CAPITOLO PRIMO
Breve storia dell’intelligenza artificiale
Si è scelto di dare inizio a questa tesi con un capitolo di taglio storiografico, vòlto a fornire delle
coordinate temporali generiche, ma chiare, su cosa si intenda per “intelligenza artificiale”, “sistemi
intelligenti” e “sviluppo della robotica”. Tutti questi termini, ora come ora, sono stati dati per
sinonimi e utilizzati come se non presentassero né caratterizzazioni né differenze al loro interno: si
vedrà presto che non è così, che essi si sono sviluppati e hanno assunto un significato ben preciso
solo con il passare dei decenni – particolarmente nel secolo scorso – ed è proprio in relazione alle
variazioni di significato di queste parole fondamenti che è possibile sviluppare una storia della
robotica, per quanto breve, che vada dall’ormai “preistorico” flautista viennese, in grado di
incantare gli aristocratici alla corte di Vienna, alle più recenti scoperte e invenzioni dell’intelligenza
artificiale.
Questo capitolo ha due obiettivi: il primo, come già detto, è quello di delineare un contesto, affinché
le riflessioni dei prossimi capitoli possano ancorarsi su qualcosa di solido. Ci si addentrerà nei
dettagli tecnici, che spesso sono irrilevanti ai fini di una trattazione filosofica, nella misura in cui
ciò sia utile a una migliore definizione dei concetti posti in gioco.
Il secondo obiettivo, forse più importante del primo poiché più direttamente implicato nella
questione, è quello di preparare il lettore al “salto” di cui abbiamo detto nell’introduzione, ovvero
dare quel contesto che dovrà poi essere rimosso dalla messa tra parentesi eidetica richiesta dal
metodo fenomenologico. Lo sviluppo della robotica e dell’intelligenza artificiale non è
assolutamente qualcosa che si sia evoluto unicamente sul piano dell’ingegneria, a livello di un
semplice sviluppo tecnico; al contrario, ogni singolo passo in avanti sul piano della realizzazione
pratica è stato anticipato da uno sviluppo fondamentale a livello teorico, e prima ancora filosofico,
dove la concezione fondamentale dell’àutoma – il vero termine fondamentale, che soggiace
all’intera storia della robotica – è mutata attraverso vari livelli, fino ad arrivare alla concezione
attuale, quella dell’automa inteso come androide, iniziata da Alan Turing negli anni ’50 del secolo
scorso e confermata in tanti e tanti film di fantascienza che noi tutti conosciamo e abbiamo
imparato ad amare.
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Le storie della robotica: diversi manuali per lo sviluppo di sistemi intelligenti, nonché saggi sulla
storia della robotica e conferenze sull’intelligenza artificiale, quando preparano il lettore alla
materia introducendo una “storia” della questione, iniziano sempre con un autore fondamentale –
ma l’autore in questione, per quanto riguarda la robotica, è sempre diverso. Per fare un esempio, la
Stanford Encyclopedia of Philosophy, nella sua versione online, riporta così l’inizio della storia
dell’intelligenza artificiale:
«The field of artificial intelligence (AI) officially started in 1956, launched by a small but
now-famous DARPA-sponsored summer conference at Dartmouth College, in Hanover, New
Hampshire… Ten thinkers attended, including John McCarthy (who was working at
Dartmouth in 1956), Claude Shannon, Marvin Minsky, Arthur Samuel, Trenchard Moore
(apparently the lone note-taker at the original conference), Ray Solomonoff, Oliver Selfridge,
Allen Newell, and Herbert Simon. From where we stand now, into the start of the new
millennium, the Dartmouth conference is memorable for many reasons, including this pair:
one, the term ‘artificial intelligence’ was coined there […]».
14
Il taglio del resoconto storiografico fornito dalla Stanford Encyclopedia è quindi, “da
contemporaneisti”: la storia dell’intelligenza artificiale viene fatta risalire, dovendo porre
un’origine, agli anni ’50, con la cosiddetta conferenza di Darthsmouth. Se, però, si consulta il già
citato manuale di Luger, il quale fornisce un’introduzione alla storia dell’intelligenza artificiale in
un capitolo introduttivo, questa viene introdotta in tutt’altro modo:
«Prometheus speaks of the fruits of his transgression against the gods of Olympus: his
purpose was not merely to steal fire for the human race but also to enlighten humanity
through the gift of intelligence or nous […]
15
».
