INTRODUZIONE
Sebbene l’apporto dato dalla letteratura italiana alla produzione shakespeariana
venga generalmente riconosciuto, talvolta il trattamento delle fonti si risolve in un
mero accenno all’opera primaria eclissata dal genio poetico e teatrale del Bardo.
Quattro secoli di critica letteraria hanno prodotto una gran quantità di saggi, articoli e
monografie che analizzano in ogni sfaccettatura tutti i personaggi di Shakespeare ma
raramente si soffermano in dettaglio sulle differenze e somiglianze tra la storia
originale e quella shakespeariana, perdendo di vista un valido strumento di analisi del
pensiero creativo del poeta. Nel caso di Iago, il cattivo consigliere di Otello
nell’opera omonima, si tende spesso a vederlo come un’originale creazione di
Shakespeare e a definirlo semplicemente diverso dal suo ispiratore, l’Alfiero di
Giraldi. Bloom, per esempio, è tra quelli che fanno un breve accenno all’Alfiere
originale, pur senza reputarlo all’altezza del suo successore shakespeariano, ma più
spesso molti testi non ne fanno alcuna menzione, concentrandosi più sulla ricerca
della motivazione e/o sulla natura stessa di Iago.
La tragedia Othello ha come fonte principale la settima novella della terza decade
degli Ecatommiti (o Hecatommithi), opera di Giovan Battista Giraldi Cintio. Essa ha
fornito a Shakespeare i motivi e gran parte della trama sulla quale innestare la propria
tragedia, modificandone parzialmente il finale e talvolta anche l’intreccio,
prendendosi inoltre la libertà di battezzare a proprio piacimento i personaggi che nella
novella italiana sono chiamati col solo titolo sociale o rango militare, eccezion fatta
per Disdemona trasformata in Desdemona da un cambio vocalico.
L’Alfiero di Giraldi, invaghito della moglie del proprio capitano moro e da lei
rifiutato, decide che se non potrà vedere soddisfatto il suo desiderio di possederla,
nessun’altro potrà e finisce con l’ucciderla. Mentre le motivazioni di quest’uomo
sono subito chiare, poiché la vendetta si concentra fin dal principio sulla donna,
trascinando con sé anche l’ingenuo marito e fornendosi al tempo stesso un movente
“lecito” grazie alle prove di un presunto adulterio, i motivi per cui lo Iago di
Shakespeare decida di tradire il proprio capitano rimangono ancora oggetto di teorie e
speculazioni.
Iago non è innamorato di Desdemona, non le porta rancore, e a molti studiosi questo
basta per attribuire la creazione del personaggio alla sola creatività shakespeariana.
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Iago odia Otello, a detta sua, per due motivazioni: perché non lo ha investito della
carica che meritava e perché nutre il sospetto che abbia giaciuto con sua moglie
Emilia. Shakespeare avrebbe potuto rimarcare e ampliare questi temi in ogni
soliloquio di Iago ma ha scelto di non farlo ed essi risultano tanto sottili ed
evanescenti che diversi critici hanno fornito al personaggio una natura superumana,
“un demone...un angelo nero... lo Spirito del Male” come lo definisce
Chapman(1922), ma si tratta solo di un esempio di un atteggiamento della critica che
affonda le radici nella tradizione, annoverando tra gli altri sostenitori anche il poeta
S.T. Coleridge. Essi però dimenticano quanto Shakespeare fosse un gran conoscitore
dell’animo umano, prima ancora della venuta della psicanalisi: Iago è un uomo che si
lascia guidare dalla passione e dal suo talento nel comprendere e ingannare la natura
umana, scoprendo a poco a poco la misura del potere che sa esercitare sugli altri.
La maggior parte degli studiosi che hanno comparato le due versioni della tragedia
si sono soffermati principalmente sui modi attraverso cui Shakespeare sia venuto in
contatto con l’opera di Giraldi,
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ma raramente si sono soffermati sul modo e la misura
in cui l’ingegno shakespeariano si sia innestato sulla sua fonte italiana.
Per mettere in pratica tale indagine, il mio intento è quello di analizzare il
personaggio del villain nel suo ciclo di trasformazione dall’Alfiero della dimenticata
novella italiana all’indimenticabile Iago del teatro elisabettiano. Comparando la
novella originale e la tragedia shakespeariana, cercherò di comprendere perché il
drammaturgo abbia scelto questa novella e a quale scopo abbia deciso di apportarvi
dei cambiamenti sostanziali, al fine di cercare di penetrare un poco il mistero della
mente di uno dei suoi malvagi meglio riusciti.
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Non essendo materiale trattato nella presente discussione, si rimanda alla bibliografia per ulteriori
informazioni in merito, in particolare il lavoro di Attari e di Lawrence.
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1. LA TRAMA
L’analisi di un personaggio, sia esso teatrale o letterario, non può prescindere dalla
lettura del contesto in cui esso figura. Per questo ritengo opportuno partire dalla
comparazione di Othello con le sue fonti, in particolare con gli Ecatommiti di Giraldi
Cintio. In questo capitolo, oltre ad un breve riassunto della trama, si cercherà di
inquadrare la storia in un contesto storico e culturale, sottolineando le differenze tra
quello italiano e quello inglese e cercando di capire perché Shakespeare ritenne
necessario operare delle modifiche all’intreccio di Giraldi.
