scala. Entrambi si richiamano a «valori, norme, istituzioni e modi di
pensare ai quali generazioni successive di una società hanno attribuito
importanza basilare»
3
. Per Braudel una civiltà è «uno spazio, un’”area
culturale”», «un insieme di caratteristiche e di fenomeni culturali»
4
. In
sintesi, questa corrente di pensiero ritiene che l’equilibrio mondiale,
caratterizzato da tre grandi blocchi “ideologici” durante la Guerra fredda,
si sia dissolto in otto grandi aree culturali dette “civiltà”. All’interno di
ogni civiltà si trovano una o più culture affini che si riconoscono in essa
e quindi non sono in conflitto, poiché culturalmente affini. Seguendo
questa impostazione, la cultura italiana, per esempio, si troverebbe
insieme con quella francese, norvegese o statunitense nella civiltà
occidentale, e per questo motivo non sarebbero mai in guerra tra di loro.
Detto ciò, i conflitti etnici sarebbero da collegare ai «punti caldi» ubicati
lungo le «linee di faglia» tra le diverse civiltà del pianeta
5
.
Questa visione – di un mappa globale costituita da un puzzle di
identità culturali e civiltà che si fronteggiano tra di loro - non riesce però
a cogliere la genesi del conflitto e non tiene conto della capacità che in
determinate situazioni hanno popolazioni diverse di vivere l’una accanto
all’altra. Semmai, la definizione «scontro di civiltà», conflitto etnico o
culturale, come evidenziato da Aime «ci induce a ricondurre il dibattito
sulla cultura e sull’identità da un piano esclusivamente culturale a uno
politico»
6
. Infatti, affinché la proposta di identità avanzata da un’élite
attecchisca, occorre anzitutto che esista una rivendicazione, un bisogno,
che, tuttavia, come molti bisogni, può anche essere indotto o creato.
3
Adda B. Bozeman, Civilization Under Stress, in «Virginia Quarterly Review», n.51 (winter 1975).
4
Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori, Milano 1973, 177, 202.
5
La civiltà è intesa in quanto entità culturale e non politica. Per l’autore si possono individuare otto
civiltà “culturali” e sono: quella Sinica, Giapponese, Indù, Islamica, Occidentale, Latinoamericana,
Africana (forse). L’espressione “Africana (forse)” è dell’autore (Samuel P. Huntington, Lo Scontro
delle Civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, 46-56).
6
Marco Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, 123.
Eric Hobsbawm fa notare come la comparsa dei termini «identità»,
«etnicità» e simili sia quanto mai recente. Nell’Enciclopedia delle
scienze sociali ancora nel 1968 non compare nessuna voce identità, se
non in riferimento a quella psicosociale degli adolescenti, e all’inizio
degli anni Settanta nell’Oxford English Dictionary l’etnicità appare
come termine raro associato a paganesimo e superstizioni pagane
7
. Come
afferma Rossana Rossanda,”ancora trenta anni fa, se si fosse chiesto a
uno o a una di noi «chi sei?», avremmo risposto in termini di «che cosa
faccio» o «da che parte mi schiero», piuttosto che da dove o da chi
provengo»”
8
. E conclude affermando che l’etnia è un soggetto moderno
o postmoderno di conflitto.
La stessa espressione “conflitto etnico” ci porta fuori strada: essa è
divenuta infatti una scorciatoia per riferirsi a ogni tipo di scontro tra
persone che vivono nello stesso paese. Alcuni di questi conflitti
implicano l’esistenza di identità etniche e culturali diverse, ma la
maggior parte è scatenata da motivi legati al controllo del potere, della
terra o di altre risorse e non ha niente a che fare con la diversità etnica.
Pensare, invece, che sia così ci spinge verso politiche sbagliate, e ci porta
a tollerare quei governanti che incitano alla violenza di massa e
sopprimono le differenze etniche.
Come hanno inoltre mostrato recenti studi, i conflitti locali,
contrariamente a quanto si pensa comunemente, non sono nettamente
aumentati per frequenza o gravità nel corso dell’ultimo ventennio. Il più
grande aumento dei conflitti locali si è verificato durante la Guerra
fredda come conseguenza dello sforzo delle due superpotenze di armare
gli Stati alleati: «nella suddivisione del mondo in sfere di influenza
7
Eric Hobsbawm, Identity, Politics and the Left, in «New Left Review», n 271 (maggio-giugno 1996),
38.
