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Introduzione
Poetry is what is lost in translation
Robert Frost
Nicola si trova finalmente solo con la bellissima e adorata Marinella in uno
scantinato. Racconta una buffa storia ambientata nello spazio, poi, per dimostrarle il
proprio eroismo e conquistare definitivamente il suo amore, prende un ragno e se lo
mangia. Lei, con ammirazione, avvicina a sua volta la mano ad una ragnatela,
repentinamente la porta alla bocca, chiude gli occhi, sgranocchia e dice “Anche io me lo
sono mangiata un ragno!”. Ma Nicola non le crede. “Non è vero, non l’hai mangiato”.
Lei insiste “Si invece!” “Bugiarda, bugiarda!” ripete lui. Nicola non riesce a credere al
gesto di emulazione fatto dalla sua amata. Prende un ragno vero, lo porge a Marinella e
la sfida a mangiarlo veramente. Lei, dispiaciuta e disgustata, prende il ragno e lo ingoia,
ma poi se ne va via dicendo “Se tu m’avessi creduto, sarebbe stato amore per sempre”.
Nicola è il ragazzino protagonista di La pecora nera, un film di Ascanio Celestini,
realizzato nel 2010 dopo una ricerca durata tre anni (dal 2002 al 2005) sul tema
dell’istituzione psichiatrica. Con una piccola troupe il regista ha intervistato ex pazienti
e infermieri nei manicomi del centro e del nord Italia, le interviste sono raccolte in più
di cento ore di registrazioni. Celestini ha voluto ricostruire quelle storie, documentando
quello che succedeva all’interno degli ospedali psichiatrici e scelse di concentrarsi
principalmente sulle testimonianze degli infermieri e degli ex infermieri. «Perché i
medici sono più consapevoli e rischi di ascoltare un discorso ideologico. Bello, ma
troppo consapevole per essere concreto. Un discorso che si sono portati da fuori,
dall’università, dalla politica, dall’impegno personale, dalle letture, da Foucalut»
(Celestini, 2010, p. 8).
Da questa ricerca, prima del film nacquero anche un diario, un libro e una
rappresentazione teatrale. La pecora nera racconta la storia dell’ospedalizzazione di
Nicola, un bambino degli anni Sessanta orfano di madre, morta in un manicomio, dove
finì a sua volta, appena quindicenne. Il film gioca sull’ambiguità del suo protagonista e
suggerisce come il rapporto tra delirio e realtà dipenda dal punto di vista da cui lo si
osserva, oltre che dall’efficacia delle cure terapeutiche. Il delirio è tremendamente reale
e solo verso la fine del film si capirà quale sia l’allucinazione.
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Il mio lavoro parte da qui, dalle suggestioni evocate da questo poetico, delicato e
commovente film, che parla di un tema di grande portata e spessore, la schizofrenia e la
cura della malattia mentale. Un tema che riguarda non solo i medici e gli specialisti
della salute mentale, ma che attrae anche la riflessione di altri campi del sapere e della
cultura, come la filosofia, la letteratura e la cinematografia.
La schizofrenia non è solo una malattia mentale, ma anche una dimensione
esistenziale - quella della perdita del senso, della frammentazione e del delirio - che
sfugge, più degli altri disordini, agli stretti confini della nosografia psichiatrica.
Melanie Klein, Gregory Bateson e Félix Guattari, alcuni dei più importanti autori
analizzati nel mio lavoro, non furono medici, ma i loro contributi, non solo teorici,
furono molto importanti per la cura delle psicosi e per la ricerca in questo ambito.
Il rapporto con la realtà è mediato dalla sensibilità degli organi di senso e
dall’elaborazione del pensiero che traduce le percezioni in informazioni utili per sé. Si
potrebbe dire che la realtà è tradotta, percepita tramite una traduzione. Secondo il
costruzionismo sociale ciò che percepiamo della realtà dipende da come interpretiamo i
dati esperiti, dall’elaborazione delle informazioni che decidiamo di selezionare e
ricordare e dallo scarto dei dati che vengono ignorati. Nel rapporto con la realtà c’è una
cesura. Riprendendo con Bateson (1955a) l’assunto di Korzybski, si può affermare che
la mappa non è il territorio.
