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Introduzione: “Non c’è posto per i dilettanti” (M. Cacciotto)
Non è un’immagine giusta, ma giusto un’immagine (Godard)
Goffman afferma che “la ricerca di cosa sia la realtà è opera di altri
studiosi”, noi sociologi possiamo solo interpretare l’apparenza, la quale per
quanto sia uno strumento vulnerabile e l’unico a nostra disposizione per
avere la conoscenza dell’altro e del mondo che ci circonda.
Voglio iniziare il mio elaborato con una frase tratta dall’ introduzione del
saggio di Goffman: “L’immagine della società che emerge dall’opera di
Goffman è quella di un interrotto flusso di mosse, stratagemmi, bluffs,
mascheramenti, cospirazioni e imposture eseguite da individui e gruppi in
lotta tra loro”. È così che Pier Paolo Giglioli (ed 2005, pag X introduzione)
presenta l’opera “La vita quotidiana come rappresentazione” e proprio
questi mascheramenti, che costruiscono l’immagine sociale, personale e
politica, sono l’oggetto della mia discussione.
L’autore che a metà degli anni ’50 fu considerato l’enfant terrible della
sociologia, relegato ai margini della disciplina solo perché era un pensatore
difficile da catalogare nelle correnti riconosciute dell’epoca, oggi è stato
ripreso e riscoperto. Infatti, ritengo che il suo pensiero sociale non è mai
stato così attuale come ai nostri giorni, alla fine del 2011.
Non è forse vero anche oggi che una persona con un carcinoma alla
vescica può morire con maggiore decoro sociale di quanto un uomo con il
labbro leporino possa ordinariamente compiere le sue azioni quotidiane.
Questo fatto possiamo tranquillamente affermarlo vero perché viviamo in
una società dell’immagine in cui l’apparire è più importante dell’essere e in
cui l’immagine che proiettiamo sugli altri rappresenta esattamente quello
che gli altri percepiscono come nostra identità. Quindi se maneggiare questa
prospettiva teorica ai tempi di Goffman poteva non essere facile perché si
rischiava continuamente di scivolare nelle prerogative moraliste o essere
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considerati venditori di cinismo a buon mercato, oggi non possiamo far finta
di non vedere i dettagli più intimi della vita sociale e pubblica. E’
importante analizzare e studiare il perché l’immagine assume un aspetto
così importante nella nostra vita sociale.
Con l’aiuto del modello drammaturgico di Goffman voglio riflettere sulla
transazione verso una nuova gestione del potere basata sulla pubblicità e
soprattutto sul marketing del self analizzando i precari confini tra realtà e
finzione e soprattutto la capacità che ognuno di noi ha di controllare la
percezione dell’identità personale esercitata sugli altri.
Goffman ha avuto questa intuizione perché ha riconosciuto che nella
nascente società moderna l’oggetto della vita religiosa non era più una
qualche forma di divinità trascendentale, ma era proprio rappresentato dal
“culto dell’individuo” e quindi dal riconoscimento, esaltazione e
rappresentazione del suo specifico self. La sua opera è un tentativo di
individuare quei rituali della vita quotidiana che affermano la sacralità
dell’individuo e indaga la natura cerimoniale della messa in scena
dell’identità. Nello stesso modo io voglio esplorare i meccanismi e le
strategie che un attore sociale, come può essere un politico, mette in atto per
far emergere un’immagine altamente positiva di sé in modo da accattivarsi il
giudizio della gente. Il mio lavoro si arricchisce di un aspetto non
trascurabile ai nostri tempi, quale il ruolo importante dei new media. Infatti
se Goffman poteva fermarsi ad analizzare in modo minuzioso tutti i riti,
anche quelli apparentemente più insignificanti, che caratterizzano
l’interazione face to face, oggi non possiamo permetterci di trascurare che
questi rituali sono presenti a più livelli di comunicazione e soprattutto anche
in quella mediata.
La mia tesi vuole rispondere alle seguenti domande:
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- Se l’identità è il prodotto dei rituali d’interazione, in che modo viene
preparato il materiale liturgico che verrà impiegato nel cerimoniale
di rappresentazione dell’immagine?
- Quali sono le tecniche degli attori sociali necessarie perché queste
scene funzionino senza intoppi o incongruenze?
Per rispondere a questi quesiti voglio prendere in esame tutto il materiale
che il mio percorso di studi mi ha permesso di elaborare e soprattutto voglio
unire tutte le discipline apprese: dalle tecniche pubblicitarie della
comunicazione d’impresa, alle strategie di comunicazione pubblica, dal
marketing aziendale a quello personale usato in campo politico. Voglio
mettere in evidenza come per avere potere sia necessario copiare le tattiche
del mercato e trasformarle in risorse per l’uomo pubblico: dall’utilizzo solo
delle tattiche del marketing al successo della Brand personality.
L’uomo politico sarà proprio questo il cuore e il motore di tutte le mie
ricerche. Quindi, se l’immagine è chiaramente considerabile un modo per
mettersi in comunicazione e lanciare messaggi allora, sostengo come anche
questo attore sociale necessiti di una sinergia di professionisti, fabbricanti di
immagini e addirittura maghi del profondo per emergere dalla crescente
standardizzazione attraverso un’immagine forte, capace di imporsi e
soprattutto di suscitare emozioni favorevoli sulla massa di elettori.