8
Rossana Rossanda, Identità in trincea, in «il Manifesto», 15 maggio1999.
hanno adottato un unico criterio nei confronti delle minoranze etniche,
linguistiche e religiose: l’intolleranza. Esse dovevano accettare lo
scambio tra il benessere materiale e l’uniformità di stili di vita, all’est
come all’ovest. All’interno di ciascuno dei due blocchi sono avvenute
espropriazioni e violenze inaudite, accettate anche dal blocco opposto, in
rispetto del tacito accordo»
9
. Il caso etiopico del trasferimento forzato di
popolazione è emblematico: «il resettlement avrebbe dovuto ridurre la
forza e la virulenza delle varie guerriglie, spostando le masse dei
contadini che avrebbero potuto appoggiare i movimenti di liberazione
nazionale in opposizione al Derg.[…] Inoltre lo spostamento di milioni
di persone avrebbe favorito l’amalgamarsi delle varie etnie e il sorgere di
un’identità nazionale sminuendo la vitalità delle varie identità etniche»
10
.
Devono arrivare gli anni Settanta per scoprire il potenziale esplosivo
delle centinaia di etnie soffocate in tutto il mondo, dall’URSS alla Cina,
dal sud est asiatico all’America del Sud, dall’Irlanda agli Usa
11
. L’idea
che tutto sia esploso dopo il 1989, sostiene Gurr, deriva dalle
riaffermazioni dell’identità nazionale nell’Europa dell’Est e nell’ex
Unione Sovietica
12
.
Ruspe all’opera, gente che scava, donne che piangono con accanto i
loro figli, fango dappertutto, case distrutte, fosse comuni, impiccagioni,
stupri di massa, teschi che posano sull’erba di un campo come se fossero
una macabra istallazione contemporanea. Nell’ultimo ventennio la
stampa, gli approfondimenti televisivi, l’informazione in generale, si è
occupata con insistenza, e continua ancora oggi con maggiore intensità,
9
Mario Bolognari, Appuntamento a Samarcanda. Taccuini e saggi di ricerca antropologica, Abramo,
Catanzaro 2004, 271.
10
Paolo Palmeri, Etiopia. L’ultimo socialismo africano, Guerini, Milano 2000, 132.
11
Mario Bolognari, Appuntamento a Samarcanda. Taccuini e saggi di ricerca antropologica,
Abramo, Catanzaro 2004.
12
Cfr. Ted Gurr, Ethnic Conflict in World Politics, Boulder (Co.), Westview 1994.
di casi di violenza etnica non considerando gli innumerevoli casi dove
persone tra di loro diverse vivono insieme senza neanche porsi il
problema dell’appartenenza etnica, trasformando l’eccezione in regola,
l’anormale per il normale. Invece no! L’importante è continuare a dare
immagini, scene di guerriglia, meglio ancora se etniche. Così, in un’
epoca dove il voyeurismo sessuale dista solamente un click di mouse
dallo sguardo apparentemente indifferente di un utente cibernetico, allo
stesso modo siti internet o documentari televisivi mostrano, con la stessa
freddezza, pornografiche scene di “violenza etnica” dove la vittima ed il
carnefice vengono impersonificate da due primordiali etnie che non
potranno mai vivere insieme pacificamente poiché diverse. Chi l’ha detto
per esempio che ebrei e palestinesi non potranno mai vivere insieme?
Eppure l’idea comune è l’esatto contrario.
In verità, questo accade poiché, parlando di conflitti tra gruppi
locali, si tende normalmente a dare per scontate tre assunzioni: la prima,
che le identità etniche sono antiche e immutabili; la seconda, che queste
identità forniscono i motivi per persecuzioni e omicidi; la terza, che la
diversità etnica in sé conduce inevitabilmente alla violenza. Tutte e tre
sono sbagliate
13
.
13
John R. Bowen, Il mito del conflitto etnico globale, in Fabio Dei (a cura di), Antropologia della
violenza, Meltemi, Roma 2005, 126.
Definire se stessi, definire gli altri.
Tutti gli individui hanno sempre posseduto un’identità che li
caratterizza in base alla religione, al luogo di nascita, alla lingua e così
via. Allo stesso modo gli esseri umani hanno sempre avuto una cultura;
ma solo nell’età moderna con il colonialismo e la formazione degli Stati
nazione, essi hanno cominciato a considerare se stessi come membri di
ampi gruppi etnici, contrapposti ad altri gruppi dello stesso tipo.