Nel delirio questa cesura viene a mancare. Benché il termine schizofrenia, così
come il suo principale sintomo, faccia riferimento ad una dissociazione, quello che è in
gioco in questa dimensione è una fusione letterale con la realtà. «Nel delirio la mappa è
il territorio» (Barbetta, 2007, p. 131). Lo schizofrenico si perde nella traduzione, come
la poesia di Frost citata in apertura. Non si tratta solo di una fusione spaziale, ma anche
relazionale, una con-fusione con l’altro, per via dell’eccessiva identificazione proiettiva
o del double bind.
La mia tesi è dedicata all’analisi dello sviluppo e delle implicazioni di due concetti
chiave per la comprensione della schizofrenia: l’identificazione proiettiva, concetto di
matrice psicanalitica, formulato da Melanie Klein nel 1946 e il double bind di
derivazione sistemica, formulato da Gregory Bateson e dai sui collaboratori nel 1956.
Oltre alla teoria della schizofrenia, nell’ultima parte del lavoro si presenta anche una
particolare prassi terapeutica, quella della clinica La Borde, luogo di cura delle psicosi,
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fondata sui principi della psicoterapia istituzionale, ma che racchiude al proprio interno
aspetti psicanalitici e sistemici.
Il discorso si articola entro cornici teoriche e realtà diverse, il linguaggio può
sembrare dissonante, ma ciò che emerge da questa ricerca appartiene al medesimo
orizzonte di senso. Questo studio sulla schizofrenia evidenzia l’interconnessione tra
concetti di grande rilevanza clinica, con alcuni temi psicologici ma non patologici come
lo sviluppo infantile, la formazione del pensiero, del linguaggio e delle relazioni
oggettuali, il simbolismo, la creatività e gli inevitabili paradossi della comunicazione
umana.
Nel primo capitolo si analizzano le teorie di Melanie Klein relative allo sviluppo
del neonato, dalla posizione schizo-paranoide (0-3 mesi) a quella depressiva (3-6 mesi),
e i contributi relativi all’elaborazione del concetto di identificazione proiettiva,
meccanismo di difesa caratteristico della prima posizione, ma anche dei disturbi
schizofrenici: il neonato, che percepisce gli oggetti come parziali e non come entità
totali e separate, proietta sugli oggetti esterni - come la madre - le parti cattive di sé, che
derivano dall’angoscia dell’annientamento. L’altro è così percepito come un
persecutore, ma non separato da sé, poiché in esso sono state proiettate parti di sé. Il
senso di frammentazione e di fusione con l’altro è superato con il raggiungimento della
posizione depressiva, quando il neonato può percepire gli oggetti come totali e separati,
provando un senso di perdita, ma anche di integrazione.
Nel primo capitolo sono esposti inoltre i contributi di Hanna Segal e Wilfred Bion
nel campo delle psicosi, i cui lavori furono influenzati dalle teorie kleiniane dello
sviluppo infantile. In particolare di Segal si analizzano gli studi sul simbolismo - che
l’autrice distingue in rappresentazione ed equazione simbolica, quest’ultima tipica del
pensiero schizofrenico - e sulla relazione tra delirio e creatività. I contestuali lavori di
Bion sulla formazione del linguaggio schizofrenico e sulla relazione tra rêverie materna
e sviluppo del pensiero introdurranno invece ad una lettura dei disturbi psicotici in
chiave più strettamente relazionale, tema del secondo capitolo. Il perno della teoria di
Bion del 1962 sullo sviluppo del pensiero è focalizzato sulla relazione madre-bambino,
attorno alla capacità materna di comprendere la paura mortifera infantile e di darne una
spiegazione, restituendola al neonato in una forma più sopportabile. La rêverie materna
indica la capacità empatica della madre, pronta ad accogliere dentro di sé la paura del
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bambino dovuta ad attacchi di fame o ad altri bisogni primari nella forma di pianti,
grida e lamenti, affinché vengano restituiti al bambino, istituiti di senso. L’incapacità di
rêverie materna pone il bambino in una condizione di fraintendimento, effetto ottenuto
anche da ciò che Bateson definì double bind.
