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INTRODUZIONE
Mon enfant, ma soeur,
Songe à la douceur
D'aller là-bas vivre ensemble!
Aimer à loisir,
Aimer et mourir
Au pays qui te ressemble!
Les soleils mouillés
De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.
Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.
Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l'ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,
Tout y parlerait
À l'âme en secret
Sa douce langue natale.
Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.
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Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l'humeur est vagabonde;
C'est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu'ils viennent du bout du monde.
- Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D'hyacinthe et d'or;
Le monde s'endort
Dans une chaude lumière.
Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.
Recito tra me e me questa poesia da quando la lessi per la prima volta, quindici anni
fa, e ne restai incantata; e in tutto questo tempo non sono mai riuscita a capire perché
le sue parole mi facessero pensare così tanto all’India. Per Baudelaire, l’Invito al
Viaggio è metafora del suo disagio di vivere in una società in cui non riesce a
riconoscersi, che non identifica come la propria patria e che non lo salva da quella
noia che è espressione del suo male di vivere. Fare un paragone fra me e forse il più
grande poeta francese dell’Ottocento mi sembra a dir poco azzardato, sebbene io
abbia sempre provato una sensazione di disturbo nel considerarmi “figlia” del mio
tempo e nell’identificarmi con la società in cui vivo, ma sono convinta che il
carattere evocativo e suggestivo di questi versi abbia risvegliato nella mia
immaginazione quel senso di evasione a cui essi alludono… perché mi facciano
immaginare di contemplare un tramonto indiano, piuttosto che un paesaggio nordico
– seppur comunque orientale – come l’autore voleva in realtà suggerire, resterà per
me sempre un mistero. Ad ogni modo, trovandomi ora a scrivere dell’India, la
melodia di questo componimento ha ripreso a echeggiare con un tale vigore dentro di
me, che condividere queste sensazioni mi è sembrato a un tratto indispensabile.
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Poesie, racconti, romanzi e diari sono in fondo istanti di vita, visioni personali del
mondo che gli scrittori impaginano e mettono a disposizione di chi in quel momento
è lì per parteciparvi; i lettori ne prendono atto e realizzano, a loro volta, tante, diverse
interpretazioni, ognuna a suo modo corretta, a seconda dell’esperienza personale di
ciascuno. E dunque è su tale concetto che si basa questa tesi. Tutti gli autori qui
menzionati hanno vissuto l’India a loro modo, e a mio modo io ho letto i loro
resoconti. Attraverso essi cercherò, nelle pagine che seguiranno, di rappresentare nel
modo più realistico ed esaustivo possibile, lo scenario che questo straordinario paese
offre ai suoi visitatori, dedicando però uno spazio adeguato al confronto tra la civiltà
indiana e quella a cui invece noi occidentali apparteniamo. Lo scopo è sviluppare un
dibattito costruttivo sulle differenze che indubbiamente esistono tra i due stili di vita
in questione e indurre nei lettori una riflessione critica sulle attuali tendenze di
origine orientale che sembrano aver raggiunto la nostra parte di mondo. A tal fine
affronterò tematiche piuttosto ampie quali la filosofia, la religione, la società, la
scienza e la medicina per ricercare all’interno di ogni singolo ambito i punti di
divergenza e quelli di convergenza e i riflessi della cultura indiana nella nostra vita.
Ciò che scriverò in seguito, quindi, sarà per quanto mi è possibile obiettivo e privo di
pregiudizi, ma certamente opinabile per coloro che non condividono il mio modo di
vedere il mondo. Spero comunque di riuscire a trasmettere ciò che gli autori
intendevano raccontare, ciò che io ho compreso delle loro parole, le emozioni che
essi hanno provato e quelle che in me hanno suscitato.
Il fatto che il popolo indiano si sia sempre curato molto poco della storia, tanto da
non essersi preoccupato di tramandare la propria, in forma ufficiale e scritta, ai
posteri, è piuttosto risaputo; o se non altro, diversi autori europei entrati in contatto
con questa realtà, hanno notato e fatto notare ai lettori questa particolarità nei loro
scritti. La veridicità di questa affermazione può essere provata esaminando la
filosofia, la religione e il costume di questo territorio, che pur essendo impregnati di
“tradizione”, sembrano restare costantemente superiori al concetto di “tempo” come
lo intendiamo noi occidentali.