In questo caso, si fa addirittura risalire all’antico mondo greco l’origine della storia dell’intelligenza
artificiale. Non che Luger stia attribuendo ai greci una precognizione o, peggio ancora, un “sapere
mistico”, che sarebbe poi passato per infusione alla civiltà occidentale, garantendole la fertilità dei
suoi successi nell’ambito della scienze cognitive. Non è così; tuttavia, Luger riconosce che “quel
qualcosa” che ha animato l’Occidente nel suo tentativo di creare sistemi intelligenti, e che lo anima
ancora, condivide qualcosa con quell’immaginario greco che ruotava intorno al furto del fuoco
commesso da Prometeo a danno degli dèi.
14 https://plato.stanford.edu/entries/artificial-intelligence/#HistAI.
15 Luger, Artificial Intelligence, cit., p. 3.
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Spesso si parla di Alan Turing come dell’iniziatore dell’intelligenza artificiale, un autore “tardo”,
considerato dal punto di vista cronologico, se si vuole assumere una prospettiva storiografica simile
a quella di Luger, volta a rintracciare nel lontano passato l’inizio (almeno, culturale) della storia
dell’intelligenza artificiale. Turing infatti è l’autore della moderna concezione del computer, come
di una macchina in grado di calcolare qualsiasi cosa e quindi produrre qualsiasi risultato, ciò che fa
della Universal Turing Machine, a dispetto delle precedenti macchine specializzate in un particolare
lavoro ad esclusione degli altri, il primo esempio di vero e proprio “calcolatore” moderno che la
storia conosca.
Tuttavia, anche Charles Babbage sembra poter vantare lo stesso primato: la sua Analytical Engine,
infatti, sviluppata agli inizi del XIX secolo ma mai conclusa, è la prima tra le macchine
contemporanee che avrebbe seriamente potuto aiutare l’uomo con il calcolo delle complesse tavole
trigonometriche.
Turing e Babbage non sono tuttavia gli unici a poter vantare questo primato: diverse trattazioni
riportano diversi autori fondamentali, talvolta limitandosi al tempo più recente (Turing), talaltra
risalendo fino a due secoli fa’ (Babbage), o addirittura prima, al secolo di Leibniz e Pascal, per non
parlare di quelle trattazioni che iniziano citando Aristotele o addirittura il mito greco, che conosceva
nobili figure di architetti e ingegneri divini, dei quali forse Efesto e Dedalo sono le più note.
Queste discrepanze non sono né casuali, né frutto di un errore, poiché ci informano su qualcosa di
fondamentale a proposito della storia della robotica: non esiste cioè una sola, ma diverse storie della
robotica, o meglio, una storia suddivisa in fasi diverse e molto distinte tra loro, non sempre lineari
l’una rispetto all’altra. Ognuna di queste fasi di sviluppo, le quali, schematizzando, possono essere
ridotte a quattro, rappresentano una variazione fondamentale del concetto dell’automa, di ciò che
“… da sé”, dimostrando di potersi dare un impulso proprio al movimento, all’azione, al
mantenimento, alla vita. Ciascuna delle quattro fasi della robotica rappresenta una differente
declinazione di che cosa sia l’automa, di come esso venga concettualizzato e pensato da una certa
epoca storica e, per quanto una fase sviluppi una certa concezione in un determinato senso, questa
evoluzione finisce sempre, inevitabilmente, con il condurre ad una concezione differente e nuova,
talvolta inaspettata rispetto a quella precedente, talvolta, invece, già anticipata dai tratti
fondamentali dell’epoca precedente.
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16 Si intende precisare che la distinzione qui introdotta di queste “4 fasi di sviluppo della robotica”, nonché
l’organizzazione generale del materiale presentato secondo un’accentuazione fortemente storica, non sono state reperite
in alcun autore particolare, ma derivano principalmente dalle idee di chi sta scrivendo la tesi. Il motivo di ciò è lo
sfondo heideggeriano, e quindi storico, di chi scrive, il quale tende a leggere problemi filosofici come quello
dell’intelligenza artificiale come problemi sempre storico-filosofici, i quali possono essere compresi pienamente
soltanto se analizzati nella loro evoluzione nel tempo. Pertanto, la suddivisione in fasi è di chi scrive, così come la
generale “breve storia dell’intelligenza artificiale” presentata nel primo capitolo. Si dirà di più a proposito nella prima
ipotesi dell’Epilogo, in cui verrà specificato come questa tesi vada letta come tesi di storia della filosofia, e non di
epistemologia o filosofia della scienza.
