8
I miglioramenti tecnologici però, vengono visti come un elemento
esterno in grado di superare l’equilibrio stazionario del sistema economico:
è questo il significato della “esogenità” del progresso tecnologico e della
sua importanza nel determinare la crescita.
Questi aspetti sottolineano la necessità di elaborare modelli in cui il
progresso tecnologico viene “endogenizzato”, al fine di concepire una
teoria che prenda in considerazione questi aspetti. Numerose sono le
soluzioni che possono essere perseguite al fine di raggiungere tali obiettivi;
esse possono essere ricondotte a tre filoni di ricerca.
¾ Una prima soluzione è quella di attribuire consistente rilevanza al
ruolo svolto dal capitale, in particolare quello umano (Lucas).
¾ Il suddetto filone di ricerca può essere poi perfezionato con l’aggiunta
dei contributi relativi all’idea del learning by doing che pongono in
primo piano il processo di apprendimento legato al capitale umano
(Arrow).
¾ Il terzo filone che possiamo definire endogeno “in senso stretto”,
mira ad elaborare teorie in cui il processo tecnologico assume natura
endogena in quanto frutto di specifiche attività di ricerca e sviluppo
(Romer, Grossman e Helpman, Aghion e Howitt).
I primi studi relativi al contributo dell’ICT sulla crescita economica
furono condotti a livelli macro tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni
’90 e mostrarono essenzialmente uno scarso o a volte inesistente apporto ai
fattori determinanti la crescita.
Successivamente però, alcuni studi mostrarono come questa tendenza
iniziasse ad invertirsi; nel contempo però calava la domanda per i prodotti
IT. Questo paradosso, portava da un lato ad un dibattito sul reale effetto
dell’ICT e, dall’altro, stimolava economisti e ricercatori a nuove analisi,
metodi di ricerca più raffinati, ancor più ampi database.
9
Questo shock storico ha impiegato però qualche anno prime che se ne
prendesse coscienza e che soprattutto venisse evidenziato nelle statistiche
(fenomeno conosciuto come Paradosso della Produttività). La più celebre
definizione di tale paradosso viene da Solow (1987): “Si vedono computer
ovunque tranne che nelle statistiche sulla produttività”.
L’approccio utilizzato nella maggior parte degli studi riguardanti
l’effetto dell’ICT sulla crescita, si basa sul framework teorico neoclassico,
debitamente utilizzato in maniera estensiva. L’approccio neoclassico si
basa su una funzione di produzione che contrappone al livello dell’output
(Y), i fattori produttivi (inputs).
Nell’analizzare la letteratura empirica relativa agli effetti dell’ICT sulla
crescita, seguendo l’approccio della maggior parte dei ricercatori, si
distinguono di solito le ricerche a livello di nazioni (macroeconomic level)
da quelle a livello settoriali (industrial level) e da quelle a livello d’impresa
(firm level).
Se si esclude l’apporto di Oliner e Sichel del 1994, i primi studi di un
certo rilievo a livello aggregato, che in qualche modo iniziano anche a dare
una sorta di risposta empirica al paradosso della produttività, sono quelli di
Jorgenson e Stiroh (2000) e gli stessi Oliner e Sichel (2000), i quali si
ripeteranno in altri contributi negli anni successivi considerando
ovviamente gli Stati Uniti.
In sintesi, l’ipotesi della presenza di una new economy, ovvero di una
crescita sostenuta dalle innovazioni nel campo dell’ICT, giace secondo
questi autori, nel collegamento tra queste tre circostanze:
il progresso nell’ICT,
l’accumulazione di capitale ICT,
la crescita della produttività del lavoro.
10
Vi è ormai una convinzione diffusa, sostenuta da ampia evidenza
empirica internazionale, che una delle cause della minor crescita della
produttività in Europa – e in Italia in particolare – sia la scarsa diffusione
nell’economie delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione
(ICT). Non a caso, il boom americano è coinciso con lo straordinario
sviluppo di Internet, iniziato nel 1995, e con l’enorme investimento in
informatica da parte delle aziende americane.
