2
L'ultimo  capitolo  è  dedicato  interamente  al  problema  iniziale di 
determinazione della retribuzione degli agenti in relazione alle quote di 
vendita ad essi assegnate. Troviamo, infatti, lo schema di agenzia 
espresso come rapporto tra il sales manager ed il personale di vendita. 
Viene analizzato, in pratica, il problema del sales manager di creare 
opportuni piani di retribuzione in base alle caratteristiche del personale 
di vendita impiegato dall'impresa. Risulta fondamentale, soprattutto in 
questo caso, il livello informativo posseduto dal soggetto principale, sia 
in senso generale nei confronti delle condizioni di mercato delle diverse 
aree da ricoprire, sia in relazione alle abilità di vendita degli agenti che 
verranno poi impiegati in quelle stesse zone. Vediamo, anche, come 
può variare la scelta ottimale della strategia da adottare proprio in base 
alle informazioni od in base alle aspettative del sales manager. 
Si argomenta, in seguito, l'applicazione di alcuni possibili piani di 
retribuzione rivolti ad una forza di vendita eterogenea, nonché analisi 
del rapporto di agenzia basate su alcuni aspetti più attinenti la realtà 
come gli studi su sistemi "multiproduct".  
Rimangono, infine, due appendici collegate al testo in cui si 
possono rintracciare relazioni matematiche, in forma più dettagliata 
rispetto a quelle espresse nel corso del lavoro, per rappresentare i 
problemi di massimizzazione vincolata. 
 
 3
 
CAPITOLO  I 
 
IL RAPPORTO DI AGENZIA NELLA LETTERATURA SUL 
GOVERNO DELL’IMPRESA 
 
 
 
1.1. RICHIAMI ALLA GLOBALIZZAZIONE E ALLA COMPLESSITA’ 
CRESCENTI DEI MERCATI. 
 
La società attuale ci mostra, ogni giorno, l’importanza della 
comunicazione, dello scorrere delle informazioni. Il mercato di 
moltissime aziende non è più solo limitato al paese in cui risiede 
l’impresa, ma ne comprende tanti altri, per diverse, infatti, l’attività 
commerciale si rivolge a paesi presenti nei vari continenti. Di 
conseguenza, l’organico di queste compagnie si presenta composto da 
persone che per cultura, formazione ed esperienza sono assai diverse. 
I rapporti che s’instaurano tra i vari componenti, risultano di cruciale 
rilevanza per la buona riuscita delle strategie aziendali. 
Fino a non moltissimi anni fa, i lavoratori erano visti come una 
specie di “monade”
(1)
, focalizzando l’attenzione sulle capacità del 
singolo di svolgere al meglio le sue mansioni, ma non considerandolo 
come parte di un organismo formato da una molteplicità di cellule.  
Ognuno di questi componenti dell’azienda deve riuscire sia ad 
acquisire le informazioni che gli sono inviate, sia a trasmettere le 
informazioni che raccoglie e che elabora nello svolgere i suoi compiti.  
                                                          
(1)
  Termine creato da Leibniz, con cui egli nomina le sostanze indivisibili. Leibniz esclude sia 
la divisibilità delle monadi, sia la possibilità di raccogliere più monadi per formare 
un’unica sostanza composta. 
GEYMONAT L. “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, Vol. II, pp. 605-608. 
 4
Con la crescita esponenziale degli scambi commerciali, quindi, si 
accresce anche l’importanza delle relazioni interpersonali, che, 
appunto all’interno di un’impresa, fanno da perno alla realizzazione 
degli obiettivi dell’azienda stessa per mezzo della sintonia tra i suoi 
componenti, che può essere realizzata grazie ad una buona 
comunicazione tra loro. E’ in questo quadro di intercomunicatività, che 
s’inserisce, come elemento caratterizzante l’intera vita economica, la 
relazione di agenzia. 
 5
1.2. GLI AGENTI DI VENDITA VEICOLI ESSENZIALI DEL 
MARKETING  DI  IMPRESA. 
 
Per le imprese, viste le caratteristiche dei mercati dove esse 
operano, caratterizzati dalla crescente espansione con conseguente 
coinvolgimento in molti paesi, risulta fondamentale farsi conoscere dal 
pubblico; è importante l’immagine che queste aziende danno di sé e 
come presentano i loro prodotti. Proprio in questa situazione di 
competitività, caratterizzata sempre di più dalla qualità e dal servizio, il 
contatto con il cliente è il momento nel quale gli sforzi dell’impresa 
vengono più o meno premiati con il successo
(2)
. Certamente, 
nell’organico aziendale, la figura che più si adatta a questo scopo è 
quella dell’agente di vendita. Possiamo rinvenire molti punti a favore di 
questa tesi. Innanzi tutto l’agente, come venditore, si trova sempre a 
contatto con i clienti dell’azienda (effettivi o potenziali che siano) ed è, 
quindi, la figura che questi ultimi conoscono dell’impresa. Se, 
comunque, ci sono molti fattori che aiutano l’azienda a farsi conoscere 
ed a realizzare i propri obiettivi di vendita, come un ottimo budget 
pubblicitario o l’aver realizzato dei prodotti di qualità, resta l’agente il 
veicolo principe dell’attività di marketing dell’impresa.  Il  duplice  ruolo, 
infatti, che esso svolge nei confronti del cliente, sia come immagine 
dell’azienda sia come venditore dei prodotti dell’azienda stessa, lo 
pone come ingranaggio fondamentale della macchina aziendale
(3)
. 
Sappiamo, però, proprio per l’importanza che riveste l’agente, che 
il legame tra questo e l’impresa, rappresentato dal contratto di agenzia, 
è uno dei punti più delicati della gestione aziendale. Tale legame risulta 
dall’evoluzione di studi sul rapporto d’agenzia sorto come problema 
della separazione tra proprietà e controllo. 
                                                          