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Le quattro fasi della storia della robotica possono essere così distinte:
1. Una fase meravigliosa della storia della robotica. La fase meravigliosa non racchiude
semplicemente “un’epoca”, ma un insieme di epoche che vanno dall’antichità e dai suoi miti
al XIX secolo - incluso. In questa fase, l’automa è concepito come ciò che strabilia, diverte,
colpisce, ma senza mai però dimostrare qualcosa più di questo: l’automa è ciò che
impressiona il pubblico, testimoniando così della capacità del suo autore.
2. La fase meravigliosa termina dando vita alla fase della macchina, in cui l’automa cessa di
essere qualcosa che stupisce per iniziare a ottenere un ruolo nel mondo umano, seppure di
contorno: la macchina lavora in modo meccanico, automatico, sì, ma senza coscienza di
alcun tipo. Questa è l’epoca della Spinning Jenny e dell’Analytical Engine, ad esempio, dove
l’una, la prima, è stata una delle protagoniste della Rivoluzione Industriale inglese, e l’altra
uno dei primi e più ambiziosi tentativi di calcolo automatizzato che gli albori della storia
della robotica possano offrire. Se ne parlerà in seguito.
3. La terza fase subentra alla concezione dell’automa come macchina ed è la fase della robotica
vera e propria, nella quale l’automa è pensato come robot. A differenza della macchina, la
quale è un agglomerato meccanico di parti, il robot inizia a porre importanti questioni a
proposito della “comprensione” di ciò su cui opera, nonché sull’effettivo grado della sua
sensibilità e su una sua possibile direzione di sviluppo verso qualcosa di più simile
all’umano. Con questa fase siamo in pieno Novecento.
4. L’ultima fase, quella nella quale noi ancora ci troviamo, può essere chiamata la fase
dell’androide. “Androide” significa “ciò che assomiglia all’uomo”. In questa fase accade
qualcosa di molto particolare, poiché il robot inizia a svilupparsi non più come un essere di
contorno all’attività dell’uomo, ma come qualcosa di parallelo, in primis, che – secondo
alcuni – potrebbe addirittura finire col diventargli qualcosa di alternativo. L’androide punta a
imitare, riprodurre e forse sostituire l’uomo.
È proprio in relazione a queste quattro fasi che può essere spiegato come mai trattazioni diverse ci
riportino diversi autori fondamentali, per quanto riguarda l’inizio della storia della robotica, una
storia che, si ripete, è molto lontana dallo spegnersi e che pertanto non può essere trattata come una
semplice questione “da manuale”, da rinchiudere in qualche paragrafo, schematizzata una volta per
tutte. Mentre si scrive, ciò di cui si sta trattando muta ed evolve, cambiando forma.
Ognuna di queste fasi può considerarsi avere inizio in un momento preciso o un autore
fondamentale, ad eccezione forse della prima, la quale come abbiamo anticipato non è una vera e
propria fase dai contorni storici ben precisi ma, più che altro, una “preistoria” o un’“epoca mitica”
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rispetto alle epoche successive. Gli autori fondamentali, iniziatori di ciascuno di questi mutamenti
fondamentali nella concezione di che cosa sia un automa, sono Charles Babbage, per la fase della
macchina, Allen Newell ed Herbert Simon, per la fase della robotica (nonché Claude Shannon),
Turing, infine, per la fase dell’androide. È Turing a lanciare potentemente la storia dell’intelligenza
artificiale verso il proprio futuro, con la domanda che egli pone e che passerà alla storia come “Test
di Turing”: «Can machines think?».