Nel secondo capitolo si analizza l’elaborazione del concetto di double bind
attraverso l’evoluzione del pensiero di Gregory Bateson: la riflessione epistemologica
che lo accompagnò per tutto il suo percorso, orientata alla ricerca dell’unità sistemica
tra le cose, i lavori etnografici con il confronto tra l’interazione cumulativa
schismogenetica e quella continuativa di Bali, la riflessione sull’arte, sul gioco e sui
paradossi della comunicazione che lo portarono alla formulazione della teoria della
schizofrenia attorno al double bind. Il doppio vincolo è quella situazione in cui il
soggetto si trova quando in un contesto d’apprendimento di vitale importanza per la
propria sopravvivenza convivono un messaggio e un meta-messaggio in contraddizione
tra loro, ma allo stesso tempo imprescindibili. Inizialmente definito come fattore
eziologico della schizofrenia il double bind venne successivamente rivisto alla luce dei
precedenti studi effettuati e rielaborato come comune denominatore delle “sindromi
transcontestuali”, tra cui la schizofrenia è solo una delle possibile forme, insieme
all’arte, alla poesia e alla comicità.
Nel secondo capitolo si evidenzia inoltre l’influenza esercitata dal pensiero
batesoniano sulla nascita e lo sviluppo della terapia familiare. Contestualmente sono
presentate le riflessioni filosofiche espresse da Deleuze e Guattari sulla schizoanalisi e
le critiche alla riduzione familiarista delle teorie psicanalitiche e strategiche, inadeguata
per la comprensione della schizofrenia, fenomeno che secondo i due autori sfora i
confini della famiglia.
L’ultimo capitolo, di interesse principalmente empirico, integra i primi due
prettamente teorici, con la presentazione della nascita, dello sviluppo e delle attuali
pratiche terapeutiche della clinica La Borde e della psicoterapia istituzionale. La Borde,
una clinica situata a Cour-Cheverny, piccolo comune nella regione del Centro della
Francia, venne fondata nel 1953 da Jean Oury e diretta per molti anni anche da Félix
Guattari, che lavorò a La Borde dal 1955 fino alla sua morte nel 1992. Questa realtà,
nata sulle basi della psicanalisi lacaniana, non si chiuse mai in sé stessa, mostrandosi fin
dall’apertura un luogo all’avanguardia per la cura delle malattie mentali, recettiva alle
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innovazioni in ambito psicoterapeutico. Alcuni dei principi di base attorno su cui si
struttura la pratica clinica di La Borde sono la libertà di circolazione, la capacità di
polivalenza e l’interscambiabilità dei ruoli del personale, la lotta contro il pregiudizio di
irresponsabilità del malato, la demistificazione dei medici, l’antiburocrazia e l’ingaggio
in percorsi terapeutici non standardizzati, ma adeguati alla singolarità del paziente, che è
considerato, in primo luogo, un ospite pagante. Ma il principio fondamentale che
caratterizza la clinica di La Borde come psicoterapia istituzionale riguarda l’analisi
dell’istituzione curante e delle relazioni emergenti dal collettivo terapeutico, in quanto
la clinica è considerata come «una piccola società dove occorre mettere in questione
permanentemente il proprio lavoro quotidiano» (Callea, 2000, p. 42), mostrando così un
concreto punto di contatto con la teoria dei sistemi.