L’identità di ognuno di noi è variabile, plurale, multidimensionale,
non riducibile alla sola identità etnica, religiosa o nazionale.
In uno dei suoi viaggi in treno attraverso le province dell’impero
sovietico, il celebre giornalista e scrittore Ryszard Kapušcinsk notava
come le persone, per attaccare discorso, domandavano al vicino da dove
veniva: «come ai contadini che, in ogni parte del mondo, attaccano
sempre il discorso sul raccolto, mentre gli inglesi parlano del tempo che
fa, così nell’Impero la conoscenza tra due persone prende sempre l’avvio
dalla dichiarazione della propria personalità. Possono dipendere molte
cose»
14
. Questo atteggiamento rileva una rivendicazione di
identità che nasce per induzione. La pesante azione avviata da Stalin
per creare l’homo sovieticus (una forma di globalizzazione ideologica
forzata) ha solo scalfito la superficie del vastissimo impero, e le
conseguenze sono emerse dopo il crollo, quando siamo venuti a
conoscenza di etnie di cui ignoravamo persino l’esistenza. Sembra
quindi che la paura di essere uguali agli altri ci porti a indossare
magliette, come le definisce Hobsbawm, più vistose per proclamare la
14
Ryszard Kapušcinsk, Imperium, Feltrinelli, Milano 1994, 117.
nostra diversità, la nostra identità
15
. Pare che questo attributo sia
divenuto indispensabile, che non si possa fare a meno di possedere
un’identità forte, chiara, e che ogni nostra azione debba fare per forza
riferimento alla nostra identità, quella che Marco D’Eramo definisce
«un’angoscia del nostro tempo», un’ossessione moderna
16
.
È irrinunciabile: l’uomo ha bisogno di modelli per superare il suo
senso di incompiutezza
17
. Proprio perché essa è un fenomeno relazionale
e dinamico, piuttosto che di identità occorrerebbe parlare di processi e di
strategie identitarie. Dalla fine degli anni ‘60 in poi, in psicologia
sociale
18
, si affermò il concetto che l’identità sociale di un individuo è
legata alla conoscenza della sua appartenenza a certi gruppi sociali e al
significato emozionale e valutativo che risulta da tale appartenenza.
L’identità sociale di un individuo consiste nella sua concezione di se
stesso in quanto membro di un gruppo. Il processo personale di
identificazione non è che uno sforzo incessante per preservare il proprio
essere, un’attività mirante alla stabilizzazione e alla comunità, che
cumula le esperienze di socializzazione delle diverse età della vita e le
ricompone nel presente. Per fare ciò, questo lavoro individuale
sull’identità (la sintesi dell’io) si accompagna alla proiezione in
un’utopia collettiva o piuttosto si infrange in un immaginario
comunitario, cosicché si produce un’identificazione, fittizia e altalenante,
con un riferimento collettivo mobile, che può essere maggioritario o
15
Quando Hobsbawn parla di identità opera una divisione in «identità pelle» e «identità maglietta», le
prime si fonderebbero su elementi oggettivamente condivisi da una comunità (colore della pelle,
genere biologico), le seconde, le più numerose, sono opzionali, non ineludibili e intercambiabili senza
troppe difficoltà: si tratta insomma di fatti non inerenti all’oggetto stesso, ma dipendenti dalle nostre
decisioni
(Eric Hobsbawm, Identity, Politics and the Left, in «New Left Review», n 271 (May- June 1996), 41).
16
Marco D’Eramo, Lo sciamano in elicottero, Feltrinelli, Milano 1999.
17
Clifford Geertz, Interpretazioni di culture, il Mulino, Bologna 1987.
18
Henry Tajfel, Some developments in European social psychology, in «European Journal of Social
Psychology», 2-1972.
minoritario, alienante o precario
19
.
Il gruppo ha due diverse modalità per definire l’identità. Secondo la
filosofia aristotelica o essenzialista, l’identità c’è e ha soltanto da essere
scoperta, quindi la decisione non intacca la struttura che, insieme ai
confini, esiste preventivamente e che quindi garantisce l’identità stessa.
Per quella convenzionalista (illustrata dal matematico Waisman), invece,
non esiste l’identità, bensì esistono modi diversi di organizzare il
concetto di identità. Detto in altri termini, l’identità viene “costruita” o
“inventata”, costruiti i confini, determinati il livello e il tipo di identità,
la coesione e l’organizzazione interna.