17
Le diverse fasi della storia della robotica non vanno pensate tanto come un susseguirsi cronologico
preciso, scandito da momenti certi e deterministicamente stabiliti - anche se, di fatto, hanno tra loro
un certo principio di successione, per il quale dall’una si passa a quella successiva; più che altro,
vanno pensati come dei lembi di una stessa pianta che talvolta si evolvono in maniera lineare l’uno
dietro l’altro, altre volte confliggono o divergono, sviluppandosi in direzioni differenti, producendo
risultati inaspettati rispetto ai propri precedenti insiti nelle epoche anteriori.
Per ovvi motivi di brevità non si darà un resoconto esaustivo di tutti gli sviluppi della robotica negli
ultimi secoli, ma soltanto di quei momenti esemplari che ci permetteranno di cogliere l’essenza di
un’epoca attraverso i suoi momenti fondamentali.
1. La fase “meravigliosa”
«Ora, Talo era anche il nome del servo di bronzo, dalla testa di toro, che Zeus aveva donato a
Minosse come custode di Creta. Taluni dicono che egli fosse l’unico superstite di una stirpe di
uomini di bronzo nata dai frassini; altri, che egli fu forgiato da Efesto in Sardegna; aveva
un’unica vena che gli correva dal collo ai talloni dove era tappata da un chiodo di bronzo. Era
suo compito correre tre volte al giorno tutt’attorno all’isola e gettare massi contro le navi
straniere, e anche recarsi tre volte all’anno, con maggior calma, nei villaggi di Creta,
mostrando le leggi di Minosse incise su tavole di bronzo. Quando i Sardi tentarono di
invadere l’isola, Talo fece arroventare il suo corpo sul fuoco e poi distrusse i nemici in un
abbraccio infuocato, ridendo malvagiamente; ecco come nacque l’espressione “risata
sardonica”. Infine Medea uccise Talo strappandogli il chiodo dal tallone e facendo defluire il
sangue dalla sua unica vena; ma altri dicono che Peante l’Argonauta lo colpì alla caviglia con
una freccia avvelenata».
18
17 Alan Turing, Computing Machinery and Intelligence, «Mind», 49 (1950), p. 1.
18 Robert Graves, I miti greci, tr. it. di Elisa Morpurgo, Milano, Longanesi, 1963, p. 285. Cfr. anche Monica Pugliara,
Il mirabile e l’artificio, creature animate e semoventi nel mito e nella tecnica degli antichi, Roma, L’«Erma» di
Bretschneider, 2003, pp. 86-88.
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Storie e racconti su “uomini di bronzo”, giganteschi esseri di pietra, informi (i golem), creature
meccaniche semoventi ed esseri inanimati, ma intelligenti, popolano da sempre le notti degli
uomini. Non è necessario aspettare gli artefici occidentali del XVII secolo perché fosse pensata la
possibilità che uomini meccanici, uomini non-uomini apparissero tra noi rendendosi disponibili
come servitori oppure comparendo, come in questo caso, come nemici. Il mito in questione, tratto
dalla raccolta di Robert Graves, ci racconta di Talos, creazione di Talos, discepolo del mitico
artefice Dedalo. Talos è un uomo di bronzo, capace di servire e insieme combattere; non è l’unica
creazione del mito ad aver elaborato qualcosa di simile.
Talos, l’uomo di bronzo, è un buon esempio di che cosa sia stata la “fase meravigliosa” nella storia
della robotica. In questa prima fase che, come si vede, racchiude più che una semplice epoca
storica, il contatto con l’automa è sempre qualcosa di straordinario, in sensi differenti a seconda del
momento storico preciso in cui questi automi vengono pensati e contestualizzati. La fase
meravigliosa difatti può essere a sua volta pensata come duplice, a seconda che se ne consideri
l’aspetto mitico, più lontano nel tempo e risalente al passato, oppure quello più recente, moderno e
quasi illuministico, da ascrivere a non prima del XVII secolo europeo.
Talos rappresenta chiaramente un esempio del primo tipo di meraviglia, la meraviglia mitica. In
questo caso, gli automi sono esseri stupefacenti i quali, benché prodotti da artefici di qualità
sovrumana – questo aspetto è comune anche alla seconda fase dell’età meravigliosa – hanno anche
in sé stessi qualcosa di divino e non è tanto il loro artefice il protagonista del meraviglioso insito
nella sua costruzione, ma la costruzione stessa. Talos è un essere originato da un artefice
sovrumano, ma anche in se stesso è degno di venerazione: la mano del divino e la mano
dell’artefice umano Talos concorrono in ugual misura alla creazione di un “uomo di bronzo” che ha
tuttavia poco dell’umano e molto più del divino.