Che l’Italia non sia un paese produttore di ICT è un fatto storico,
probabilmente irreversibile. Più sorprendente, e in parte misterioso, è che le
imprese italiane siano così indietro nell’adozione delle nuove tecnologie:
queste sono ormai standardizzate a livello mondiale e facilmente
disponibili sul mercato. Il maggior divario rispetto ai paesi più avanzati
appare concentrato fra le piccole imprese e nel settore dei servizi.
Tale svantaggio è sostanzialmente influenzato dalla piccola dimensione
delle imprese che condiziona le scelte di investimento e di conseguenza la
propensione alla spesa in nuove tecnologie.
La presente tesi è articolata nel modo seguente: nel capitolo uno verrà
presentata una review teorica sul tema del progresso tecnico legato alla
crescita, dai primi apporti di Smith fino agli ultimi interventi sulle teorie
sulla ricerca e sviluppo.
Nel capitolo secondo invece esamineremo l’apporto dell’ICT rispetto
alla crescita economica e la produttività: il tutto sarà visto sia in un ottica
teorica che empirica.
Il terzo capitolo analizzerà la diffusione dell’ICT nel nostro paese
analizzando i fattori critici del nostro ritardo. Infine nell’ultimo capitolo
un’analisi empirica sul manifatturiero italiano, riguardo all’interazione tra
ICT e cambiamenti organizzativi.
11
Capitolo 1
PROGRESSO TECNOLOGICO E
CRESCITA ECONOMICA: UNA
REVIEW TEORICA
“…Sin da quando ho rivolto la mia attenzione ai problemi di economia politica, ho pensato
che ogni applicazione di macchine a qualsiasi ramo della produzione che avesse l’effetto di
risparmiare lavoro fosse un bene generale…”
David Ricardo
“…Le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di
quanto si creda. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza
intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto…”
John Maynard Keynes
12
1.1 IL PROGRESSO TECNICO NELLA TEORIA CLASSICA E
MARGINALISTA
Il tema del progresso tecnologico legato alla crescita ha da sempre
suscitato l’interesse degli economisti. Già Smith, considerato il fondatore
della moderna teoria economica, scriveva
1
: “…sembra che il grandissimo
progresso della capacità produttiva del lavoro e la maggiore abilità,
destrezza e avvedutezza con le quali esso è ovunque diretto o impiegato,
siano stati effetti della divisione del lavoro […]. Questo grande incremento
della quantità che, in conseguenza della divisione del lavoro, lo stesso
numero di persone è in grado di eseguire, è dovuto a tre differenti
circostanze: primo, all’aumento della destrezza di ogni singolo operaio;
secondo, al risparmio del tempo che comunemente viene perso passando
da una specie di lavoro all’altro; e, infine, all’invenzione di un gran
numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro mettendo in
grado un uomo di fare il lavoro di molti…”
Da questi piccoli passaggi si può intuire come l’economista scozzese
intuì già nel 1789 l’importanza di problematiche più che mai attuali quali la
produttività del lavoro, la spesa in istruzione, ricerca e sviluppo, e per
l’appunto lo sviluppo delle ICT.
Non a caso negli ultimi anni alcuni teorici
2
hanno iniziato a criticare
l’approccio predominante (neoclassico) a queste tematiche, perché ritenuto
statico e inidoneo ad esplicare tali fenomeni, intrinsecamente dinamici, ai
1
Smith A., “La ricchezza delle nazioni” a cura di Anna e Tullio Bagiotti. Milano Finanza Editori, 2006
2
A titolo di esempio rimandiamo a P. Sylos Labini (2006). Nell’introduzione l’autore scrive: “…viviamo
in un’epoca caratterizzata da straordinarie innovazioni tecnologiche, organizzative e istituzionali;
eppure la teoria economica dominante si fonda su assunzioni statiche […] le innovazioni vengono
ignorate o, in certi modelli, sono introdotte con espedienti formali, assumendo che le funzioni della
produzione, statiche, si spostino per il cambiamento delle tecniche. […] A giudizio degli economisti del
nostro tempo quel che i classici hanno detto di utile si ritrova nella teoria marginalistica, cosicché non
vale la pena studiarli. È una convinzione radicalmente sbagliata.”
