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INTRODUZIONE
Alla base del presente lavoro riposa una nuova e importantissima concezione che si è
fatta largo negli ultimi anni nel mondo del consumo e non solo. Soggetti principali di
questa visione sono la marca e tutto l’insieme delle manifestazioni concrete e non che
la caratterizzano. Nata come semplice tratto identificativo e distintivo che potesse
differenziare i prodotti e i servizi che popolano l’affollato panorama del consumo,
essa ha subìto negli anni numerose trasformazioni che l’hanno portata in una
posizione privilegiata di contatto con il suo pubblico di consumatori e, oggi come
oggi, di interattori. Difatti grazie alle numerose innovazioni messe in atto in questi
ultimi anni caratterizzanti il settore della comunicazione, di cui ha migliorato
soprattutto l’efficacia dell’interazione reciproca, molti soggetti, con le aziende e il suo
variegato pubblico di riferimento in prima linea, hanno potuto beneficiare di
rinnovate modalità con cui interfacciarsi reciprocamente traendo un vantaggio
considerevole in termini di awareness e informazione. Stiamo parlando ovviamente
della rivoluzione messa in atto dall’avvento di uno strumento fondamentale come
Internet il quale ha favorito lo svilupparsi di una nuova coscienza del consumo e
soprattutto di un nuovo approccio alla comunicazione commerciale da parte di
consumatori e marche. Il dialogo ora come ora risulta essere il metodo più funzionale
ed efficace per instaurare una relazione duratura e fiduciaria con il pubblico, in luogo
dell’oramai vetusta modalità one to many. Tuttavia il cambiamento in atto non ha
ancora assunto le forme della regolarità, difatti se le maggiori aziende e compagnie
nazionali e multinazionali hanno compreso per tempo l’importanza del modello
comunicativo in questione implementando progetti che ricalchino al meglio le
modalità relazionali che oramai i consumatori richiedono a gran voce, molte altre
sono ancora sulla lenta via del cambiamento.
La rivoluzione del mondo della comunicazione risulta essere però, come già
accennato, solo la punta dell’iceberg di un processo molto più specifico e profondo
che ha cambiato, e sta cambiando, il modo di intendere e di relazionarsi al brand in
sé. Tali dinamiche, che saranno esclusivo oggetto di approfondimento del primo
capitolo, verranno spiegare in maniera esaustiva a partire dal riferimento a quello che
4
disse in tempi non sospetti Jean Francois Lyotard filosofo francese nonché uno dei
maggiori esponenti dell’apparato teorico che ha avuto il merito di introdurre il
termine di “post-modernità”. Nella sua opera La condizione postmoderna. Rapporto sul
sapere (1979) uno dei passaggi più interessanti è proprio quello che mette in evidenza
lo scetticismo che stava già a quei tempi prendendo piede nei confronti di quelle che
venivano definite meta-narrazioni, ossia le idee astratte caratterizzate da una forma più
o meno trascendente di verità ritenuta universale le quali grazie al loro carattere
totalizzante e globalizzante avevano il compito di organizzare l’esperienza storica e la
conoscenza degli uomini. Un classico esempio di meta narrazione corrisponde alle
grandi ideologie filosofiche, politiche e religiose guidate ognuna di esse da una
peculiare visione del mondo stante alla base del loro agire e del loro modo di pensare.
Ebbene Lyotard alle porte degli anni 80 mise in evidenza proprio l’incrinarsi
inesorabile del dominio di queste narrazioni che stavano per lasciare il posto ad entità
completamente diverse, ma che avrebbero avuto il compito di supplire alle loro
funzioni. È proprio la marca oggi come oggi a farsi garante della fornitura di progetti
e costrutti valoriali che possano aiutare nella organizzazione dell’esperienza umana
sociale e culturale. Il suo carattere pervasivo senza dubbio gioca un ruolo
fondamentale in questo processo. Difatti la marca col passare del tempo si è staccata
dallo status di semplice qualifica differenziante del prodotto rispetto a quelli dei
competitors; se infatti negli anni 90 era proprio l’output al centro delle strategie
comunicative aziendali, al giorno d’oggi, complice anche la natura totalmente
indifferenziata del palcoscenico commerciale di qualsiasi settore, a farsi portatore,
custode e comunicatore principale dei valori aziendali è divenuto proprio il brand. La
comunicazione cosiddetta corporate attualmente ricopre una percentuale importante
delle strategie comunicative, così come risulta altrettanto determinante per le aziende
lo stabilire dei valori che possano fungere da punto di riferimento sia per esse che per
il loro pubblico. Tali valori non saranno più fortemente ancorati alle specificità
funzionali dell’output di riferimento di un brand, bensì prenderanno a piene mani da
ciò che offre loro il contesto socio-culturale in cui sono calati. Eccoci dunque a
quello che aveva teorizzato qualche anno fa Lyotard: nel momento in cui vengono a
mancare punti di riferimento fondamentali, ecco che le marche entrano in gioco
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ergendosi dal loro specifico settore commerciale ed allargando di molto i confini del
loro raggio d’azione.