(2)
 DI GIACOMO  L., 1992, “Gli incentivi economici della rete di vendita”, in Il Sole 24ore Libri, 
pp. 333-349. 
(3)
 D'ALESSIO  L., 1980, "La direzione del personale di vendita", in part. il Cap. II, par. 3. 
 6
1.3. NOZIONE ASTRATTA DI RAPPORTO DI AGENZIA. 
 
La teoria dell’agenzia rappresenta un campo d’indagine 
relativamente recente.  
Essa deriva da due diversi rami di ricerca: uno pone la propria 
attenzione sui diritti di proprietà e l’altro che si occupa della teoria dei 
contratti incompleti.
(4)
 
Si deve porre l’attenzione sul fatto che la teoria studia, 
principalmente, una relazione economica e contrattuale di mercato, tra 
uno o più soggetti che entrano in rapporto di scambio. Ma dobbiamo 
immaginare come rapporti di agenzia anche quelle relazioni che si 
instaurano tra soggetti appartenenti a livelli diversi di una stessa 
struttura o tra soggetti appartenenti alla medesima impresa. Quindi, 
risulta fuorviante non considerare relazioni di agenzia quelle relazioni 
che avvengono tra proprietà e direzione, tra produttore e cliente, ma, 
anche, quei rapporti che si realizzano tra professionisti ed assistiti. In 
pratica, la struttura della relazione che si realizza può essere utilizzata 
per descrivere un insieme di fenomeni molto più ampio di quello che si 
può pensare. 
Tutti i rapporti del tipo descritto sopra possono essere formalizzati 
in uno “schema di agenzia”. In tale rapporto individuiamo due parti 
contraenti, una (agente) accetta di operare, dietro corrispettivo, 
nell’interesse e per conto o in rappresentanza dell’altra (principale)
(5)
.  
Tale operazione si svolge in un clima di incertezza dovuta al fatto 
che il risultato voluto (atteso) dal principale dipende sia dall’azione 
dell’agente, sia dalle condizioni ambientali in cui esso opera, cioè dai 
possibili scenari che possono essere considerati una variabile di tipo 
                                                          
(4)
 PILOTTI L., 1993, Definisce incompleto un contratto in cui le decisioni dell’agente 
dipendono da variabili che non sono tutte conosciute dal principale, 
“Teoria dell’agenzia e teoria dell’impresa”, in “Sviluppo e 
organizzazione”, marzo-aprile, n.136, pp. 86-92. 
(5)
 GALLINARO S., 1995, “Il contributo della teoria dell’agenzia”, in “Le parole dell’impresa”, a 
cura di Lorenzo Caselli, pp. 610-622. 
 7
aleatorio. Siamo davanti ad un problema principale-agente
(6)
 ogni volta 
che ci troviamo in situazioni di non perfetta conoscenza dell’azione 
dell’agente o delle circostanze nelle quali l’azione si è svolta. Si parla, 
dunque, di azioni in condizioni di asimmetria informativa, che può 
riguardare la non osservabilità dell’azione dell’agente (azione celata), 
oppure la non conoscenza delle informazioni che hanno portato 
l’agente a compiere quella determinata azione (informazione celata)
(7)
. 
                                                          
(6)
 ROSS  S. A., 1973, “The economic Theory of Agency: The Principal’s Problem”, in 
“American Economic Review”, Vol. 63, n. 2, May, pp. 134-139. 
(7)
 MARSEGUERRA G., “Il modello dell’informazione celata nello schema del rapporto 
d’agenzia”, Quaderno 9/90. 
 8
1.4. LA LETTERATURA SUL RAPPORTO DI AGENZIA: CASI DI 
SEPARAZIONE TRA PROPRIETA’ E CONTROLLO. NOZIONE 
DI COSTO DI AGENZIA. 
 