Questo studio sulla schizofrenia evidenzia la necessità di considerare contesti
sempre più ampi, dall’individuo alla famiglia fino alla più grande struttura
psicoterapeutica in cui il paziente è inserito.
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1. Dall’identificazione proiettiva alla rêverie materna
1.1 Inconscio kleiniano
Melanie Klein nacque a Vienna nel 1882, quarta figlia di Moritz Reizes e di
Libussa Deutsch. Il padre, ebreo polacco proveniente da una famiglia rigorosamente
ortodossa della Galizia, che lo voleva rabbino e aveva deciso per lui la prima moglie, si
iscrisse di nascosto all’università, nonostante l’opposizione dei suoi genitori, diventò
medico, divorziò dalla prima moglie e all’età di quarant’anni incontrò la venticinquenne
futura mamma di Melanie. Libussa proveniva da una famiglia di rabbini slovacchi,
istruiti e tolleranti. A differenza del marito, che dopo essersi ribellato ai suoi, era
diventato piuttosto anticlericale, era rimasta in qualche modo legata alla cultura ebraica
(Grosskurth, 1987).
Il dottor Reizes non ebbe molta fortuna come medico e Libussa aprì un negozio -
cosa piuttosto insolita per la moglie di un medico dell’epoca - in cui vendeva piante e
animali esotici, «ce ne ricorderemo quando scopriremo la fantasia del corpo materno,
secondo Melanie Klein, brulicante di orribili “oggetti cattivi” penici e anali!» (Kristeva,
2000, pp. 16-17
1
). I rapporti di Melanie col padre non furono particolarmente affettuosi.
Quando lei venne al mondo lui aveva più di 50 anni e per di più le preferiva la figlia
maggiore Emilie, per questo molto invidiata. Tuttavia ricordò con ammirazione
l’indipendenza intellettuale del padre di cui apprezzò soprattutto il fatto che imparò,
autodidatta, dieci lingue europee. Molto più profondi furono i legami con la madre, che
trascorse gli ultimi anni di vita in casa di Melanie (Segal, 1979).
La sorella maggiore Emilie aveva sei anni più di lei, Emanuel, cinque e Sidonie
circa quattro. Emanuel e Sidonie, ai quali fu più legata, morirono tragicamente molto
giovani. Sidonie, che le insegnò a leggere e a scrivere, se ne andò all’età di otto anni,
lasciandole in eredità l’amore materno, essendo lei, fino alla morte, la prediletta della
madre. «E’ probabile che io sia stata tanto vezzeggiata proprio perché dovevo sostituire
quella bambina» (Grosskurth, 1987, p. 28). Quando Emanuel morì, per una malattia
cardiaca nel 1902, Melanie, che intanto si era sposata e abitava in Slesia, accorse a
1
L’anno indicato è quello dell’edizione originale del testo, segnalata in bibliografia, il numero di pagina
invece si riferisce all’edizione della traduzione italiana, a sua volta indicata in bibliografia. Questo
criterio vale per tutte le opere consultate in traduzione italiana.
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Vienna e si diede da fare per far pubblicare le poesie e i saggi del fratello. La morte dei
due fratelli e soprattutto quella di Emanuel contribuirono a una certa inclinazione alla
depressione che rimase un aspetto costante della sua personalità (Segal, 1979).
Melanie fu allevata in modo liberale e benché integrata al contesto sociale affermò
di «avere avuto piena consapevolezza della propria marginalità in una Vienna cattolica
che non mancava di perseguitare la minoranza ebraica» (Kristeva, 2000, p. 17), ma i
veri problemi arrivarono dopo essersi trasferita a Budapest, da dove fuggì a causa
dell’antisemitismo.