Dal punto di vista hindū, la storia non è tanto narrazione di eventi accaduti nel tempo, quanto piuttosto
ripetizione fino alla noia del valore di una ‹‹norma›› (dharma) intrinseca all’umano agire e che di esso
è al tempo stesso garante e leggittimatrice. La storia è per loro ciò che per noi è il mito, cioè una
proiezione, cioè una proiezione in eventi tanto più reali quanto più sono collocati fuori del tempo […]
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storia di un itinerario interiore e spirituale di realizzazione di sé, cronaca di un salto di qualità capace
di condurre l’individuo dalla sfera del relativo a quella dell’Assoluto.
1
Tuttavia, per avere un quadro più chiaro della cultura indiana e delle influenze a cui
essa è stata soggetta nel corso dei secoli, ritengo sia opportuno riportare, anche in
poche pagine, gli avvenimenti principali che hanno scandito l’evoluzione della
stessa. Ciò agevolerà, a mio parere, anche la comprensione di ciò che l’India è
attualmente diventata, di come sia arrivata ad assumere i caratteri odierni e di cosa
dell’antica essenza è invece rimasta immutata.
Le primissime informazioni che ci sono pervenute risalgono al tempo in cui la
potenza ellenica era ancora viva e influente e l’Impero Romano intratteneva con
l’India floridi rapporti commerciali, sia marittimi che terrestri, che riguardavano
principalmente spezie e vino, gemme, legni esotici come il teak, ma soprattutto
tessuti. Dalle antiche fonti letterarie, che recano le testimonianze di storici romani
come Plinio il Vecchio e Svetonio, si è potuto constatare che il periodo di massimo
fulgore si ebbe tra il I e il III secolo dopo Cristo e, dopo una pausa, nel VI secolo
dopo Cristo.
Senza dubbio, la figura più nota e significativa dell’antichità è quella di Alessandro
Magno, non solo per le sue campagne militari volte alla conquista del territorio
indiano, ma soprattutto per le conseguenze che le sue imprese ebbero nella storia del
subcontinente.
A partire dai primi decenni del 300 a.C., i resoconti degli ambasciatori greci in India
e dello stesso Alessandro Magno costituirono un prezioso corpus di informazioni
sull’India disponibili all’occidente non solo in epoca antica, ma anche durante il
Medioevo.
Sebbene le forze musulmane avessero iniziato a far sentire la loro presenza in India
già tra il VII e l’VIII secolo dopo Cristo, fu dopo il XII secolo che la loro influenza si
manifestò con il tipico, impressionante e pervasivo impeto, praticamente su quasi
tutto il suolo indiano; almeno fino all’arrivo di un’altra prorompente forza militare,
quella dell’esercito mongolo, all’inizio del 1500. L’impero Moghul, fondato da
Babur, nonostante le lotte per la successione al trono e gli scontri militari con le
1
Cfr. Stefano Piano, Primo incontro con l’India, Torino, Manganelli, 2002, p. 48
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potenze nemiche, resistette fino al 1700. Molti dei sovrani mongoli e islamici che si
avvicendarono in questo periodo – tra cui Akbar e suo figlio Salim, mecenate delle
arti e autore di interessanti memorie, e il più noto Shah Jahan, l’“architetto”
dell’impero, che volle la costruzione del Taj Mahal e la ristrutturazione del forte di
Agra – ebbero particolare cura della cultura, della storia e delle arti, tanto da rendere
la loro civiltà prospera e lo “stile Moghul” noto e apprezzato fino ai giorni nostri. Il
periodo di declino dell’impero iniziò quando, anche a causa dell’ascesa delle potenze
europee in India, la sua autorità e le infrastrutture statali sulle quali si basava la
stabilità economica, iniziarono a sgretolarsi, lasciando i grandi mercanti privati alla
mercé di briganti e funzionari corrotti e compromettendo gravemente la rete
commerciale interna indiana. Questa situazione di difficoltà giovò soprattutto alle
Compagnie europee che, provviste di basi commerciali fortificate e navi armate,
ebbero la possibilità di fiorire ed espandersi ulteriormente.