In questo panorama risultano quanto mai utili ed attuali alcuni tra gli studi semiotici
più celebri i quali hanno avuto il precipuo compito di analizzare i valori che
contraddistinguono i brand, calando alcune tra le teorie fondative della materia nel
campo del marketing. Nel secondo capitolo si farà dunque riferimento ai lavori di
semiologi quali Jean Marie Floch e Gianfranco Marrone che hanno avuto il merito di
andare per primi a fondo nello studio del cosiddetto “discorso di marca”, ossia
dell’intero portato valoriale con cui questa si interfaccia al suo pubblico. Alla base dei
loro studi le teorie relative alla branca della semiotica che ha avuto come maggiore
esponente il lituano Algirdas Julien Greimas e conosciuta con il nome di semiotica
generativa, la quale costituirà la parte fondante ed una delle colonne principale di
questo lavoro. Partendo dalle intuizioni di Greimas e dalle sue analisi del testo
attraverso tre livelli di profondità, Floch e Marrone sono riusciti a mettere a punto
alcuni tra gli strumenti di analisi più validi per “entrare” nella marca e sondarne le
specificità valoriali che guidano il suo stile e la sua strategia comunicativa.
Facendo debito riferimento a tali teorizzazioni il lavoro in questione si propone di
mettere in atto una analisi semiotica riferita a due brand leader di un settore
particolare – nel prosieguo della tesi avremo modo di capire perché - come quello
della orologeria di lusso: Rolex ed Omega. L’analisi sopra menzionata occuperà i
capitoli tre e quattro e verterà principalmente, dopo aver affrontato una dovuta
panoramica sulla storia di entrambe le maison condita da brevi cenni sulle rispettive
strategie comunicative, sulle declinazioni del discorso di marca individuate da
Marrone nel suo libro, dal nome altamente evocativo, Il discorso di marca (2007). Il fine
sarà il collocamento dei brand esaminati all’interno di due classificazioni. La prima
messa a punto da Floch, il cosiddetto “quadrato dei valori del consumo”, e l’altra
introdotta dallo stesso Marrone, autore della speciale classificazione dei generi del
discorso di marca.
Nelle conclusioni troverà spazio un confronto di massima tra ciò che emerso dalle
due analisi e dalle rispettive classificazioni, ossia tra i valori di riferimento su cui i due
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brand ginevrini insistono e sui quali costruiscono giorno dopo giorno le proprie
strategie di interazione.
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Capitolo I – La marca tra antico e (post)moderno
I.I In che epoca siamo?
Questa domanda se collocata in un contesto quotidiano ha una facile ed intuibile
risposta. Inquadrandola invece in uno più settoriale, ma neanche tanto, come può
essere quello del consumo appare d’altro canto più che mai pertinente ed aperta a
diverse correnti di pensiero.