Conobbe Arthur Klein, cugino di secondo grado di Libussa e amico di Emanuel, a
diciassette anni e «non è escluso che il fatto di essere amico del fratello abbia
accresciuto ai suoi occhi i pregi del giovane» (Segal, 1979, p. 27). Il fidanzamento,
insieme alle ristrettezze economiche della propria famiglia, interferì con la volontà di
studiare medicina e Melanie rimpianse per molto tempo di non aver realizzato il suo
progetto, che le avrebbe dato più credibilità negli anni di ferma ostilità dell’ambiente
scientifico europeo.
Melanie Klein conobbe gli scritti del conterraneo padre della psicanalisi a
Budapest nel 1914, quando lesse il lavoro di Freud sui sogni e si dispiacque per non
averne sentito parlare prima, mentre si trovava a Vienna, dove avrebbe potuto
incontrarlo personalmente (Segal, 1979). Una lettura che avrebbe cambiato il futuro di
Melanie, com’è testimoniato da queste parole riportate nella sua biografia: «si trattava
proprio di quel che andavo cercando, almeno in quegli anni, in cui bruciavo dal
desiderio di trovare ciò che potesse soddisfarmi intellettualmente ed emotivamente.
Entrai in analisi con Ferenczi, che era l’analista ungherese più eminente» (Grosskurth,
1987, p. 87).
L’occasione di vedere Freud personalmente si presentò per la prima volta, grazie
ad un invito di Ferenczi, in occasione del quinto congresso di psicanalisi, tenutosi il 28 e
29 settembre 1918, nell’Aula magna dell’Accademia ungherese delle scienze. Ferenczi
allora dirigeva una clinica neurologica a Budapest e fu eletto presidente
del’Associazione psicanalitica internazionale.
Melanie arrivò a Budapest nel 1910, insieme al marito Arthur e ai suoi due primi
figli Melitta e Hans. Si sposò nel 1903, il giorno dopo il suo ventunesimo compleanno,
a Rosenberg, dove trascorse i primi anni di matrimonio, insieme alla famiglia del
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marito. Consapevole che le ristrettezze economiche in cui versava la propria famiglia le
avrebbero impedito di studiare e di guadagnarsi una propria indipendenza, i quattro anni
di fidanzamento furono caratterizzati dall’ansiosa attesa del matrimonio, continuamente
ritardato affinché fosse il futuro marito ad assicurarsi una carriera. «Non sarebbe stato
facile per me tornare ai miei studi, cosa alla quale tenevo molto. Se questo sia stato il
fattore principale che mi spinse a fare una cosa che sapevo sbagliata – il matrimonio –
non sono in grado di dire, ma certo è stato un motivo importante» (ibidem, p. 33).
Nel 1907, per motivi di lavoro di Arthur, ingegnere chimico, la famiglia Klein si
trasferì a Krappitz, una periferica e deserta cittadina priva di distrazioni. Libussa si
trasferì da Vienna per stare con loro. Melanie trascorse gli anni passati a Krappitz
lontana dal marito e dai suoi due figli, ma sotto lo strettissimo controllo della madre,
che nel frattempo faceva le veci di quella figlia, indesiderata e nata per errore (come
probabilmente la stessa Libussa confidò a Melanie), di cui preferiva prendersi cura a
distanza, affinché potesse curarsi “i nervi”. Furono anni, per Melanie e per il suo
matrimonio, particolarmente infelici. Il 6 giugno 1909 Libussa scrisse una lettera che
chiarisce bene la situazione familiare e lo stato affettivo di Melanie:
Che cosa mai ti rende di nuovo così nervosa e così abbattuta? E’ il tempo? [..]
O non sarà piuttosto che hai paura di essere di nuovo incita? [..] non appena i tuoi
nervi guariranno tu sarai la moglie e la madre più felice del mondo. [..] Il vero
riposo, il vero rilassamento si ottengono soltanto se si riesce a vivere senza
emozioni, nemmeno quelle piacevoli, in completa solitudine, trascorrendo le
giornate tutte uguali, non importa se noiose. Vivere con gli altri, anche se si tratta
delle persone più vicine a noi e più care, come un marito, un figlio o una madre,
porta sempre con sé qualche agitazione (ibidem, pp. 73-74).