Sin dal ‘500, infatti, mentre Babur effettuava le sue prime incursioni verso l’India
attraverso l’attuale Afghanistan, il dominio marittimo dell’Oceano Indiano era già
nelle mani dei Portoghesi insediatisi a Goa, che detennero il monopolio nel
commercio – soprattutto del pepe indiano – con l’Occidente fino al secolo
successivo, quando furono soppiantati dagli Olandesi che nel 1602 fondarono la
Compagnia delle Indie Orientali, due anni dopo la nascita della Compagnia delle
Indie inglese, ancora in fase di sviluppo ma destinata di lì a poco ad esercitare
pienamente la sua egemonia commerciale.
Anche la Francia, verso la metà del secolo, fondò una sua Compagnia delle Indie
Orientali, ma trovò gli olandesi ad ostacolarne la crescita, per cui dovette bloccare le
sue mire espansionistiche almeno fino al 1685.
Qualche decennio più tardi, infatti, Francia e Gran Bretagna si sarebbero affrontate in
una guerra per la supremazia commerciale che le vide antagoniste per circa
vent’anni. In quel periodo, i due Stati europei iniziarono a intromettersi anche negli
affari politici e militari indiani, alleandosi con i sovrani che si muovevano guerra e
facendo spesso in modo da incoraggiarne gli scontri; cominciarono ad addestrare
i mercenari indiani e a creare veri e propri eserciti privati.
Da qui in poi, per noi occidentali, le vicende dell’India iniziano a essere
progressivamente sempre più rilevanti, dal momento che proprio tra il Settecento e
l’Ottocento si verificarono quelle condizioni e quegli avvenimenti che avrebbero
caratterizzato maggiormente il nostro rapporto con l’India nella storia moderna. Più
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il potere dell’impero britannico in India cresceva, infatti, più i conquistatori
sentivano il bisogno di collaboratori e uomini d’affari indigeni per creare un sistema
di governo stabile e duraturo.
Ma i contatti tra i due popoli non si limitarono a questo: i resoconti dei viaggiatori
europei del tempo testimoniano infatti come i funzionari e i mercanti inglesi in India
all’inizio dell'Ottocento, si mescolassero liberamente con gli indiani a livello sociale,
convivessero spesso con donne indiane e, nelle occasioni non ufficiali, adottassero
abiti indiani e coltivassero forme di ricreazione tipiche delle classi agiate locali. Non
meno degno di attenzione è il fatto che, per l’Occidente, l’abitudine alla pulizia, l'uso
dello spazzolino da denti e del dentifricio, quello del pigiama e della biancheria
intima, furono acquisizioni derivate dalla cultura indiana e verificatesi nel corso del
Settecento. Lo stesso vale per l'uso del reggiseno da parte delle donne europee che,
come dimostrano varie testimonianze dell'epoca, è un prestito culturale proveniente
dall'India.
Con l’abolizione della Compagnia delle Indie Orientali e la conversione della
Compagnia inglese in organo finanziatore dei nuovi imprenditori indiani, che
dovevano versare regolarmente i tributi a Londra, all’alba del XIX secolo, l’autorità
britannica in territorio indiano raggiunse il massimo livello consentito. Nel 1876, la
Regina Vittoria si proclamò Imperatrice d’India e insignì il governatore Hastings
della carica di Viceré. I coloni inglesi si impegnarono in una poderosa opera di
riorganizzazione delle strutture dell’impero, puntando per esempio sull’educazione
delle nuove generazioni indiane secondo i parametri culturali europei, con lo scopo
di creare una nuova classe professionale più funzionale alle necessità della corona;
furono soppresse alcune antiche usanze indigene, talvolta crudeli e disumane ai
nostri occhi, come la Sati (l’uso di sacrificare la vedova facendola ardere sulla stessa
pira dello sposo defunto) o l’uccisione delle neonate.