Seguendo una di queste, per la precisione quella rifacentesi all’avvento di un’epoca
definita post-moderna dal sociologo Giampaolo Fabris
1
, si può affermare che nuovo è
senz’altro un aggettivo calzante, sebbene ancora troppo generalizzato, per descrivere
le dinamiche dei protagonisti del consumo quali marche, fruitori di queste e
consumatori veri e propri. Nuova è soprattutto l’accezione del consumo in se che
perde, per forza di cose, gran parte della terminologia usata per indicare tutte le sue
varie componenti e declinazioni nell’epoca dagli anni 80 al 2000. In particolare non
regge più la nozione di consumo etimologicamente correlata a quelle di distruzione,
logorio, usura di un determinato bene, retaggio di un’epoca nella quale la consunzione e
la progressiva distruzione di questo erano necessari a che il consumatore ne potesse
ricavare utilità e godimento. Una definizione di consumo di tal genere era anche
strettamente legata alle tendenze del mercato. L’idea di un bene che dopo un definito
numero di utilizzazioni subisse danni provocati dall’usura e dovesse essere sostituito
da un nuovo modello si incastra alla perfezione con il bisogno delle aziende di
piazzare i suoi output agevolmente creando un circolo virtuoso (per le imprese)
eliminando o almeno limitando il pericolo delle giacenze.
Ma come detto questa nozione non ha più motivo di sussistere e risulta anacronistica
di fronte alla diffusione di nuovi tipi di beni durevoli e semidurevoli, ma soprattutto
alla incalzante dematerializzazione di questi. Non a caso “Società dei servizi” è
un’altra delle nomenclature che i vari studiosi usano per riferirsi all’epoca in cui ci
stiamo inoltrando. Mettendo dunque da parte i concetti di bisogno ed utilità il
1
Fabris G., Il nuovo consumatore. Verso il postmoderno, FrancoAngeli, 2010.
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consumo si orienta, facilmente coadiuvato da questa dematerializzazione dei beni,
verso uno status di metalinguaggio dotato di una grammatica, di una sintassi e di un
sistema di regole tramite cui riusciamo a comunicare molto di noi stessi alle persone
che ci circondano e con cui ci interfacciamo sia quotidianamente che
occasionalmente. Appare intuitivo che una tale visione sia foriera di interessanti
accostamenti, accezioni e declinazioni dal punto di vista semiotico, soprattutto se a
questa si aggiunge la definizione di consumo come “ipertesto” propugnata dallo
stesso Fabris
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e un’altra un po’ più datata e di paternità weberiana che vede il
consumo come “agire sociale dotato di senso”, utile strumento quindi per la
costruzione e la comprensione delle dinamiche sociali e sempre più anche di quelle
culturali. Il concetto di cultura non è utilizzato a caso, nel corso del lavoro infatti
verrà alla luce che la marca nella costruzione e definizione dei suoi linguaggi si avvale
sempre più di tematiche e componenti del contesto culturale in cui è inserita fino a
determinare essa stessa alcune di esse in un gioco di rimandi continui.
Prima di tutto però occorre trovare una prima, ma soddisfacente risposta
all’interrogativo iniziale. Si può affermare con un certo grado di tranquillità che
un’era si è chiusa, la cosiddetta era della modernità, per lasciar spazio ad un’epoca di
transizione, da cui il prefisso “post”. Difatti mentre tutto attorno al consumatore fa
propendere verso un radicale cambiamento di rotta, questi ha bisogno di un lasso di
tempo fisiologico per riuscire ad emanciparsi definitivamente da una tradizione e da
una cultura molto ben radicate relative all’epoca da poco chiusasi ed aprirsi ad un
nuovo paradigma.
I.II “Strade? Dove stiamo andando non c'è bisogno di... strade!”
3
Il concetto di paradigma non è usato senza cognizione di causa. Difatti per cercare di
inquadrare nel miglior modo possibile i venti di cambiamento in atto appare utile
avvalersi di una metafora propugnata dal filosofo della scienza Thomas Samuel Kuhn
2
Ib., pg. 18.
3
Cit. dal film Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, USA, 1985.