13
quali invece un’impostazione classica (che considera lo sviluppo e la
crescita il problema centrale) si adatta meglio.
Seppur sotto un aspetto differente, il tema del progresso tecnico è stato
affrontato anche da David Ricardo
3
; tuttavia, mentre Smith pone enfasi sul
progresso tecnico come motore dello sviluppo, Ricardo si concentra sul
problema della “disoccupazione tecnologica”. Egli scrive infatti
4
: “… sin
da quando ho rivolto la mia attenzione ai problemi di economia politica,
ho pensato che ogni applicazione di macchine a qualsiasi ramo della
produzione che avesse l’effetto di risparmiare lavoro fosse un bene
generale…”
L’idea alla base del pensiero dell’economista londinese era fondata sul
fatto che l’introduzione delle “macchine”, pur creando disoccupazione,
consente di ridurre i costi di produzione e i prezzi con conseguente
aumento dei redditi reali. Tutto questo avrebbe generato un aumento di
capitale addizionale e della domanda, tali da indurre i capitalisti a dover
riassorbire la forza lavoro disoccupata per aumentare la produzione.
Ma dopo qualche tempo Ricardo per sua stessa ammissione, cambiò
idea
5
. L’errore in cui secondo lui era caduto era stato legare l’aumento dei
profitti all’aumento della produzione e all’occupazione; pur consentendo
un aumento del prodotto netto, l’introduzione delle macchine può
comportare una riduzione del prodotto lordo e quindi della domanda di
lavoro.
3
La principale opera di Ricardo, “On the principles of political economy and taxation”, contiene solo
nell’ultima edizione il capitolo XXXI intitolato “Macchine”, tra l’altro molto criticato dai suoi
contemporanei perché metteva in luce un antagonismo tra lavoratori e capitalisti e scuoteva la teoria dei
meccanismi regolatori del mercato
4
“Principi di economia politica e dell’imposta” in: I grandi classici dell’economia (2006), Milano
Finanza, Vol. 3 pag 514
5
Ibidem pag. 518: “Tutto ciò che desidero provare è che la scoperta e l’uso delle macchine può
accompagnarsi ad una diminuzione del prodotto lordo; e ogni qualvolta questo accade è dannoso alla
classe dei lavoratori poiché parte di essi perderà l’impiego”
14
Dalla stessa idea di Ricardo è anche Mill, che nei suoi Principi di
Economia Politica, intende il progresso tecnico come una forma di
investimento di capitale, e in particolare del capitale fisso
6
(dove Mill
include “…gli edifici, le macchine e le cose note col nome di utensili o
strumenti…”). Secondo Mill, “…ogni forma di aumento del capitale fisso,
se si verifica a spese del capitale circolante, deve risultare, almeno
temporaneamente, dannoso agli interessi dei lavoratori” [pag 199], ma
“….lo sarebbe solo se si verificasse improvvisamente e su larga scala,
perché gran parte del capitale investito dovrebbe essere fornito da fondi
già impiegati come capitale…” [pag 203] e ciò per lo più secondo stessa
ammissione successiva di Mill, altamente improbabile.
L’ulteriore e quanto mai affascinante apporto sul tema del progresso
tecnologico, l’economista londinese lo sviluppa nel capitolo settimo dei
suoi Principi, intitolato: “Da cosa dipende il grado di produttività dei
fattori produttivi”. Mill aggiunge un ulteriore tassello rispetto a quanto
aveva già fatto Smith riguardo alla produttività del lavoro. Scrive a pag.
214: “…che la produttività del lavoro di una popolazione sia limitata dalla
conoscenza che essa possiede delle arti pratiche della vita è molto
evidente; così pure è ovvio che ogni progresso in tali arti […] consente di
ottenere, con la stessa quantità ed intensità di lavoro, un maggiore
prodotto. L’aspetto principale di questi elementi consiste nell’invenzione e
nell’uso degli strumenti e delle macchine…”
Sembra trasparire da questo passaggio l’importanza di quello che oggi
noi chiameremmo capitale umano, o tutto quel complesso di spese in R&S,
istruzione, cui diamo una connotazione astratta, ma che a partire dalla fine
6
Mill suddivide il capitale in capitale circolante, che esaurisce la propria utilità in un solo processo
produttivo (i cosiddetti “materiali” ma anche i salari) e il capitale fisso “…che produce il proprio effetto
non per il fatto di venire alienati ma per quello di essere conservati…”
15
degli anni ’90, rappresentano di fatto la parte preponderante della spesa in
ICT.