Ma evocare questa capacità di scelta e di decisione non comporta
affatto ritenere che ci si comporti sempre con vigile chiarezza e gradi
elevati di responsabilità, come dimostrato, per esempio, dalla devastante
guerra civile in Somalia. Il conflitto somalo è fortemente influenzato
dalle relazioni internazionali e dal suo contesto regionale. Il regime di
Siyad Barre fu capace di governare la Somalia per più di 30 anni grazie a
due fattori: l'appoggio economico di USA e URSS durante la guerra
fredda ed una politica interna lacerante. Siyad Barre è accusato di aver
accentuato l'identità etnica e le divisioni tra i vari clan per imporre un
governo autoritario nel paese. Di conseguenza è lui il maggior colpevole
della divisione del paese in clan, sub-clan e sub-sub-clan dopo la sua
caduta. Oltre alla questione religiosa bisogna aggiungere l'irredentismo
somalo. I confini fittizi creati da Italia e Gran Bretagna in Somalia e
Somaliland durante il colonialismo, hanno lasciato parte della
popolazione somala sparsa nelle zone di confine con Djibouti, Etiopia e
Kenya. Qualora la Somalia superasse la corrente guerra civile e creasse
19
George
Devereux, Saggi di ethnopsichiatria generale, Armando, Roma 1978; Ethnoppsychanalyse
complémentariste, Flammarion, Paris 1972.
un vero e proprio stato, sicuramente ricomincerebbe a chiedere i territori
dell'Ogaden, che attualmente appartengono ad Etiopia e Kenya. La
comunità internazionale resta a guardare, disinteressata, il lento
genocidio somalo. La stampa internazionale lo ha dimenticato e quella
italiana lo ha completamente cancellato (nonostante i suoi legami politici
passati)
20
.
Al caso Somalo se ne potrebbero aggiungere altri, tutti della stessa
portata, tutti conflitti dovuti all’invenzione e alla costruzione di identità,
di confini e di linee di demarcazione. L'identità è dunque il prodotto di
una decisione che agisce su due versanti: quello dell'assimilazione di un
contesto culturale particolare, le cui dimensioni ridotte consentono un
alto grado di coerenza interna, e quello di riduzione della molteplicità di
cui sia il puro che l'impuro sono il prodotto. Sulle orme di Hegel,
Remotti riesce a ricostruire le tappe mediante le quali si arriva alla
costruzione dell’identità o meglio più che di tappe, si tratta di processi e
di fenomeni sociali (livelli) che le danno le fondamenta: flusso o
mutamento, connessioni e alternative. Possiamo immaginare che questi
tre livelli siano sovrapposti. Avremo, allora, al livello più basso (1) il
flusso. Esso si presenta come un mutamento continuo, oscuro e
magmatico, radicalmente “de-struttivo”. Il secondo livello (2) è quello
delle connessioni, ed è caratterizzato da potenzialità ovvero da elementi
alternativi. Da ultimo, il livello più alto (3), sovrapposto ai primi due, è
quello delle costruzioni dell’identità. L’identità è costruzione; ma essa
implica anche uno sforzo di differenziazione, che si esercita nei confronti
dei livelli precedenti: l’identità è infatti costruita (livello 3)
differenziandosi od opponendosi sia all’alterità (livello 2), sia alle
alterazioni (livello 1). Proprio in quanto costruzione, l’identità si
20
www.mondodisotto.it
presenta come una riduzione drastica rispetto alle possibilità di
connessione (2) e come un irrigidimento massiccio rispetto
all’inevitabilità del flusso (1). In quanto prodotto di uno sforzo di
differenziazione, essa comporta anche una forza, un potere e in qualche
modo l’esercizio di una violenza: si strappano legami, si interrompono
connessioni per dar luogo alle costruzioni dell’identità; e i soggetti
dell’identità manifestano in qualche maniera la loro forza, il loro potere.
“De-cidere” l’identità è un “re-cidere” le connessioni (2), che altrimenti
la imbroglierebbero e la soffocherebbero. Decidere l’identità è anche
però un elevare costruzioni al di là del magmatico mutamento (1),
sottraendole (fin che si può) al flusso de-struttivo che permane al fondo
di ogni vicenda. Decidere l’identità è dunque violenza contro le ragnatele
delle connessioni; ma è anche tentativo talvolta eroico (e irrinunciabile)
di salvezza rispetto all’inesorabilità del flusso e del mutamento
21
.
