4
II. Le basi psicologiche del gioco
Iniziamo dicendo che la capacità di giocare presuppone
componenti psichiche importantissime, quali l’interazione madre -
bambino (Winnicott) e la costituzione del simbolo (Klein).
Winnicott (1971) parla del gioco come “spazio potenziale tra il
bambino e la madre”
3
, nella sequenza di rapporti in relazione con il
processo di sviluppo. Esso si inserisce come capacità del lattante di
relazionarsi con l’oggetto, capacità resa possibile dalla “madre
sufficientemente buona” che rende reale ciò che il bambino è pronto a
scoprire facendogli sviluppare quel “sentimento di onnipotenza “ che
nasce da un adattamento quasi completo ai suoi bisogni e che
gradualmente diminuisce a seconda della capacità del bambino che
cresce di tollerare i risultati della frustrazione e del venir meno
dell’adattamento. Ciò permetterà al bambino di sviluppare competenze
relazionali avulse dalla primaria interazione con la madre. Da questa
fase del gioco all’attività creativa il passo è breve.
3
D.W., Winnicott (1971) Gioco e realtà. Tr.it. Armando, Roma 1993, p. 93.
5
Il secondo presupposto fondamentale del gioco, l’attività
simbolica, viene utilizzata normalmente dalla psicoanalisi nello studio
con bambini, M. Klein parte dal presupposto che il simbolismo mette il
bambino in grado di trasferire non solo i suoi interessi, ma anche le
fantasie, le ansietà e i sentimenti di colpa, su oggetti anziché su persone
(M. Klein Nuove vie della psicoanalisi). In tal modo il gioco riesce ad
essere utile perché consente una realizzazione cosciente facilmente
analizzabile e ,allo stesso tempo, l’agire funge da valvola di sfogo delle
quotidiane frustrazioni. Oltre a M. Klein anche M. Milner e H. Segal
hanno approfondito l’utilizzazione di tecniche di gioco nella terapia con
bambini, portando soprattutto nuovi spunti alla concezione del gioco
come formatore di simbolo e come strumento terapeutico.
Nell’accezione utilizzata, il termine simbolo consente di connettere
strettamente le dinamiche emozionali con i processi cognitivi,
divenendo esso stesso una tipica espressione del processo primario
tendente alla gratificazione immediata, nella quale la carica psichica può
6
essere spostata da un oggetto più ambivalente ad un altro più
accessibile.
“Si potrebbe dire che il simbolo è un’idea cui è rimasto attaccato
un affetto e che il gioco, in quanto rappresentazione simbolica, è teatro
dei desideri”
4
.
Questo studio vuole evidenziare la gradualità tipica dei giochi, che
si muovono nella vita dell’individuo divenendo sempre più “sociali”.
Dapprima il gioco del bambino è, infatti, puro piacere e l’unica
precondizione alla sua manifestazione è una situazione di protezione e
di stimolazione garantita dagli altri membri della specie, che svolgono
una funzione di allevamento. “E’ la madre che fornisce la cornice
espressiva e di sicurezza entro cui la sua stimolazione e la risposta del
piccolo possono assumere quelle caratteristiche note comunemente
come gioco”.
5
4
A., Bondioli(1989) Il buffone e il re. La Nuova Italia, Firenze, p.40.
5
Ibidem p.45
7
In questo senso il primo passo per l’evidenziarsi dei fenomeni
ludici, come già accennato precedentemente, viene fornito dal rapporto
interattivo madre - bambino.
Secondo Stern (Cit. in: A., Bondioli Il buffone e il re. 1989) la
struttura comunicativa fornita dalla madre comprende almeno i seguenti
attributi espressivi:
- una bolla prossemica (spazio di vicinanza delimitato più
psicologicamente che fisicamente, che si instaura tra due persone
profondamente concentrate nella relazione reciproca) che determina
una immediata intimità;
- una faccia da gioco evidenziabile attraverso sopracciglia alzate,
bocca aperta, occhi sgranati, espressione di finta sorpresa;
- uno sguardo ludico reso evidente dall’intensità dello sguardo mentre
si parla;
- una vocalizzazione ludica attraverso un tono di voce più alto, vocali
prolungate, parlata più lenta;
8
- una presentazione del viso del tipo del “gioco del cucù” spostamento
del corpo in avanti e indietro);
- un tempo di gioco solitamente dopo i pasti o prima del sonno del
bambino;
- un luogo di gioco solitamente sulle ginocchia o sul lettino.