Di notevole rilievo fu invece l’apporto che successivamente arrivò da
Josef Alois Schumpeter, il quale iniziò a mettere in risalto l’importanza del
capitale umano che influisce sulla crescita grazie alla creazione di
innovazioni.
Già nella sua prima opera
7
, seguendo la concezione di Leon Walras,
economista da lui molto stimato, aveva sostenuto l’esistenza di fattori
esogeni ed endogeni a cui il sistema economico si adattava, tendendo
all’equilibrio. Ma Schumpeter in seguito
8
si spinse oltre, aggiungendo a
questo approccio statico un altro dinamico, in cui un nuovo soggetto,
l’imprenditore, introduce nuovi prodotti e sfrutta le innovazioni
tecnologiche, modificando le modalità organizzative della produzione.
Nell’approccio schumpteriano dunque, la crescita economica è vista
come risultante di una sequenza aleatoria di innovazioni che, una volta
introdotte nel mercato, rendono obsolete le vecchie tecnologie e prodotti,
attraverso un meccanismo detto di “distruzione creativa”. La sua teoria si
arresta però allorquando tentando di identificare questa figura dovette
constatare che gli incentivi all’innovazione derivano da fattori non
economici (prestiti bancari e sussidi statali), per cui la spinta alla crescita
economica rimane esogena.
Anche se la più famosa teoria neoclassica della crescita viene conosciuta
dalla storia solo nel 1957, il periodo che gli economisti definiscono come
neoclassico – o marginalista, per dirlo alla Schumpeter
9
– iniziò di fatto nel
1871, quando l’inglese William Stanley Jevons pubblicò “The Theory of
7
“L’essenza e i contenuti fondamentali dell’economia teorica” (1908)
8
“Teorie dello sviluppo economico” (1911)
9
“Storia dell’analisi economica”: Schumpeter non amava etichettare il periodo 1870-1914 come
neoclassico, ritenendo la costruzione teorica di un Walras, Jevons o Menger, ben diversa dagli apporti
successivi fino agli stessi Solow, Swan, Uzawa. Questo rilievo sembra a nostro parere corretto.
16
Political Economy” e l’austriaco Carl Menger pubblicò i “Principi
fondamentali di economia politica”.
La teoria marginalista pone le sue radici nel pensiero di Smith, ma trova
le proprie basi nel perfezionamento analitico del concetto di concorrenza,
concepita come il meccanismo attraverso il quale le risorse vengono
allocate in modo efficiente. Il progresso tecnico è considerato come un
fattore esogeno e rappresentato solo con uno spostamento della funzione di
produzione in seguito ad un’introduzione di innovazioni di prodotto o di
processo
10
.
In seguito ad un’innovazione ed una successiva disoccupazione
tecnologica, la teoria marginalista predice che i meccanismi spontanei del
mercato riportano dopo un periodo di aggiustamento, ad una situazione di
pieno impiego:
1. Seguendo la legge di Say, un’innovazione è fatta solo per
aumentare i profitti, che verrebbero automaticamente reinvestiti per
aumentare la produzione e l’occupazione.
2. L’introduzione di un’innovazione, in un mercato di concorrenza
perfetta determina la riduzione dei costi e quindi dei prezzi; questo
porterebbe all’aumento della domanda di beni e degli investimenti, così
da riassorbire i lavoratori disoccupati.
3. Un terzo meccanismo di compensazione è legato al nome di Knut
Wicksell
11
, secondo cui i lavoratori, una volta espulsi, farebbero
concorrenza agli altri, provocando una diminuzione dei salari fino al
10
Le innovazioni di prodotto consistono nell’introduzione di nuovi beni che sostituiscono o migliorano
quelli già esistenti, e il più delle volte servono a soddisfare i nuovi bisogni che sorgono nel corso del
tempo. Tuttavia esse non possono diffondersi se non vengono rese migliori o a volte anche solo
utilizzabili mediante innovazioni di processo, che sono continue nel tempo e consistono nell’introduzione
di nuovi macchinari o in tutti quei meccanismi che aumentano la produttività dei fattori (soprattutto il
lavoro) e che per questo sono – per dirla alla Ricardo – causa della disoccupazione tecnologica.