1.1 GLI ECATOMMITI DI GIRALDI CINTIO
Giovanbattista Giraldi (1504-1573)
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era già scrittore e drammaturgo affermato
quando fece pubblicare gli Ecatommiti. Letterato ferrarese, di famiglia benestante,
ebbe la possibilità di studiare le arti e la medicina, nonché logica, fisica, filosofia
morale e retorica, di entrare facilmente nell’ambiente di critica letteraria del suo
tempo. Nella critica inglese, è più spesso noto come Cinthio (a volte italianizzato in
Cintio), soprannome accademico di cui egli stesso si era appropriato in onore del dio
greco della poesia Apollo (Perocco 2013: 43). È’ proprio al periodo accademico che
viene fatto risalire il principio della stesura dell’opera che, abbandonata per molti
anni, vide la luce solo nel 1569 sotto il titolo De gli Hecatommithi di M.
Giovambattista Gyraldi Cinthio nobile ferrarese. A quel punto della sua carriera,
sebbene avesse perso favore alla corte estense per la morte del suo anfitrione, il duca
Ercole II, Giraldi era già famoso per le sue opere di critica e drammaturgia e gli
Ecatommiti fu un immediato successo con ben sette ristampe dal 1569 al 1608
(Lawrence 2004: 48).
Si tratta di una raccolta di centotredici novelle, in due volumi, contornate da una
cornice narrativa; una struttura che certamente ricorda per somiglianza il Decameron
boccaccesco, risalente a quasi due secoli prima. La cornice narrativa, infatti, vede un
gruppo di nobiluomini e nobildonne in fuga dal Sacco di Roma del 1527, diretti a
Marsiglia per sfuggire ai lanzichenecchi in un viaggio in nave di dieci giorni. Il
gruppo di aristocratici si risolve di raccontare ogni giorno dieci novelle intorno ad un
tema comune per impiegare il tempo del viaggio a ragionare in compagnia. Invece di
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Ogni riferimento bibliografico su Giraldi, ove non specificamente indicato, è da riferirsi a Foà (2001)
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risvolti boccacceschi, Giraldi pone l’accento sulla morale di ogni storia, fornendo
termini di giudizio sui personaggi delle novelle come sulle questioni morali trattate.
La novella che riguarda questa ricerca è la settima della terza decade nella quale “si
ragiona dell’infedeltà de’ mariti e delle mogliere”.
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All’interno del discorso
riguardante donne traditrici e ingannevoli giustamente punite, questa novella si
profila come esempio del contrario: “talora che, senza colpa, fedele ed amorevole
donna, per insidie tesele da animo malvagio, e per leggierezza di chi più crede, che
non bisognerebbe, dal fedel marito riceve morte”.
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In queste poche parole è già
riassunta la trama dell’intera novella e, a ben vedere, anche della tragedia
shakespeariana.
Una bellissima donna veneziana, chiamata Disdemona, s’innamora di un capitano
Moro (chiamato da Cintio solamente attraverso quest’ultimo epiteto), “tratta non da
appetito donnesco, ma dalla virtù del Moro” e costui “vinto dalla bellezza e dal nobile
pensiero della donna, similmente di lei si accese”
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. La loro unione viene quindi
consacrata dal vincolo del matrimonio, delineando una vita coniugale piena d’amore e
tranquillità. Sin dall’inizio, Giraldi intercetta la tradizione novellistica dell’epoca
inserendo personaggi tipici, la bellissima e nobile donzella e il bellicoso e passionale
moro, ma li rielabora in una relazione legittima e pacifica per sovvertire le aspettative
del lettore dell’epoca riguardo i rapporti transculturali e transrazziali. Un equilibrio
che si viene a incrinare quando la coppia parte per Cipro.
La Repubblica della Serenissima aveva governato l’isola sin dal 1470, con regolari
cambi della milizia veneziana lì stazionata. I primi conflitti con l’Impero Ottomano
riguardanti quest’isola, situata proprio di fronte alla costa turca, risalgono al 1569
quando l’Impero ne pretese il controllo a seguito di ripetuti attacchi alle navi
ottomane da parte di pirati cristiani che a Cipro avevano rifugio. Giraldi non pone
l’ombra di una crisi imminente: il Moro viene mandato sull’isola dal Senato a fronte
di una prassi militare assolutamente comune per l’epoca e Disdemona decide di
seguirlo nella sua spedizione come tenera moglie. Il presente è tranquillo per la
coppia, un idillio che noi sappiamo sarà rovinato e suggellato da un omicidio.
A questo punto Giraldi introduce il suo villain per movimentare l’azione e
precipitare gli avvenimenti:
3
Giraldi, Gli Ecatommiti, p. 154. Purtroppo, non esistono edizioni moderne dell’opera, perciò ogni
citazione riportata si riferisce all’edizione consultata, datata 1834.
4
G., p. 180.
5
G., p. 180.
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