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nel suo lavoro La struttura delle rivoluzioni scientifiche
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diventato un cult e un punto di
riferimento anche per studi non direttamente contigui, come appunto anche quelli sul
consumo. Trattando la scienza per la prima volta in maniera qualitativa ed attingendo
da un vocabolario tipico di altri contesti, il filosofo americano ha messo in evidenza
come ogni rivoluzione scientifica e non, aggiungeremo noi, è stata contraddistinta
dall’implementazione di un nuovo linguaggio, i riferimenti al consumo come
metalinguaggio non sono assolutamente casuali, e conseguentemente da un cambio
di paradigma. Questo paradigm shift parte proprio dal presupposto che la cosiddetta
“scienza normale” – la routine degli scienziati che accumulano dati a sostegno della
teoria dominante o paradigma – abbia delle fasi ben determinate, una sorta di loop
che si autoalimenta. Possiamo considerare questo paradigma come la visione del
mondo dominante in un determinato periodo storico il quale funge da framework
interpretativo, utile per potersi rapportare con tutti gli eventi del quotidiano. In
quest’ottica nell’ultima fase del ciclo si verificherebbe la “rivoluzione”, ossia il
momento in cui il paradigma fino ad allora accettato non “riesce a spiegare un
numero crescente di fenomeni”
5
, viene falsificato ed entra in crisi dando adito alla
formulazione di numerose alternative fra le quali la comunità scientifica dovrà poi
scegliere per sostituirlo. Si arriva quindi alla costituzione di un nuovo paradigma che
non incorporerà le teorie precedenti limitandosi ad estenderle. La cosa interessante è
che secondo Kuhn il nuovo paradigma che viene scelto dalla comunità scientifica
non è per forza il più attendibile o il più efficiente, bensì quello che ha saputo attirare
il maggior numero di proseliti.
Non è difficile trovare delle analogie tra la teoria del filosofo di Cincinnati, seppur
riportata qui per sommi capi, e quello che si sta verificando in questi anni. La
rivoluzione tecnologica e dell’informazione ci sta introducendo in un’era in cui
avremo bisogno di rapportarci alla realtà con occhi diversi, avvalendoci appunto di
un nuovo punto di vista. La crisi economico finanziaria in atto non fa altro che
4
Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1971.
5
Fabris G., ib., pg. 23.
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fungere da sintomo ed accelerante a questo processo di cambiamento di prospettiva.
È possibile riscontrare tra i fattori che hanno contribuito da una parte alla crisi del
paradigma moderno e, dall’altra, al sorgere di quello postmoderno la non corretta
comprensione di alcuni fenomeni “decodificati come erratici, di mera turbolenza”
6
,
ma che invece all’interno della nuova prospettiva che si sta facendo largo sono assurti
ad assiomi di fondo. Fattori come complessità e turbolenza sono diventati costitutivi e
dell’ordine della normalità in special modo in un contesto come quello del consumo
in cui ha luogo il rapporto tra marca e consumatori - anche questo termine ormai
considerato improprio. Lungi dall’essere una, seppur suggestiva, apologia del caos
tale affermazione tende solo a mettere in evidenza, se ce ne fosse ancora bisogno, la
crescente iperconnessione dei fenomeni all’interno della società moderna. Questa
fortissima interdipendenza creatasi ha fatto si che eventi come le crisi economiche,
un tempo circoscritte a quelle aree geografiche in cui si era verificato l’epicentro, ora
investano, come stiamo osservando, la quasi totalità dei Paesi del mondo; oppure che
una relativamente “piccola” azione di marketing, come l’abbassamento del 20% del
prezzo di un prodotto da parte di uno dei brand colossi d’oltreoceano, Philip Morris,
riesca a scatenare una crisi della marca senza precedenti con tanto di affossamento
del titolo a Wall Street del 26%; tutto in un solo giorno, che verrà poi tristemente
ricordato come “Marlboro Friday”
7
.
Siamo tutti interconnessi, ma siamo anche tutti sempre più diversi. Dotati di
personalità non più monolitiche come una volta, ma costituite da più sfaccettature
che ci rendono consumatori eclettici e sincretici, sfuggenti, non facilmente afferrabili
dotati di una razionalità anch’essa complessa e soprattutto che non si legano alle
marche ed ai prodotti in modo perpetuo. Altra tendenza rilevante è infatti quella
relativa ad un mutamento, più che accentuato, totalmente imprevedibile e che non è
più possibile inquadrare in uno schema canonico. Sono queste la complessità e la
6
Ib., pg.22.
7
http://money.cnn.com/magazines/fortune/fortune_archive/1993/05/03/77805/index.htm,
articolo di Patricia Sellers del 3 Maggio 1993 sul sito di informazione CNN Money.
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turbolenza che, volenti o nolenti, ci caratterizzano e che dobbiamo assumere come
condizioni necessarie ma non sufficienti per poter venire a capo dei cambiamenti in
atto.