In questo contesto storico e culturale si colloca l’opera di uno dei più grandi autori
inglesi, sebbene nato a Bombay, dell’Ottocento: Joseph Rudyard Kipling. Se con i
suoi due racconti probabilmente più amati da grandi e piccini, Il Libro della Giungla,
lo scrittore inizia a delineare le problematiche del rapporto tra la natura selvaggia
fondata sugli impulsi esistenziali e la civiltà e la legge morale, simbolo della cultura
vittoriana, è con il romanzo Kim che Kipling riproduce una più completa
rappresentazione del conflitto tra i valori religiosi delle antiche civiltà asiatiche e
quelli del razionalismo europeo. La storia di Kimball O'Hara, tredicenne orfano di un
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sergente irlandese cresciuto a Lahore come ogni ragazzo indiano povero, si dispiega
tra le polverose strade di città indiane e i monti e le vallate incontaminati, fino a
Benares e poi lungo la Grand Trunk Road. Nel corso della narrazione Kim darà
prova della sua scaltrezza e della conoscenza delle consuetudini indiane come di
quelle inglesi, tanto da porsi come ponte tra le due civiltà e come uno dei primi
esempi di cittadini dell’impero, più che di una delle due nazioni.
La progressiva anglicizzazione degli indiani, tuttavia, ebbe effetti imprevedibili sulla
stabilità politica, dal momento che i rampolli della classe abbiente indiana, mandati
in Gran Bretagna per perfezionare i loro studi e tornare in seguito in patria
occidentalizzati nei modi, nelle idee e nel modo di pensare, finirono per costituire la
nuova classe nazionalista del Paese, che diede vita a organizzazioni politiche e
intellettuali di stampo sovversivo. Emblema di questo nuovo scenario indiano fu
l’Indian National Congress, fondato a Bombay nel 1885.
Gli anni successivi furono caratterizzati da una crescente tensione nelle questioni
politiche indiane, con l’estendersi del sentimento nazionalista a fasce sempre più
ampie della popolazione, la fondazione della Lega Musulmana nel 1907 e la crisi
economica che diventava via via più grave. In questo scenario, e sullo sfondo della
Prima Guerra Mondiale, fece la sua comparsa una delle personalità più rivoluzionarie
e influenti della storia non solo indiana, ma dell’intero pianeta: Mohandas
Karamchand Ghandi, che basandosi sul concetto di satyagraha, ovvero “aderenza
alla verità”, diede vita al primo esperimento di resistenza passiva e non cooperazione
su scala nazionale.
Le battaglie non convenzionali che il Mahatma dovette affrontare per giungere alla
proclamazione dell’indipendenza indiana nel 1947 e ciò che avvenne in seguito al
suo assassinio da parte di un estremista indù l’anno successivo è storia ben nota. La
diffusione sempre più capillare dei mezzi di comunicazione di massa e poi della rete
Internet ha fatto sì che chiunque in qualunque nazione del mondo abbia potuto
seguire l’evoluzione delle sorti politiche ed economiche in India, in particolare dal
governo semi-dittatoriale di Indira Gandhi a oggi. Ognuno ha potuto sviluppare
un’opinione personale in merito alla gestione del potere nella Repubblica Indiana,
per questo motivo vorrei lasciare che fosse Tiziano Terzani, con il suo stile sempre
penetrante e acuto, a commentare gli ultimi settant’anni circa di storia indiana. Ne La
fine è il mio inizio suo figlio Folco riporta un dialogo col padre piuttosto significativo
a questo proposito:
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Che tempo è stato il nostro! Tu pensa, Folco, com’era la civiltà occidentale borghese, appena
industrializzata, che affronta la Prima guerra mondiale. Madonna, un disastro, uno sgomento morale
da tutte le parti!
Alla fine di quella guerra l’Europa era devastata e non soltanto fisicamente. Come poteva questa
nostra civiltà essere arrivata a questo: le trincee, i gas, i milioni di morti? Per niente. Fu un periodo di
grandissima crisi. È il periodo in fondo in cui compare Gandhi sulla scena mondiale e un sacco di
europei, alcuni proprio affascinati […] vanno alla ricerca di qualcosa che possa contribuire alla
rinascita dell’Europa, alla rivitalizzazione di quelli che erano i valori – non i valori europei, i valori
umani – per tappare il buco dello sgomento morale che era immenso.