Distinguere nettamente i confini tra la prima e la seconda parte della fase meravigliosa non è
sempre semplice: il passato mitico si confonde infatti con il futuro meccanico-illuministico e la
storia – soprattutto la storia del Rinascimento – ci ha lasciato diverse figure le quali non si potrebbe
dire se vadano fatte risalire all’ambito del divino, come nel caso della storia mitica, oppure alle
capacità sovrumane di un costruttore particolarmente abile, come gli automi francesi e viennesi del
XIX secolo, di cui si tratterà a breve.
Un caso perfetto di questa commistione è la figura del golem, creatura appartenente alla tradizione
ebraica. Dal bel saggio di T.A. Heppenheimer a riguardo:
«In un’altra serie di leggende, l’uomo fatto dall’uomo si pone di nuovo al centro della scena.
È questa la tradizione del golem, sorta nella seconda metà del Cinquecento, vari decenni dopo
23
la morte di Paracelso. La parola golem è talmudica; essa si riferisce a qualcosa di incompleto
o di informe, come un embrione o la massa informe di polvere da cui Yahweh creò Adamo.
Attorno al 1550 si diceva che Elia da Chelm avesse creato un uomo artificiale, chiamato
golem, con l’aiuto del nome ineffabile di Dio, le quattro lettere ebraiche corrispondenti a
YHWH. Si diceva che il golem fosse diventato un mostro che minacciava il mondo, finché
non gli fu tolto il sacro nome. Il nipote di Elia discusse, alla maniera dei dotti talmudici, la
questione se questo golem potesse essere incluso tra i dieci uomini del minyan, o quorum,
necessario per svolgere il servizio di culto. Trent’anni dopo si diffuse un’altra leggenda di un
golem. Si supponeva che esso fosse stato creato dal capo rabbino di Praga, Giuda ben Loew,
noto piuttosto irriverentemente come “l’alto rabbino Loew”. Il rabbino Loew fu un
personaggio storico, amico di Tycho Brahe e di Keplero. Nella vita reale fu un sobrio teologo,
uomo non incline a immischiarsi con la magia, ma la leggenda che circolava su di lui lo
presentava in termini molto diversi. Per proteggere il suo popolo dai pogrom, dice la
leggenda, Loew e i suoi due assistenti si recarono nel cuor della notte alla Moldava, e con
l’argilla della riva del fiume plasmarono una figura umana. Un assistente girò sette volte
attorno alla figura da sinistra verso destra. Loew pronunciò un incantesimo, e il golem
cominciò a splendere come il fuoco. L’altro assistente cominciò a sua volta a pronunciare i
suoi incantesimi girando sette volte attorno al golem da destra verso sinistra. Il fuoco si
spense, sulla testa della figura crebbero capelli e sulle sue dita si svilupparono unghie. Ora fu
la volta di Loew di compiere sette giri attorno alla creatura, mentre tutt’e tre cantavano parole
della Genesi. Quando Loew gli impresse sulla fronte il Sacro Nome, il golem aprì gli occhi e
venne in vita».
19
Questo brano sulla nascita del golem mostra perfettamente di quale commistione tra sacro e profano
sia capace l’età meravigliosa della storia della robotica. In questo preciso caso, al golem va ascritta
un’origine divina oppure un’origine artificiale, umana? Probabilmente è impossibile dare una
risposta univoca, poiché l’essere in questione è “meraviglioso”, per utilizzare il termine specifico
che è stato scelto, tanto perché è qualcosa più che un uomo il suo autore – Elia da Chelm, oppure il
rabbino di Praga, ben Loew – ma anche, e forse soprattutto, perché è la creatura stessa ad avere in
sé qualcosa di autenticamente divino, soprannaturale.