11
“Interesse monetario e prezzi dei beni”, in: I grandi classici dell’economia. Milano Finanza (2006), cap.
IX
17
punto nel quale domanda e offerta di lavoro si eguagliano nuovamente.
Appare chiaro però, anche per ragioni etiche, che il livello dei salari non
può scendere all’infinito e sotto il livello di sussistenza; appare anche
inverosimile che la discesa dei salari blocchi il progresso tecnico
rendendo più conveniente l’uso dei vecchi metodi di produzione. Questi
aspetti pongono un serio limite al meccanismo di compensazione
dell’economista svedese.
Da un punto di vista cronologico, l’origine della moderna teoria della
crescita è imputabile ad un famoso articolo di Ramsey (1928) sul
consumo intertemporale, che tuttavia rimase inutilizzato fino agli inizi
degli anni ’60.
La crescita è in senso stretto il risultato dell’astensione del consumo
odierno per ricevere i benefici, in termini di una maggiore produzione in
futuro.
Ciò che accomuna tutte le teorie che tratteremo di seguito, è che ai
vari soggetti economici si contrappone un sistema che si caratterizza per
il modo particolare con cui possono operare gli stessi soggetti
economici.
Già il Quesnay aveva concepito il sistema economico come
un’organizzazione in grado di distribuire il prodotto netto
dell’agricoltura tra le altre classi sociali, in grado cioè di stabilre
l’equilibrio tra i flussi dei beni
12
. Il sistema economico era in grado di
garantire la condizione di equilibrio fra quantità domandata e quantità
offerta.
Questo postulato tra l’altro viene poi accettato anche dalla scuola
classica e neoclassica (con la formulazione della legge di Say), fino a
quando prima Malthus nei primi decenni dell’800 e poi Keynes negli
12
Lombardini S., (1972): “Corso di economia politica”. Utet
18
anni ’30, ne metteranno in discussione le fondamenta. L’economia, per
deficienza di domanda globale, può essere in grado di produrre più di
quanto sia richiesto: il sistema economico è allora incapace di garantire
l’integrale valorizzazione del potenziale produttivo.
Lo studio della contabilità nazionale rappresenta un passo obbligato
per comprendere come si “comportano” le principali grandezze
economiche e fornisce la stima del PIL, la misura principale
dell’andamento del sistema economico. Vediamo come possiamo
riassumere le relazioni principali intercorrenti tra tali grandezze.
Figura 1 Modello di contabilità nazionale
La produzione è realizzata dalle imprese. Il valore della produzione
costituisce il PIL ed include il valore di tutti i beni finali prodotti. Le
imprese producono servendosi dei fattori della produzione – lavoro e
capitale – e pagando per la loro utilizzazione. Questi pagamenti, effettuati
dalle imprese, rappresentano i redditi percepiti dal sistema economico; così
il valore della produzione è uguale al valore dei redditi ricevuti dal sistema
economico. La spesa totale è così uguale al valore della produzione.
Lo schema rappresentato in figura 1è alla base dei modelli di crescita
della teoria economica.
Imprese
Famiglie
Flussi in uscita
Flussi in entrata
Salari, profitti, rendite
Flussi in uscita
Flussi in entrata
Spese per consumi
Risparmio
Investimenti
19
1.2 MODELLO DI CRESCITA DI HARROD – DOMAR
Harrod, un economista di Oxford, propone il suo modello nel 1939 in
piena epoca Keynesiana, preoccupandosi quindi di spiegare perché alcune
economie crescano più o meno di altre, e perché possono crearsi situazioni
di instabilità economica
13
.