Cominciò allora questa ricerca dell’India con la speranza che ci fosse ancora in Asia, e
particolarmente in India, qualcosa di vero e di genuino a cui l’Europa potesse attingere per rimettere
in moto il suo spirito distrutto. […] Loro almeno la vedevano così, vedevano l’India come il paese che
avrebbe aiutato l’Europa a salvarsi. […]
FOLCO: Forse il più grande lume di tutta questa India nuova è stato Gandhi, no? E tu a un certo punto
ti sei messo a studiare le opere di Gandhi abbastanza a fondo.
TIZIANO: Sai, erano cominciate a uscire in Europa le sue opere, che io leggevo religiosamente per
vedere di trovarci […] un messaggio per la nostra civiltà. Un po’ per scherzo, un po’ non troppo per
scherzo io l’ho identificato nel digiuno, nel ritorno alla semplicità.
Tu pensa, un uomo, avvocato di successo, che ha studiato a Londra e che decide di identificarsi
completamente con la sua gente! Che si identifica con la gente dei villaggi, con la loro povertà, col
loro modo di sentire, col loro modo di vivere, che si alza alle quattro del mattino, pulisce i gabinetti, si
mette a filare, e poi prega. Ah, che forza, che forza! Mangia soltanto una ciotola di riso e appena si
ammala invece di prendere medicine fa il digiuno. Pensa, questa sua idea di risolvere i problemi a
livello di villaggio, questo negare la modernità! C’è un discorso che Gandhi fa nel 1909 in cui si
guarda attorno e si chiede ‹‹Cos’è la vera civiltà? La civiltà nasce da un tipo di comportamento che
indica all’uomo il sentiero del dovere […] Raggiungere la moralità significa raggiungere la
padronanza della nostra mente e delle nostre passioni››.
È civiltà questa inglese, occidentale, si chiede, che misura il progresso in quanti più abiti la gente ha?
In quanto più velocemente si sposta? Non bastano all’uomo un tetto sopra la testa, un pezzo di stoffa
attorno ai fianchi? [….] C’era l’idea di salvare un mondo che non voleva cedere al consumismo.
Perché diciamo le cose come stanno: al consumismo! E l’unica via era quella del non consumare, del
digiuno!
2
E poi, a proposito dei cambiamenti avvenuti in seguito alla morte del Mahatma,
Terzani aggiunge:
2
Cfr. Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio, Milano, Longanesi, 2006, pp. 349, 396, 397
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Allora, l’ultima mia grande delusione è l’India. Io vado in India a cercare la soluzione, esterna in
verità, perché l’India ha questo grande capitale di ahimsa – la non violenza, Gandhi, i rishi – e da
bravo giornalista mi occupo della politica, per scoprire che è peggio di quella degli altri. Un paese con
una forza morale come l’India, Dio bono, che aveva un capitale incredibile nel ‘49! Tu non ti puoi
immaginare cos’era l’immagine dell’India, di Gandhi, ‹‹quel vecchio fachiro vestito di stracci›› che
col suo bastone saliva le scale del potere britannico a Londra. […] Appena muore – paff! tutto viene
rovesciato. […] Vogliono lo sviluppo, i treni, le fabbriche, le acciaierie. E poi la bomba atomica,
l’India! L’India che aveva la bomba atomica morale. […]
Tu vedessi, il giorno che annunciarono la loro bomba atomica! Pareva, Dio bono, che fossero arrivati
sulla luna, Apollo 13. La gloria dell’India! Benissimo, l’India ha il diritto ad avere la bomba atomica,
se la vuole […] ma non sarebbe stato, Madonna, moralmente molto più imponente un’India che
dicesse ‹‹Noi la possiamo fare ma non la vogliamo. Perché la bomba distrugge tutto, perché è il
controsenso di tutto quello in cui crediamo, di ahimsa››. Ahimsa, ahimsa, ahimsa, non provocare
dolore, non provocare miseria, non provocare danno.