Dunque comincia ad avere un senso la citazione del fortunato cult movie Ritorno al
futuro che funge coraggiosamente da titolo a questo paragrafo. Infatti nella direzione
in cui ci stiamo muovendo non servono strade, o meglio non servono le strade di cui
ci siamo serviti fino ad ora: le “strade” costruite da chi e per chi ragionava tenendo
conto di un paradigma andato in crisi. Una di queste è proprio il concetto di
consumatore, termine che postula “un soggetto economico che si comporti, nell’agire
di consumo, in maniera dissimile dagli altri momenti della sua esistenza: un soggetto
razionale…”
8
, mentre ora come ora egli non è altro che un individuo – Fabris parla
infatti di individuo consumatore - che come tutti assume diversi comportamenti durante
la giornata e tra questi c’è anche il consumare. Rieccoci dunque al concetto di consumo
come ‘agire sociale dotato di senso’ propugnato da Max Weber. Dunque muta la
nozione di consumo, muta quella di consumatore, non resta che analizzare come si
rapporta al nuovo scenario delineato il “terzo valore dell’equazione”, ossia la marca.
I.III Nothing but the brand
Si può affermare che la marca ha ad oggi un’esistenza ed una legittimazione piuttosto
combattute. Se ci guardiamo indietro notiamo che la marca dell’epoca moderna pur
essendo passata da una logica prettamente economica e razionalistica, fondata sui
bisogni e le possibilità oggettive d’acquisto dei consumatori, a soggetto che
trascendendo le mura dell’azienda cominciava a mediare tra questa ed il consumatore
diventando una componente fondamentale del marketing mix, rimaneva però
esplicitamente al servizio del prodotto. Un valore aggiunto, certo, ma ancora troppo
legato al suo referente materiale. Addentrandoci nell’era postmoderna la marca
comincia ad essere protagonista di grossi cambiamenti per quanto riguarda il suo
status e le sue mansioni. Tali cambiamenti la stanno portando ad essere sempre più
8
Fabris G., Ib., pg. 45.
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una costante presenza nel nostro quotidiano permeando la quasi totalità delle nostre
esperienze, non limitandosi ad accompagnarle, ma fungendo anche da cornice
interpretativa di esse.
Uno dei maggiori teorici della postmodernità Jean-François Lyotard aveva proprio
messo in evidenza come una delle caratteristiche salienti di questa nuova epoca fosse
lo scetticismo montante nei confronti delle metanarrazioni
9
. Idee astratte che si
riteneva dovessero dare una spiegazione onnicomprensiva dell’esperienza storica e
della conoscenza, fornendo dunque un quadro interpretativo generale e totalizzante a
chiunque le facesse sue. Le grandi narrazioni, che possono facilmente essere
ricondotte alle grandi ideologie religiose, politiche e sociali caratterizzanti le epoche
trascorse in cui hanno prodotto ed alimentato i sistemi valoriali di riferimento, hanno
però a lungo andare fallito proprio in questo loro progetto di organizzazione
dell’esperienza umana e sociale.
Nel momento in cui dunque vengono a mancare questi pilastri della cultura sociale
sembra che siano proprio le marche, una volta staccato il cordone ombelicale che le
legava in modo stretto al suo referente, ad assurgere a garante non tanto della qualità
dei prodotti e della buona reputazione delle aziende, ma soprattutto dei valori che
all’interno di una società circolano. Codeluppi parla a questo proposito di valori
“forti” e valori “deboli”
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, questi ultimi diventati i veri protagonisti dell’epoca
postmoderna alla base dell’agire sociale di molte delle marche top di questi anni. Si
verifica dunque un totale ribaltamento della relazione tra marca e prodotto con
quest’ultimo che diventa manifestazione testuale della prima garantendone lo
spessore simbolico e la riconoscibilità
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. La marca protagonista indiscussa e il
prodotto che la completa. Ci ritroviamo proprio in quel paradigm shift di cui parlava
quello che ormai sta diventando una sorta di “guru”, Thomas Khun.
9
Lyotard J. F., La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, 1979.
10
Codeluppi V., Il potere della marca, Bollati Boringhieri, 2001.
11
Marrone G., Il discorso di marca., Laterza, 2007.