Le strutture dell’identità non sono costruite su basi solide; sono
erette sul flusso e sulle alternative, che sono in continuo movimento e
quindi instabili. Cosicché, sotto le strutture delle costruzioni dell’identità
non c’è nulla di consistente, bensì flusso continuo e meccanismi di
alterazione o differenziazione.
Tutto ciò, applicato alla teoria dell’uomo come animale
biologicamente incompleto, ci mostra che l’essere umano, per uscire dal
suo stato di precarietà, viene modellato dalla cultura di appartenenza e
che i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi sentimenti e le sue inclinazioni
vengono costruite sotto forme dotate di significato; necessariamente in
un’ottica di unicità, quindi con un carattere particolare per sopperire il
bisogno di qualcosa che dia stabilità all’identità. L’identità si avvinghia
alla particolarità, perché la particolarità è garanzia di coerenza e la
21
Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996.
coerenza è un valore tipico dell’identità. Per avere identità occorrono
infatti la continuità nel tempo, per un verso, e la coerenza sincronica
dell’assetto. Quanto più si è particolari, tanto più si hanno garanzie di
coerenza e di continuità e dunque un incremento del valore d’insieme
dell’identità. Il rapporto organico tra particolarità e identità, quello per
cui la particolarità è condizione dell’identità, agisce sul piano funzionale:
diventa un problema sul piano dell’auto-rappresentazione. Beninteso, è
possibile accettare e ammettere la particolarità delle proprie forme
identitarie; ma questa ammissione non può non tradursi in un
indebolimento della loro forza, del loro potere di convincimento. Ci sono
in effetti società che non avvertono una particolare identità; si tratta di
società che, non troppo ossessionate dalla loro identità, sono disposte a
riconoscere la loro particolarità, e quindi i loro limiti; altre che, invece,
devono identificare la particolarità dell’altro per potersi definire esse
stesse, escludendo in tal modo ogni forma di scambio interculturale.
La maggior parte degli studiosi si trova oggi d’accordo nel sostenere
che le identità sono un prodotto culturale, fasulle e inventate finché si
vuole, ma attive sul piano pratico
22
. Fissare una identità, una storia,
significa renderla unica, una incessante ricerca delle radici al fine di
rendere autentica una cultura, escludendo le altre ipotesi e compiendo in
tal modo un’operazione politica. Se è fuor di dubbio che tutte le società
hanno una cultura (una sola?), la riflessione su che cosa questa realmente
sia e quali dinamiche inneschi è un problema controverso.
22
René Gallissot, Annamaria Rivera, L’imbroglio etnico, Dedalo, Bari 1997.
La ricerca delle “radici”, ovvero “l’autenticità” delle culture.
L’omogeneità linguistica è stata spesso assunta, da etnologi e
glottologi, come indicatore di identità culturale, sociale ed etnica. Assai
più della cultura, la lingua ha offerto la possibilità di operare tentativi di
ricostruzione storica mirati a stabilire rapporti tra popoli diversi
nell’intento di tracciarne le origini rispettive. Questa visione di lingua e
di etnia come elementi congruenti, associata all’idea di una duplice
“originarietà” linguistica ed etnica, ha costituito un supporto all’idea di
autenticità delle culture, un’idea chiamata oggi molto spesso a fondare
identità etniche, rivendicazioni di “diversità” e “diritti” alla fratellanza.
In Italia, con l’introduzione della lingua toscana come lingua nazionale
(o se vogliamo del toscano letterario), l’uso dei dialetti regionali ha
assunto una funzione sociale marginale. Seguendo il ragionamento sopra
citato, ognuno di noi in qualsiasi regione d’Italia potrebbe ricollegare la
perdita del proprio dialetto come perdita di autenticità della propria
cultura di appartenenza. Ma con questa affermazione ci inoltriamo
nell’attualità, in quei movimenti che si definiscono “autonomisti” ai
quali verrà data maggiore attenzione nell’ultimo parte di questo
elaborato.