Rispetto alla fase più antica, quella del mito, nel corso del Cinquecento si evince chiaramente come
stia venendo alla luce sempre più la figura dell’artefice, inteso nel senso o di un “evocatore”, come
in questo periodo di mezzo, o come un vero e proprio creatore, vicario del divino e detentore della
19 Thomas A. Heppenheimer, L’uomo fatto dall’uomo (in Marvin Minsky, La robotica, tr. it. di Libero Sosio, Milano,
Longanesi&C., 1987, pp. 27-28)
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stessa fertilità creatrice, capace con le sue sole abilità di portare alla luce un essere nuovo, il quale
prima di lui o non esisteva affatto oppure era un semplice ammasso di materia, per nulla dotato di
vita. L’ultimo esempio di questo modalità intermedia di concepire la creazione di uomini artificiali è
certamente Mary Shelley, la quale, pur essendo vissuta in pieno XIX secolo, porta avanti la
tradizione semi-mitica della fase meravigliosa molto più che quella razionale e illuministica del
primo XVIII secolo.
Ma il golem è già una creazione tarda rispetto ad altre di quest’età di mezzo compresa tra il mito
antico e l’ingegneria meccanica degli artefici del XVIII secolo. Già il Medioevo infatti ci dà un
forte input con la leggenda delle teste parlanti, esseri di pietra in grado di essere evocati dai monaci
e di servire ai loro scopi, come nella leggenda attribuita a Ruggero Bacone, in cui quest’ultimo (che
ne è anche il protagonista), insieme a due complici, tenta invano di evocare una testa miracolosa
capace di ergere un muro intorno all’Inghilterra per proteggerla dagli assalti dei vichinghi.
Altri esempi molto famosi sono quelli dei vari famuli e dell’homunculus, creazioni a metà tra
l’organico e il divino, di origine alchemica, i quali sarebbero potuti essere formati secondo precise
formule (forse l’ultima volta in cui l’homunculus compare nella letteratura occidentale è il Faust di
Goethe). Anche in questo caso si ripresenta quella dialettica tra umano e divino che è propria
dell’età meravigliosa della robotica, e soprattutto del suo momento centrale, sospeso in perfetto
bilanciamento tra la sproporzione del divino, nel mondo mitico, e la scepsi illuministica del XVIII
secolo.
«Questi prodotti artificiali – la testa di ottone, l’homunculus e il golem – appartengono tutti a
quella che potrebbe essere chiamata l’antropologia della robotica. Non c’è accenno ad alcun
mezzo tecnico adeguato per la loro creazione, la quale doveva essere compiuta piuttosto per
magia. Queste leggende sono nondimeno importanti in quanto separano nettamente l’idea
dell’uomo fatto dall’uomo dal suo sfondo tecnico, consentendoci di concentrarci sulla sua
psicologia. L’idea dominante è che, nelle mani di un sapiente, qualsiasi cosa abbia forma
umana avrà il potere di un uomo. È interessante il fatto che, all’interno di quest’antropologia,
possiamo discernere un’evoluzione. La testa di Ruggero Bacone non era altro che una scultura
capace di parlare. Il golem di Loew doveva lavorare come un servitore, ma si volse con
ostilità contro il suo padrone. Con l’aggiunta di qualche nozione attinta alle scienze fisiche,
questo golem, nelle mani di Mary Shelley, sarebbe diventato il mostro di Frankenstein.
Parallelamente a questa paleontologia del robot, si ha una preistoria del robot come macchina,
una sequenza di invenzioni in parte reali e in parte mitiche. Nella preistoria del robot il tema
dominante è l’automa o uomo meccanico. Il suo fondo tecnico può essere fatto risalire
25
all’antica Grecia. Il prototipo della mano a pinza del robot fu l’artiglio meccanico delle
balestre dell’Antichità, che sostituivano le dita del balestriere, impegnando una robusta fune
così che essa potesse essere tirata all’indietro per essere liberata poi con un grilletto. Questa
balestre erano armi molto evolute e micidiali. Quando il generale spartano Archidamo ne vide
una in funzione, esclamò: “Per Ercole, il valore umano marziale non serve più!”».