Indichiamo con Y il valore della produzione della nostra economia, dalla
quale per semplicità analitica, escluderemo la spesa pubblica ed il
commercio estero. La produzione Y può essere espressa quindi in termini di
componenti della domanda, come somma tra consumi (C) e investimenti (I)
Y = C + I
[1]
È vero anche che considerando sempre le ipotesi semplificatrici della
nostra economia, il reddito aggregato potrà essere consumato dalle
famiglie, ovvero risparmiato
Y = C + S
[2]
dove S rappresenta il risparmio del settore privato. Combinando la [1] e
la [2], avremo che:
I = S
[3]
L’identità [3] rappresenta un risultato molto importante; in questa
economia semplice, il risparmio è identicamente uguale al reddito meno il
consumo.
Come sappiamo, l’investimento altro non è che l’aumento del capitale
(capacità produttiva) da un periodo all’altro:
13
Bisogna ricordare che come è a tutti noto, siamo in un periodo appena successivo alla grande
depressione, dove il fenomeno della stagnazione aveva dal punto di vista dottrinale, demolito la legge di
Say, e Keynes con la sua teoria dell’equilibrio di sottoccupazione rivoluzionerà la teoria economica
almeno per un trentennio.
20
I
t
= K
t
– K
t-1
[4]
Per quanto riguarda il risparmio, assumiamo che esso dipenda dal reddito
del periodo precedente:
S
t
= sY
t-1 (0 ≤ s ≤ 1)
[5]
Per arrivare a determinare il tasso di crescita del reddito, dobbiamo
supporre di partire da una situazione di pieno impiego, dove vi sia quindi
una tecnologia a coefficienti costanti ed in particolare che i processi
produttivi siano tali per cui esiste un rapporto costante tra lo stock di
capitale e l’ammontare di produzione. Ossia:
v = K
t
/ Y
t
v > 0
[6]
Di fatto possiamo interpretare questa equazione come una funzione di
produzione dove l’unico input è il capitale
Y
t
= (1/v)·K
t
[7]
dove 1/v indica la produttività marginale e media del capitale e v viene
definita “Incremental Capital Output Ratio” – ICOR – (intensità
capitalistica della produzione), ed indica di quanto va aumentato lo stock di
capitale per aumentare la produzione di una unità.
Se da come possiamo osservare, l’approccio di Harrod si concentra sugli
squilibri tra investimenti e risparmi nel breve periodo, qualche anno più
tardi, nel 1946, Domar, giunse alle stesse conclusioni provando ad
esaminare il modello nel lungo periodo ed approfondendo la riflessione
sulla condizione di equilibrio e le ipotesi di comportamento, che Harrod
non aveva fatto.
Partendo dalla [7], Domar osservò come il principio della domanda
effettiva (uno dei punti cardine dei keynesiani) imponesse che le imprese si
21
adeguassero con la loro produzione in base alla variazione attesa della
domanda; ossia
ΔY
t
= (1/v)·ΔK
t
[8]
che, in base alla [4], si traduce in
ΔY
t
= (1/v)·ΔI
t
[9]
Se è vera la [9], allora, in base all’identità [3], che eguaglia
l’investimento al risparmio, sarà vero anche che
ΔY
t
= (1/v)·sY
t
[10]
Da cui, dividendo entrambi i membri per Y
t
, otteniamo: ΔY
t
/Y
t
= s/v,
ovvero → g
w
= s/v
[11]
La [11] ci indica che il tasso di crescita del reddito che assicura
l’equilibrio tra domanda e offerta aggregata è pari al rapporto tra la
propensione media al risparmio e l’intensità capitalistica della produzione.
Il tasso così ricavato, pone attenzione solo al lato della domanda, ignorando
l’evoluzione delle capacità produttive dell’economia.
Se introduciamo quindi nel modello il tasso di crescita della forza lavoro
(n) e il tasso di crescita del progresso tecnico (ρ) che ne aumenta la
produttività, siamo in grado di giungere ad un tasso di crescita che la
letteratura indica come tasso di crescita naturale (g
n
)
g
n
= n + ρ
[12]
g
w
e g
n
corrispondono in una visione Keynesiana all’equilibrio di
sottoccupazione e ad un equilibrio di piena occupazione, che secondo
l’economista inglese, non sempre coincidono, necessitando quindi,
costantemente, di un intervento riequilibratore della politica economica.