Per ora limitiamoci solo a considerare che, una volta stabilita
l’equazione lingua = cultura, società, etnia, diventa quasi naturale
desumere da uno schema di derivazione storica delle lingue uno schema
di derivazione delle etnie come quello elaborato dagli studi di linguistica
indoeuropea agli inizi del XIX secolo
23
. In questo modello le lingue
indoeuropee attuali sono raffigurate come derivanti da altre più antiche,
23
Il «modello dell’albero genealogico», lo schema di derivazione delle lingue indoeuropee da
un’unica “protolingua”, fu elaborato dai tedeschi Franz Bopp e August Schleicher nella prima metà
dell’Ottocento.
secondo un processo di inclusione progressiva che termina nella lingua
originaria
24
. Tuttavia, come ebbe a dire il linguista Leonard Bloomfield
verso la metà degli anni Trenta, la teoria dell’albero genealogico è sì
“coerente”, ma non tiene nel giusto conto il fatto che le lingue possono
cambiare non solo per derivazione, ma anche per contatto e scambio. Il
modello della linguistica storico-comparativa rischia, di fatto, di
“sclerotizzare” una realtà costruita a tavolino. Tale teoria è in parte
smentita dai prestiti linguistici
25
.
Interessante, per un procedimento inverso, è un articolo apparso su
un quotidiano internazionale nel 1993 sul caso linguistico jugoslavo,
dove alla frammentazione del potere fece seguito quella delle lingue : «I
serbi chiamano oggi la loro lingua serbo e non più serbo-croato, e sono
passati dal carattere latino dei loro avversari cattolici a quello cirillico
dei loro consanguinei russi. Parallelamente, oggi i croati chiamano la
loro lingua croato e stanno tentando di “depurarla” da tutte le parole di
origine turca e straniera in generale, mentre gli stessi imprestiti turchi e
arabi, sedimenti linguistici a ricordo della presenza nei Balcani,
protrattasi per 450 anni, dell’Impero ottomano, sono tornati in voga in
Bosnia»
26
.
L’idea di una cultura “originaria” non è poi molto lontana, come
abbiamo visto, da quella di una lingua anch’essa “originaria”. Anzi la
concezione di una lingua e quella di una cultura entrambi “originarie” si
sostenevano a vicenda, come dimostra il caso della linguistica storico-
comparativa sviluppatasi nel secolo scorso. Ritenere che esista qualcosa
di originario come una lingua o una cultura equivale a pensare tale
lingua e tale cultura come entità “pura”, “incontaminata” e quindi in
24
Maurice Leroy, Profilo storico della linguistica moderna, Laterza, Bari 1965, 63.
25
Cit. in Colin Renfrew, Archeologia e linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1989, 120.
26
«New York Times», 16 luglio 1993, A9.
qualche modo “autentica”.
Benché quelle realtà complesse e dai confini poco definiti che noi
chiamiamo culture, società, etnie siano delle realtà immerse in un flusso
continuo di mutamento, il pensiero sociale si sforza senza posa di
individuare un fondamento, un qualcosa di stabile che in qualche modo
lo protegga, nell’immaginario, da qualunque forma di cambiamento. Di
solito questa ricerca di stabilità viene espressa mediante la nozione di
“autenticità”. Ma esiste qualcosa che possiamo definire cultura autentica
?
Questa idea di perdita, di distacco dalle proprie origini (reali o
immaginate), e quindi di un possibile recupero di esse, costituisce uno
dei temi più ricorrenti nel panorama ideologico contemporaneo.
Considerando quanto detto prima a proposito dell’uguaglianza lingua
originaria = etnia originaria, un esempio di recupero dell’autenticità ci
arriva dal periodo post-coloniale: «via via che le ex colonie reclamavano
e conquistavano l’indipendenza, la promozione o l’impiego delle lingue
autoctone e l’abolizione della lingua imperiale (nella maggior parte dei
casi francese e inglese) fu per l’élite nazionaliste il modo di distinguersi
dall’occidente colonialista e definire la propria identità. In seguito
all’indipendenza, tuttavia, tali élite avvertirono l’esigenza di distinguersi
dal resto della popolazione locale. La buona conoscenza dell’inglese, del
francese o di un’altra lingua occidentale offrì loro tale segno di
distinzione»
27
.
Secondo Marc Augé questa ricerca dell’autentico corrisponderebbe
«a un sentimento di sbigottimento largamente condiviso di fronte alla
spettacolare invasione del Capitale anonimo»
28
e sarebbe presente nelle
27
Samuel P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà, Garzanti, Milano 2000, 80.
28
Marc Augé, Simbolo, Funzione, Storia, Liguori, Napoli 1982, 126.
pieghe più diverse della nostra società: nelle reazioni dell’uomo “medio”
di fronte alla “massificazione” della vita sociale; nei programmi dei
partiti, nei regionalismi, autonomismi e nei movimenti di contestazione
tra i quali, quelli che predicano un «ritorno alle origini».