20
La nota veramente importante nel passo citato consiste nell’evoluzione che Heppenheimer
attribuisce a quella che lui chiama “antropologia della robotica”, ma che qui è stata caratterizzata in
senso storico come una fase, la fase “meravigliosa” della storia della robotica. Questa fase infatti,
nonostante sia una preistoria, non va per nulla considerata come meno importante rispetto alle altre,
o come “solo preparatoria” in un senso denigratorio: pur espandendosi nel passato, in verità la fase
meravigliosa è uno sfondo costante, non qualcosa che possa essere superato “storicamente” dal
passaggio ad una fase successiva. La sua qualità principale è proprio quella di racchiudere in sé, in
germe, tutti quelli che saranno poi i passi fondamentali della robotica del futuro, nonché i suoi tratti
principali. La meraviglia, l’abilità meccanica e ingegneristica, la volontà di sfidare e superare i
limiti, l’attesa di qualcosa di più e molto altro sono tutti elementi già compresi in quest’età, alla
quale – più o meno consapevolmente – gli esperti del futuro si rifaranno per portare avanti le loro
creazioni.
Così, lungi dall’essere un semplice passato, l’età meravigliosa è più un’anticipazione che altro, il
che viene confermato nell’ultimo momento di questa fase, quello illuministico e razionalista, nel
quale la figura del geniale architetto-ingegnere viene alla luce nella maniera in cui la conosciamo
oggi. Il “genio” di origine romantica viene anticipato dal genio illuministico, l’autore a cui la
sapienza divina non serve più; tutto ciò di cui egli necessita, ora, è l’appropriata conoscenza delle
leggi scientifiche (meccaniche) necessarie a mettere in piedi un costrutto dalle apparenze umane o
animali, il cui compito è spesso, o addirittura sempre, quello di divertire e stupire gli aristocratici
dalla corte del re di qualche stato. Heppenheimer riporta un interessante esempio:
«Molti fra i primi automi furono opera di artigiani di corte, desiderosi di fornire ai loro
monarchi giocattoli o divertimenti insoliti. Attorno al 1540 il cremonese Giannello della Torre
costruì un automa in forma di una giovane donna che suonava il liuto, per alleviare la noia
dell’imperatore Carlo V. La donna poteva camminare in linea retta o in cerchio, mentre
pizzicava le corde e voltava la testa da un lato e dall’altro. All’inizio del Seicento due
ingegneri francesi, Isaac e Salomon de Caus, costruirono varie fontane ornamentali con figure
20 Ivi, p. 30.
26
mobili. In una delle loro opere più famose, un uccello appariva su un ramo e cantava con i
suoi prodotti da aria soffiata attraverso un vaso pieno d’acqua; ma quando un gufo meccanico
appariva su una roccia vicina, l’uccello fuggiva via in preda a un evidente terrore”.
21
Opere analoghe, più complesse dal punto di vista tecnico, ma sicuramente simili sotto il profilo
dell’esposizione e della funzione, sarebbero state prodotte nel XVIII secolo, soprattutto in Francia.
Il nome più famoso di quest’epoca è probabilmente quello di Jacques de Vaucanson, reso celebre
particolarmente da due delle sue invenzioni meccaniche: la prima è la cosiddetta “anatra di
Vaucanson”, in grado persino di assorbire modeste quantità di cibo e di espellerle sotto forma di
rifiuti come avrebbe fatto un qualsiasi animale reale. Un testimone contemporaneo, riporta
Heppenheimer, descrive così l’ingresso dell’anatra di fronte al pubblico raccolto a corte:
«Dopo ciascuna delle prestazioni dell’anatra c’era un intervallo di un quarto d’ora per
sostituire il cibo. Un cantante annunciava l’anatra. Appena il pubblico la vedeva arrancare per
salire sulla scena, tutti gridavano: Qua, qua, qua! Il divertimento raggiungeva il culmine
quando l’anatra beveva tre bicchieri di vino”.
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Oltre che per la sua anatra, Vaucanson fu noto anche per la creazione di due musicisti, un flautista e
un suonatore di tamburo, di cui però soprattutto il primo è rimasto celebre, a causa della maestria
con cui questo suonatore meccanico riusciva a riprodurre la melodia che Vaucanson stesso gli aveva
insegnato. Sempre la stessa, certo, ma suonata alla perfezione, come un musicista reale avrebbe
fatto. Secondo alcuni dei contemporanei, il flautista di Vaucanson superava, in maestria, gran parte
dei flautisti conosciuti all’epoca.