Detto ciò, la mia tesi si pone l’ambizioso obiettivo di offrire le coordinate
di base utili per leggere ed interpretare le strategie adottate da candidati al
fine di ottenere consenso. Voglio quindi dare il mio aiuto a tutti coloro che
vogliono addentrarsi nel mondo della politica, sia come eletti, sia come
elettori per capire le regole del gioco della politica, dalla costruzione di
un’immagine pubblica al marketing politico elettorale come strategia per
raccogliere consenso.
Vorrei inoltre dire che il materiale illustrato e presentato in questo mio
lavoro è di vario tipo: parte è stato ricavato da saggi e ricerche scientifiche,
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ma c’è anche una parte, per me la più curiosa e importante che è tratta da
documenti e articoli che nel corso degli anni mi hanno colpito, piccoli
pensieri di gente singolare “incontrata” in rete o sui giornali in tempi in cui
la mia tesi era solo un lontano miraggio. Quindi per scrivere tutto ciò non ho
sfogliato e letto solo “manuali scolastici”, ma sono andata a spulciare nel
mio libretto dei pensieri raccolti tutte quelle “chicche” che potevano
arricchire il mio elaborato.
1. Punto di partenza
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“Non c’è nulla all’infuori dell’immaginario”
aforisma del celebre filosofo Derrida
(in M. Barisione, pag 12)
“Poiché la realtà che interessa l’individuo è al momento imperscrutabile,
bisogna che egli faccia affidamento sulle apparenze.
E, paradossalmente, più l’individuo dà importanza alla realtà che non è
percepibile, e più deve concentrare la sua attenzione sulle apparenze”
(Goffman 1959, pag 285)
1.1. La sociologia nulla può dire dell’identità come ineffabile essenza,
ma solo può riferirsi all’identità rappresentata (Goffman, pag 97)
La sociologia si occupa dell’analisi delle relazioni umane e, dato che, la
maggior parte di tali relazioni sono basate sulla pura apparenza allora
possiamo affermare che la sociologia è una scienza che studia le apparenze e
quindi le immagini.
E’ difficile stabilire se l’apparenza può essere definita come una forma
d’identità, infatti, l’apparenza di una persona non è altro che l’immagine che
si osserva in sua presenza, è come se fosse l’identità percepita dagli altri o
dalla società che lo circonda.
In sociologia anche il concetto di identità è molto diverso rispetto al
concetto classico d’identità psicologica. L’identità sociale di una persona è
collegata per un verso al modo in cui l’individuo considera e costruisce se
stesso come membro di determinati gruppi sociali e per l’altro è il modo in
cui le norme dei gruppi sociali consentono a ciascun individuo di pensarsi e
quindi rappresentarsi nel contesto in cui si trova. Da ciò emerge che il
processo di formazione dell’ identità si può distinguere in due componenti:
una di identificazione e una di individuazione. Dove la prima produce il
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senso di appartenenza a un’entità collettiva definita come “noi”, mentre con
la seconda il soggetto fa riferimento alle caratteristiche che lo distinguono
dagli altri. (Meyrowitz, 1995)
Come si fa a presentare agli altri la nostra identità? O meglio, come si fa a
mostrare agli altri solo quello che vogliamo si percepisca di noi? Nella
cultura umana per conoscere e quindi rappresentare qualunque cosa si sono
sempre usati sistemi simbolici che hanno esteriorizzato modelli mentali,
questi simboli, infatti, erano capaci di dare forma sensibile e socialmente
condivisibile all’immaginario occupando quindi lo spazio di interazione tra
gli individui e il mondo che li circonda. L’appartenenza fin dal principio
della civiltà era marcata da segni visivi che permettevano il riconoscimento
del ruolo sociale che si interpretava esempi di questo tipo sono evidenti fin
dalle origini quando i guerrieri venivano disegnati con simboli e colori
specifici del loro gruppo di appartenenza in modo che in battaglia si
distinguessero dagli avversari. Noto anche il caso del puntino sulla fronte
delle donne indiane per simboleggiare il grado e classe sociale di
appartenenza.
Quindi anche oggi per rappresentare nel migliore dei modi la nostra
identità sono necessari dei simboli visibili che definiscano quello che
vogliamo essere nel contesto sociale in cui ci troviamo.
Detto questo possiamo facilmente comprendere l’utilizzo dell’espressione
“vestire le identità”, con la quale intendiamo l’insieme di pratiche estetiche
che noi apportiamo alla nostra immagine esteriore per comunicare qualcosa
della nostra identità interiore. E’ per questo che durante la nostra vita ci
occupiamo di una complessa messa in scena della nostra identità anche
attraverso la costruzione di un’apparenza capace di far emergere il meglio di
noi, un’immagine vincente che punti su un’emozione, una sola emozione
non una serie di emozioni, perché queste si annullerebbero a vicenda mentre
la singola emozione è persiste e quindi vincente. (L. Bovone, 2006)