e delle norme, regole e principi che sono
tenuti ad osservare (Ruspini, 2003).
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La capacità di conformarsi a queste caratteristiche psicologiche, a partire dagli
elementi biologici, rende gli individui chiaramente mascolini o femminili (Simonelli,
2002). La maggior parte degli individui tende a far coincidere l‟identità sessuale con
l‟identità di genere attraverso questo conformismo psicologico; una minoranza
contraddice parzialmente la propria identità sessuale attraverso il travestitismo,
indossando e interpretando l‟identità sessuale complementare, mentre un ancor più
esiguo numero di persone, i transessuali, vive una disarmonia completa tra gli aspetti
biologici e l‟identità di genere con la drammatica e costante consapevolezza di
appartenere al genere opposto. Nei due casi appena esposti si parla di disforie di genere
con cui si indica una condizione di non armonia tra aspetto fisico e ruolo di genere
ovvero quella forma d’angoscia determinata dalla difficoltà o dal rifiuto di accettare il
proprio sesso anatomico (Callieri, 1999).
Le disforie di genere non vanno confuse con l‟omosessualità e la bisessualità, esiti
alternativi ma “naturali” (insieme all‟eterosessualità) dello sviluppo psicologico e
sessuale umano (Ruspini, 2003). In tal caso, infatti, si parla di orientamento sessuale,
intesa come la preferenza erotica per un partner dello stesso sesso o del sesso opposto
(Simonelli, 2002).
La maggior parte degli individui sviluppa una chiara attrazione erotica verso l‟altro
sesso, chiamata eterosessualità, mentre una minoranza di individui si sente attratta sia
da maschi che da femmine e questo viene definito come bisessualità. Un ulteriore e
minoritario gruppo di persone sceglie partner dello stesso sesso, presentando così un
orientamento omosessuale.
Una definizione a parte meritano gli stereotipi sessuali, ovvero le credenze
condivise sull‟insieme delle caratteristiche e dei comportamenti adeguati per ognuno dei
due sessi. La tipizzazione che ne consegue si riflette negli stereotipi o rigide tipizzazioni
che riguardano anche lo stile di vita e i ruoli ritenuti appropriati al genere; essi inoltre
risultano essere una parte integrale e fondamentale del processo di socializzazione e
contribuiscono precocemente allo sviluppo degli individui (Simonelli, 2002).
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1.2. L’identità di genere
Il termine “identità di genere” è stato introdotto nel 1964 da Robert Stoller per
distinguere l‟appartenenza biologica dal vissuto di sé stessi come maschio o come
femmina.
L‟identità di genere, che si struttura precocemente ed è già definita
irreversibilmente all‟età di tre anni (Money 1975; Stoller 1986), costituisce un tassello
fondamentale del complesso puzzle che disegna l‟identità personale: il vissuto di
appartenenza al genere maschile o femminile si acquisisce molto precocemente e può
essere considerato uno dei nuclei di base attorno al quale si disporranno altre tessere del
puzzle.
Il concetto di identità di genere fu il risultato del lavoro clinico di Stoller (1964).
Preceduto dal termine “identità di ruolo”, descritto da John Money nel Bulletin of the
Johns Hopkins Hospital nel 1955, il concetto di identità di genere voleva differenziare
un insieme di sentimenti, asserzioni e comportamenti che identificavano la persona
come ragazzo o ragazza, come uomo o donna (Di Ceglie, 2003) Nella maggior parte
dei casi descritti, l‟identità di ruolo era in accordo con il genere in cui queste persone
erano state allevate.
Stoller (1964) definì l‟identità di genere come “un complesso sistema di credenze
nei riguardi di se stesso, il senso della propria mascolinità e femminilità,
indipendentemente dall’appartenenza biologica all’uno o all’altro sesso”. Egli
propose, nel suo articolo “The Hermaphroditic Identity of Hermaphrodites” (1964), il
concetto di core gender identity (identità di genere nucleare) e lo considerò come
prodotto della relazione bambino-genitore, della percezione da parte del bambino dei
suoi genitali esterni e di una “forza biologica” proveniente dalle variabili biologiche del
sesso (cromosomi, gonadi, ormoni, strutture riproduttive interne e genitali esterni).
Mentre il processo di sviluppo dell‟identità di genere continua in maniera intensa fino
alla fine dell‟adolescenza, l‟identità di genere nucleare è pienamente raggiunta, per
l‟Autore (Stoller, 1986) prima che sia raggiunta la fase fallica; in seguito la descrisse
come una struttura psichica non passibile di cambiamento dopo i due o tre anni e
derivava in gran misura dal sesso in cui i bambini sono stati allevati. L‟Autore, inoltre,
ha messo in evidenza, attraverso dati clinici ed osservativi, che quando sul bambino
gravano aspettative delle diverse figure d‟accudimento incompatibili tra loro, si
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sviluppano spinte conflittuali che influenzano il costituirsi del ruolo di genere e, in
situazioni gravemente patogene, della stessa identità di genere.
John Money (1980) spiega l‟evolversi dell‟identità di genere attraverso passaggi
obbligati o “cancelli” definendola come “il senso di se stesso, l’unità e la persistenza
della propria individualità maschile e femminile, l’esperienza della percezione sessuata
di se stessi e del proprio comportamento”. Dopo la nascita dei tre cancelli biologici, che
ormai sono definitivamente chiusi e non hanno più alcuna possibilità di riaprirsi, se ne
apre un altro estremamente importante per l‟identità di genere: quello psicologico. Esso
inizia con la nascita e termina, più o meno, intorno ai tre anni, periodo durante il quale
diventano determinanti l‟interazione con se stessi e con il mondo esterno. È a questa età
che il bambino avrà definitivamente strutturato la sua identità di genere, potendosi
definire come maschio o come femmina e
“allorché il cancello dell’identità di genere si rinchiude alle nostre spalle, la sua
chiusura è veramente ermetica. Nel nucleo stesso della nostra consapevolezza noi
allora sappiamo di essere maschi o femmine. Prima ancora che arrivi la torta con tre, o
tutt’al più quattro candeline, nulla, se non un’ immane tragedia può scardinare
quell’intimo convincimento”.
(Money, Tuker, 1975, p. 96)
Secondo Money, quindi, ogni individuo è il frutto di una continua interazione tra
natura e ambiente dal momento che senza stimoli sociali la nostra identità di genere non
può differenziarsi in senso maschile e femminile, esattamente come la gonade
differenziata, da cui ha inizio la nostra vita, non potrebbe trasformarsi in testicoli o
ovaie senza lo stimolo ormonale legato ai cromosomi.
È l‟interazione tra la disposizione innata al genere ed i segnali di genere che
provengono dal mondo esterno, nei primissimi anni di vita post-natale, che ci consente
di identificarci come maschio o femmina; tra le disposizioni innate al livello
cromosomico ed endocrinologico, l‟assegnazione del sesso al momento della nascita, il
comportamento dei genitori e degli adulti di riferimento al momento della nascita e il
tipo di educazione impartita al bambino, nonché la quantità e la qualità degli stimoli che
provengono dal proprio corpo.