3
Vari autori, tra cui Stefano Piano, sono concordi sul fatto che l’industrializzazione e
l’occidentalizzazione indiana abbia rappresentato una snaturalizzazione dell’essenza
di questo grande paese. E con le conoscenze storiche di cui siamo provvisti oggi,
ritengo risultino particolarmente interessanti le parole di un indù sostenitore della
linea politica di Gandhi, riportate da Vittorio G. Rossi e di certo pronunciate
precedentemente alla prima pubblicazione del suo libro, avvenuta nel 1941:
‹‹Quale strada abbiamo infatti preso per cercar di arrivare alla nostra indipendenza politica? Una
strada indiana, è naturale, perché ogni popolo fa la sua storia coi materiali che ha. E la strada, come
sapete, è questa: dire di no, non fare, non aiutare a fare. Per voi, rivolta vuol dire azione violenta,
spinta in avanti, spalancata collisione. Noi invece abbiamo predicato il satyàgraha, che significa
insistere per la verità ma senza adoperare la forza fisica, senza violenza e scontro aperto di forze,
bensì con l’ahimsà, l’amore, soffrire senza lamentarsi, sopportare senza ira, disobbedire a chi con ira
comanda.
‹‹Io non mi intendo di politica; sono, modestamente, un entomologo, faccio collezione di farfalle. Ma
penso che in qualsiasi luogo dell’occidente un programma di ribellione come questo avrebbe fatto
ridere; in India, qui, è cosa serissima, schietto prodotto dello spirito indiano, perfettamente in armonia
con la visione e valutazione indiana della vita […]
‹‹E l’azione per l’indipendenza economica, la suadescì?›› seguitò Pragiàpati. ‹‹Anche qui, rinunziare,
tirarsi indietro, dire di no. Rinunziare all’alcool, veleno occidentale; rinunziare alle macchine,
3
Ibidem, pp. 414-416
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diabolica creazione occidentale; e tornarsene pieni di rustica innocenza come Filemone e Bauci
all’antico telaio e all’antica conocchia.
‹‹Comprendete il ragionamento indiano? Abolire i bisogni occidentali degli indiani, e così saranno
tolti di mezzo gli occidentali che provvedono a soddisfare questi bisogni. Da voi, nella civiltà
occidentale, la quale cerca instancabilmente di moltiplicare i bisogni dell’uomo, un ragionamento
simile non troverebbe, penso, tre persone disposte a prenderlo sul serio; in India, dove lo spirito
dell’uomo è orientato e mosso verso l’abolizione o la riduzione al minimo dei bisogni, questo
ragionamento fa presa sulle masse.››
4
Le parole dell’indù di Rossi suonano oggi impietosamente anacronistiche. La politica
filosofica gandhiana, alla quale le righe riportate certamente si riferiscono, è stata
scalzata dall’inarrestabile corsa dell’India verso l’occidentalizzazione – o
dell’occidentalizzazione verso l’India? – e di essa è rimasto poco più che un ricordo
romantico. Per fortuna però, Pragiàpati si sbagliava almeno su una cosa: il concetto
dell’eliminazione (o della diminuzione) dei desideri umani, in particolare negli ultimi
decenni, ha incontrato in Occidente il consenso di ben più di “tre persone”. La
direzione di questi giovani movimenti sociali e i traguardi che questi raggiungeranno
sono per lo più storia futura, ma la loro esistenza vale se non altro come consolazione
per quanti – come l’idealista indù del libro – hanno creduto fermamente che suadescì
e satyàgraha fossero più che mere utopie.