Libussa esercitò sulla propria famiglia, su quella dei Klein, come pure sulla
famiglia di Emilie, la supersite sorella di Melanie, una fortissima influenza,
caratterizzata da controllo e manipolazione, nella la sfera economica e affettiva. Il suo
giudizio su Arthur Klein, ingegnere chimico, marito di Melanie e su Otto Pick, medico
odontoiatra, marito di Emilie, contarono molto. Prima dell’approvazione si assicurò che
i rispettivi generi potessero garantire a tutta la famiglia delle costanti entrate.
I Reizes non goderono mai di condizioni economiche favorevoli, per avere una
casa si indebitarono con il fratello di Libussa e alla morte di Moritz, spettò a Libussa far
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quadrare i conti, con oculato risparmio sulle spese di tutti. Dava a Emanuel una paghetta
mensile, che bastava a malapena a farlo vivere in miseria. Soppesò ogni uscita di
denaro, affinché le due sorelle avessero una dote decorosa, per poi chiedere ai rispettivi
mariti aiuti economici per saldare il debito, così che lei avrebbe potuto vendere il
negozio e vivere tranquillamente. Al contrario non era parsimoniosa quando si trattava
dei soldi di Arthur, spesi per i curativi viaggi di Melanie lontana dalla famiglia. Senza
dubbio, Libussa fu una presenza importante per la famiglia Reizes e Klein, e anche
quando Moritz era in vita, come evidenzia la biografa, in famiglia circolava «un’aria di
matriarcato» (ibidem, p. 17).
Secondo Grosskurth, biografa della Klein, conformismo e ribellione, invidia e
senso di colpa, controllo e possesso, aggiunti alla depressione per i numerosi e tragici
lutti (Sidonie nel 1886, Moritz nel 1900, Emanuel 1902, Libussa nel 1914, Hans 1933),
furono le ambivalenze che tacitamente nutrirono le relazioni di questa famiglia.
Emanuel - malato di cuore, errante per l’Europa, in attesa della morte - soffriva
all’idea che con il matrimonio di Melanie avrebbe perso la sua più cara confidente.
Melanie si sentì in colpa per la morte dei suoi fratelli, così come per la perdita della
madre, per non avere fatto abbastanza per salvarli, ma invidiava la sorella, la preferita
del padre, e si schierò con la madre contro di lei durante una crisi coniugale, per poi
sentirsi in colpa quando emersero gli effettivi retroscena del matrimonio di Emilie.
Libussa era gelosa dello stretto rapporto tra Melanie ed Emanuel, tanto da scrivere al
figlio che non c’è rapporto più saldo e sicuro di quello tra madre e figlio, neppure tra
fratello e sorella. Qualche anno dopo la stessa Libussa faceva intendere a Melanie,
“malata di nervi” e per questo dispensatrice di molte preoccupazioni, che i suoi figli, lei
stessa e suo marito sarebbero stati meglio fintanto che lei avesse prolungato i suoi
viaggi lontano da Krappiz. Nonostante questo Melanie, a più di settant’anni ricordò la
madre con profondo affetto, come un esempio, e «con quel tanto di invidia che esiste in
ogni figlia» (ibidem, p. 87). Per la biografa, “chiaro sintomo” di difesa: idealizzazione
nei confronti di sentimenti rimossi verso una figura in realtà ostile e causa di sofferenza.
Ad ogni modo, quando la madre morì, nel 1914, Melanie soffrì molto e iniziò l’analisi
con Ferenczi proprio dopo questo evento, a causa di una grave depressione.
Nel 1914 nacque anche il suo terzo e ultimo figlio Erich, che fu il suo primo
paziente, sotto il nome di Fritz. Fu Ferenczi ad incoraggiarla nell’idea di dedicarsi