Sembra quasi che il paradigma sportivo originario per il gioco sia
costituito da “madre e bambino congiunti in una cornice espressiva di
comunicazione entro cui essi partecipano in modo contrastivo alla
modulazione dell’eccitazione”
6
.
6
Ibidem p. 46
9
III. Dal gioco infantile a quello socializzato
Ma per l’aspetto del gioco che più ci interessa, la sua socialità e
capacità di divenire interazione, prenderemo in considerazione due
autori, Piaget e Freud che si sono occupati, in maniera diversa ma a
nostro avviso complementare, della possibilità del bambino di giocare in
gruppo e delle motivazioni che ne determinano l’insuccesso.
In linea con la prospettiva piagetiana il gioco infantile apparirebbe
come un fenomeno idiosincratico e individuale che non sembra trarre
beneficio dal contatto con gli altri.
L’egocentrismo infantile impedirebbe infatti di instaurare, nel
periodo prescolare, forme di gioco cooperativo e sociale, per le quali
occorre attendere che si sviluppi il pensiero reversibile e astratto.
Potrebbe essere utile, a questo punto, mettere in risalto i concetti di
“assimilazione e “accomodamento” che utilizza Piaget per spiegare
l’evoluzione della coscienza infantile: nei processi di assimilazione il
bambino cerca di rapportare completamente la realtà al proprio Io, in
10
quelli di accomodamento, invece, si comporta in modo sempre più
conforme alla realtà.
In questo senso, in linea con la teorizzazione di Freud del
passaggio dal processo del piacere a quello di realtà, anche il
comportamento sociale del bambino si evolve dall’egoismo alla
cooperazione, dai giochi simbolici e solitari alla sacralità delle regole.
L’inizio di questo nuovo interesse si situa solitamente intorno ai 7
anni e una delle motivazioni potrebbe essere il superamento del
complesso di Edipo e l’inizio del Super-Io. Il bambino, solo nel
momento in cui supera la fase di aspirazione al piacere e si immette
nella strada del principio di realtà, può iniziare a recepire quei principi
morali e quel rispetto delle regole che lo accompagneranno nei giochi di
gruppo. “Questa trasformazione è resa possibile dalla disposizione
ereditaria, ma quasi mai può fare a meno dell’ausilio dell’educazione e
dell’influsso parentale che, precorrendo il Super-Io, limita l’attività
11
dell’Io con divieti e punizioni, favorendo dunque certe rimozioni o
obbligando ad intraprenderle”.
7
Il gioco può diventare, in questo senso, un utilizzo piacevole di
modelli comportamentali la cui natura è tale che, fuori di esso,
soccomberebbero alla rimozione e alla sanzione quando, invece, nel
gioco possono essere disinnescati e conseguentemente mitigati da un
quadro di condizioni opportunamente disposto.
Questa storia evolutiva sembrava indispensabile per arrivare a
parlare di gioco di gruppo. Infatti la sua premessa indispensabile, la
capacità di giocare e di creare interazione, diviene anche la valvola che
permette di arrivare all’attitudine di fare funzionare il gruppo di una
squadra sportiva.
7
S., Freud (1936)Compendio di psicoanalisi. Vol. 11, p.612.
12
CAPITOLO PRIMO
“ La brama animale di lotta, che una
volta era una necessità, sopravvive nel
sangue, e proprio nella misura in cui una
nazione o una classe conservano un
margine di energia e di tempo libero dalle
attività dell’industria pacifica, chiede di
essere soddisfatta attraverso lo
sport.”(J.A.Hobson, “Imperialism. A
Study”, 1902).
1.1 Gli esordi dei giochi di gruppo:
Gli sport di squadra, divenuti appannaggio di molti sia in termini di
pratica che di fenomeno culturale ricercato e seguito, (si pensi ad
esempio alla capacità di trasporto che ha una partita di calcio o una
corsa automobilistica o un incontro di boxe) possono essere ricondotti
alla storia dell’uomo come pratica comportamentale o anche, addirittura,
alla sua preistoria dove lo stare in gruppo era sinonimo di maggiore
sicurezza ed efficacia.
La sopravvivenza dell’uomo preistorico legata alla caccia può
essere una motivazione basilare per comprendere gli sport di squadra in
13
chiave socio – affettiva. Secondo le osservazioni di D. Morris il fatto di
dover cacciare in gruppi organizzati era una necessità dell’uomo
preistorico per potere avere la meglio su animali che, presi
singolarmente, erano più potenti, più veloci, più forti.
Questo indusse il nostro progenitore a sviluppare dei
comportamenti e delle tattiche di gruppo organizzate, come l’attacco e la
difesa, per poter avere la meglio sulle prede o sugli altri predatori.