Non mancarono certo anche vari falsari. Wolfgang von Kempelen fu noto per aver condotto alla
corte di Vienna, presso Maria Teresa d’Austria, un automa, di sua costruzione, incredibilmente abile
nel giocare a scacchi, grazie al quale impressionava tutti i presenti battendo chiunque di volta in
volta gli si ponesse come avversario. La macchina era di costruzione esemplare: dal torace ampio
(molto ampio, si vedrà presto il perché), vestita in abito da turco, era persino in grado di scuotere il
capo quando l’avversario faceva una mossa sbagliata, oppure di annuire quando si avvicina la
possibilità di fare scacco matto. Il trucco era proprio nel petto ampio: per quanto possa sembrare
assurdo, infatti, all’interno della macchina si nascondeva un vero giocatore, un abile maestro di
scacchi proveniente dalla Polonia, il quale restava nascosto ora dietro un’anta, ora dietro l’altra anta
della cassa toracica, sfuggendo così agli sguardi degli astanti che venivano invitati a controllare che
21 Ivi, p. 33.
22 Ivi, p. 34
27
all’interno della macchina non ci fosse nessuno. Così, il povero avversario, credendo di disputare
una partita a scacchi contro una macchina, si trovava destinato a perdere contro un abile maestro
polacco, invisibile agli occhi del pubblico e quello della regina.
L’episodio di von Kempelen che è stato citato non intende semplicemente aggiungere un aneddoto
divertente a una raccolta di dati storiografici. In verità, questo episodio, oltre che essere
affascinante, si rivelerà essere molto importante perché anticipa la storia della robotica in almeno
due punti.
La prima di queste anticipazioni è nientedimeno che una delle critiche classiche che vengono
condotte nei riguardi dell’intelligenza artificiale, recentemente esemplificata da Searle con il suo
famoso “argomento della stanza cinese”:
23
la macchina imita e non esegue veramente lo stesso
comportamento che eseguirebbe un essere umano. Qui non si vuole attribuire né a Von Kempelen,
né al suo pubblico, idee, problemi e critiche che a uomini di tre secoli fa’ non sarebbero potuti
venire in mente; tuttavia, il fatto che nel XVIII secolo si sia iniziato a pensare non soltanto a
produrre macchine efficienti, ma macchine che, oltre a funzionare, rappresentassero effettivamente
qualcosa di umano, qualcosa dell’uomo, significa che il tempo in questo secolo era già maturo
perché si gettassero i primi semi della storia futura, della robotica per come noi contemporanei
siamo abituati a conoscerla. Lo si è già detto, la fase meravigliosa della robotica contiene in nuce
tutto ciò che, sparpagliato, lo si sarebbe ritrovato tempo dopo nelle varie scoperte “scientifiche” in
relazione all’intelligenza artificiale.
La seconda anticipazione è quella dell’interesse per il gioco degli scacchi. Fin dall’inizio della sua
storia (il primo tentativo è del 1912) la robotica ha prodotto tentativi di elaborare macchine capaci
di impegnarsi nel gioco degli scacchi: questo, infatti, ha la caratteristica di essere insieme molto
semplice e molto complesso, offrendo a dispetto di un set ridotto di pezzi e mosse elementari una
quantità enorme di mosse possibili. Questa commistione di semplicità e complessità ha da sempre
reso gli scacchi uno dei campi preferiti per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Questo stesso
impegno nel gioco degli scacchi porterà la robotica a risultati incredibili: nel 1997 Deep Blue,
l’ultima creazione della IBM, sarà in grado di battere in una partita di alcuni giorni l’allora
campione del mondo di scacchi, Garri Kasparov. Sempre dal testo di Heppenheimer:
«Questi automi esistono ancor oggi e sono in grado di funzionare. Quelli di Jaquet-Droz sono
conservati al Musée d’Art et d’Histoire di Nauchâtel, in Svizzera. […] In queste invenzioni
possiamo individuare molti caratteri degli attuali robot industriali programmabili. In
particolare, questi automi eseguivano in modo accurato e ripetitivo una sequenza di
23 L’argomento si chiama della “stanza cinese” poiché il protagonista, intento a fornire risposte a persone poste
all’esterno, è chiuso in una stanza e fornito di materiale per comporre risposte in cinese.
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