Concluderei questo excursus ancora una volta con le parole di Tiziano Terzani, che
nel 2004 si esprimeva in questi termini riguardo alle sorti della democrazia indiana e
alla discutibile legittimità del governo al potere:
La democrazia è ormai un sistema che premia soprattutto la banalità e le bugie pubblicitarie, non la
saggezza e l’impegno morale. È l’assurdità di questo sistema che, ad esempio, fa oggi di Sonia
Gandhi, una brava signora piemontese, il possibile prossimo primo Ministro della ‹‹più grande
democrazia del mondo››, come l’India si definisce. Un paese di oltre un miliardo di persone ha
bisogno per essere governato di un’italiana che non parla neppure bene la lingua nazionale? Sì, perché
sul libero mercato dei voti la sua ‹‹vendibilità›› sta nell’essere la vedova di Rajiv Gandhi, diventato
primo Ministro (e come tale assassinato) perché figlio di Indira Gandhi, che a sua volta era diventata
primo Ministro (e come tale assassinata) perché figlia di Nehru. Lui almeno era diventato primo
Ministro perché designato da Gandhi, il Mahatma. Sonia Gandhi parente di Gandhi? Niente affatto,
4
Cfr. Vittorio G. Rossi, Cobra, Milano, Mondadori, 1970, pp. 142-144
14
ma nella memoria mitica della gente lo è perché hanno lo stesso cognome. Ma ce l’hanno perché
Indira, nata Nehru, fece astutamente cambiare in ‹‹Gandhi›› il cognome dell’uomo che aveva sposato
e che, essendo un parsi, si chiamava … ‹‹Gandy››.
Povero Gandhi, ormai completamente dimenticato! Si vestiva come un contadino, viveva di nulla e
sognava un paese libero e indipendente, né capitalista né comunista, un paese che fosse l’espressione
dei milioni di villaggi che per lui rappresentavano la vera, eterna anima dell’India. Era per il piccolo,
non per il grande. Era per l’uomo, non per la macchina, per ciò che è naturale e non artificiale.
‹‹Quando il trattore potrà essere munto, quando il suo sterco potrà essere usato come concime e come
combustibile, lo preferirò alla vacca››, diceva. Aveva viaggiato in lungo e in largo; conosceva bene il
suo paese e la sua gente. […]
La de-gandhizzazione dell’India cominciò con Nehru che lo stesso Gandhi, commettendo forse uno
dei più grandi errori della sua vita, aveva scelto come suo successore. Nehru era il contrario di
Gandhi. Era raffinato. Era elegante. Era contro il ‹‹piccolo›› e per il ‹‹grande››: grandi industrie,
grandi dighe, grandi fabbriche. Persino un grande amore: per Edwina, la moglie inglese
dell’inglesissimo viceré dell’India, Lord Mountbatten, non per una semplice indiana.
Questa del ‹‹grande›› è rimasta l’aspirazione politica di quasi tutti i governi di Delhi dopo
l’indipendenza. E più passa il tempo più l’India diventa, per molti versi, un paese come tutti gli altri,
con un grande esercito, grandi armi (comprese quelle atomiche) e il sogno di essere una grande
potenza. Sempre meno radicata nei villaggi la cui purezza era l’ideale di Gandhi, l’India sta
coinvolgendosi sempre di più col villaggio globale che di puro ha solo l’ingordigia.
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Storia e politica a parte, cos’è dunque l’India? Qual è il segreto della sua
indecifrabile bellezza e del suo fascino irresistibile? Scrittori e uomini avventurosi di
ogni epoca si sono posti queste domande, e sono partiti in cerca di risposte. I loro
innumerevoli scritti sono la nostra eredità, e a partire da questi possiamo oggi
delineare i tratti principali dei volti dell’India che nel tempo sono stati disegnati.
Già nel 1917, in Italia veniva pubblicato uno dei più interessanti diari di viaggio,
quello di Guido Gozzano, che partì in India per cercare una cura alla tubercolosi che
lo affliggeva e finì per vivere un’esperienza che avrebbe influenzato profondamente
la sua produzione letteraria: Verso la cuna del mondo. E come accade spesso a chi si
confronta con l’India, l’avventura del viaggio si rivelò essere anche un’occasione per
affrontare uno dei temi cruciali per gli uomini occidentali: la morte. Quella che
l’autore definisce “la cuna del mondo” si rivela ai suoi occhi in tutta la sua selvaggia
e contraddittoria realtà, quasi deludente con le sue sfaccettature eterogenee e
5
Cfr. T. Terzani, Un altro giro di giostra, Milano, Longanesi, 2004, pp. 381,382