Questo atteggiamento, che prima era un’esigenza, divenne nel
corso dei secoli un passatempo, che gli uomini, attraverso dei giochi di
gruppo, utilizzavano per filtrare emozioni e affettività vecchie di
millenni, divenute oramai un retaggio culturale inserito nella nostra
psiche. Ecco, quindi, come queste pulsioni, queste tendenze interiori,
trovino un legittimo sfogo in quelli che Desmond Morris definisce gli
“odierni giochi tribali”
8
,: gli sport di squadra, che potrebbero assumere
l’importante funzione di convogliare in modo sano le tendenze
8
D., Morris (1982) La tribù del calcio. Cit. da: S., Mazzali (1995) Lo spogliatoio, le dinamiche di
gruppo nei giochi di squadra. Koala Libri, Reggio Emilia, p.12.
14
aggressive insite nella nostra cultura, necessità questa che era stata fatta
propria sin nella storia antica.
Iniziando dai greci di oltre 3000 anni fa e continuando con i
romani si diede, infatti, origine a giochi di vario tipo alla cui base vi era
l’espressione della violenza e della ferocia tra i contendenti (si pensi alla
creazione delle arene, del Colosseo e soprattutto al mantenimento e
addestramento dei lottatori).
Secondo questa ipotesi i giochi sportivi sono il derivato dell’attività
tribale di caccia e quindi di guerra, che ha caratterizzato la storia
dell’uomo, ed equivalgono ad una guerra simbolica, disciplinata dai
regolamenti e dal fair play. ”Si tratta di una attività, ora formativa, ora
ricreativa, ora professionistica, che però affonda le proprie origini nel
nostro retaggio istintuale ed emozionale”
9
.
Il gioco nelle pratiche sportive si configura quindi come un luogo
esplicatore di tendenze innate filogeneticamente ereditate, ma anche,
allo stesso tempo, depositario
9
S. Mazzali (1995)Lo spogliatoio, le dinamiche di gruppo nei giochi di squadra. Koala Libri, Reggio
Emilia,p.12.
15
di radicati orgogli nazionalistici. E se da un lato la nota tesi dello storico
olandese Huizinga (1939) sulla preesistenza dell’ “Homo Ludens”
rispetto all’ ”Homo Faber” data l’inizio del fenomeno sportivo con
l’origine stessa della specie umana (esemplificativi i mitologici rilanci di
palla di Nausica e i rinvenimenti sulla civiltà ludica precolombiana),
dall’altro lato la rivendicazione di certi sport, considerati preesistenti
rispetto ad altri, è tipica di ogni nazione come è esemplificato dalle
presunte primogeniture che ricollegano gli sport moderni agli antichi
giochi. Così è accaduto, per esempio, al football, per il quale i francesi
rivendicano la paternità alla “soule” ; gli italiani al “calcio fiorentino”,
gli svizzeri a loro volta all’ “horrusse”, una loro antica pratica ludica, i
giapponesi infine , al “Kemari” (Pivati. L’era dello sport).
Con tutta evidenza ad accreditare questa sottile corrispondenza tra i
giochi tradizionali e lo sport modernamente inteso ha contribuito la
sollecitazione del barone De Coubertin, promotore delle moderne
Olimpiadi, che evocava Olimpia e i ludi della Grecia classica come un
mito romantico.
16
Un rapido esame dei cosiddetti giochi tradizionali, oggi in gran
parte scomparsi o relegati a fenomeni folcloristici in quasi tutte le realtà
nazionali, mostra però come essi fossero, quasi sempre, caratterizzati da
alcuni elementi comuni, a cominciare da un diffuso esercizio della
violenza e della forza bruta che ben si distanzia dalla civilizzazione dei
comportamenti delle pratiche agonistiche. Anche nei giochi
caratterizzati dall’uso della palla, solo all’apparenza più innocui, vi era
grande sfoggio di aggressività come componente fondamentale del
gioco stesso.
Una cronaca seicentesca
10
ci informa, per esempio, che l’ ”Urlinge
to the country” (palla attraverso la campagna), praticato in Cornovaglia,
era un gioco nel quale i contendenti “cominciavano a correre per colline,
valli, siepi, fossati, e attraverso cespugli, roveti, paludi, acquitrini e
fiumi; così a volte si vedevano venti o trenta Urliers che si gettavano
nell’acqua, accapigliandosi e graffiandosi per la palla.
10
Cit. da: S., Pivato (1994) L’era dello sport. Giunti, Firenze.