I primi studi sul fenomeno di “agency”, possono essere fatti risalire 
ad ADAM SMITH nel lavoro “La ricchezza delle nazioni” del 1776. In 
quell’opera, il problema riguardava la separazione tra proprietà e 
controllo, l’autore immaginava i manager di una società per azioni 
comportarsi meno diligentemente nella gestione aziendale, rispetto ad 
una società gestita direttamente dai suoi proprietari, in quanto, in tal 
caso, essi amministravano il denaro altrui. Ma è nel 1932, con il lavoro 
di Berle e Means
(8)
, che il problema di agenzia comincia a delinearsi in 
una visione più precisa. Infatti, viene messo in luce il diverso obiettivo 
che perseguono i manager ed i proprietari, con i primi che cercano di 
massimizzare i propri profitti e con i secondi che vorrebbero 
massimizzare i profitti dell’impresa
(9)
. Il primo studio fondamentale, che 
affronta il rapporto di agenzia da un punto di vista formale, è quello di 
Ross del 1973
(10)
. La novità proposta da Ross rappresenta un nodo 
fondamentale nell’evoluzione della letteratura sul rapporto d’agenzia, 
egli affronta tale rapporto utilizzando strumenti di microeconomia (le 
funzioni di utilità) per determinare lo schema retributivo ottimale. Ross 
propone, come possibile soluzione efficiente al problema di agenzia, la 
massimizzazione di una funzione di utilità costituita dalla media 
ponderata delle funzioni di utilità dell’agente e del principale. Ma è dal 
1976 che il fenomeno dell’agenzia acquisisce un ruolo primario 
nell’ambito della ricerca economica grazie al contributo di Jensen e 
                                                          
(8)
 BERLE  A. & MEANS  G., 1932, “The Modern Corporation and Private Property”; ed. It.: 
“Società per azioni e proprietà privata”, Einaudi, Torino, 1966. 
(9)
 BIGELLI  M. & SANDRI  S., 1994, “Le Soluzioni al Problema di Agenzia: il Mercato, i 
Sistemi Interni di Controllo e gli Investitori Attivi”, in 
“Intermediazione finanziaria e mercato delle imprese”, a cura di 
Rocco Corigliano, Editrice CLUEB Bologna, pp. 33. 
(10)
 C.f.r. nota (6) a pag. 8. 
 9
Meckling
(11)
. Nel loro lavoro, il problema di “agency”, e con esso i costi 
che ne derivano, non è solo individuato come scaturito dalla 
separazione tra proprietà e controllo. Essi affermano che, data una 
certa struttura proprietaria, la coscienza degli investitori esterni delle 
possibili condotte dei manager, porterà i costi derivanti dallo schema di 
agenzia, ad essere sostenuti dai manager-proprietari “attraverso un 
minor valore realizzabile dalla vendita di azioni ad investitori esterni e 
condizioni di finanziamento più onerose”
(12)
. 
 
1.4.1. NOZIONE DI COSTO DI AGENZIA. 
 
Merita, ora, porre la nostra attenzione sui costi che derivano dal 
problema di agenzia. Come abbiamo visto in precedenza, all’interno di 
un’impresa, si possono configurare rapporti di agenzia tra azionisti e 
manager, ma anche tra principale e venditore come tra azionisti e 
creditori esterni. Quindi, nel caso della separazione tra proprietà e 
controllo, si può parlare di costi di agenzia in caso di riduzione del 
valore dell’impresa, come minor valore di mercato dei titoli di proprietà 
detenuti in portafoglio dagli azionisti, derivante da scelte inefficienti da 
parte dei manager o dovuto al consumo di risorse aziendali per uso 
personale da parte degli stessi manager
(13)
. Possiamo, però, parlare di 
costi di agenzia visti come traguardi di vendita non raggiunti, cioè come 
differenziale tra l’obiettivo ed il risultato ottenuto, quindi come perdita di 
potenzialità sul mercato, ma anche, nel caso di azionisti che ricoprono 
il ruolo di manager, ricorrendo a creditori esterni per investimenti molto 
rischiosi, essi scaricano i possibili costi di una non buona riuscita di tali 
investimenti sui finanziatori esterni. Naturalmente, dobbiamo 
considerare che i comportamenti dell’agente non sono, in genere, 
                                                          
(11)
 JENSEN M.C. & MECKLING  W.M., 1976, “Theory of the firm: Managerial Behavoir, 
Agency Costs and Ownership Structure”, in “Journal of Financial 
Economics”, October, pp. 305-360.
 
(12)
 C.f.r. nota (9). 
(13)
 C.f.r. nota (9) a pag. 9, in relazione alla pag. 34. 
 10
verificabili se non ex-post da parte del principale; quindi esistono dei 
costi relativi all’attività di monitoraggio e costi relativi a sistemi di 
incentivazione che vengono supportati dal principale (quando esso sia 
in grado di supportarli) per aumentare le probabilità che gli “agenti” 
prendano decisioni il più possibile asintotiche agli interessi dei 
“principali”. Questi ultimi costi di monitoring e di incentivazione 
dovrebbero funzionare per ridurre gli altri costi derivanti dal rapporto di 
agenzia
(14)
. 
 
1.4.2. SISTEMI  ESTERNI  ALL’IMPRESA  PER  IL  CONTENIMENTO 
DEI  COSTI  DI  AGENZIA. 
 
Presa consapevolezza dell’esistenza dei costi di agenzia, gli studi 
successivi cercano di individuare meccanismi in grado di contenerli. In 
quest’ambito, come sistemi di controllo esterni all’impresa, si possono 
presentare alcune idee in relazione al mercato dei prodotti, al mercato 
manageriale ed al mercato per il controllo delle imprese. 
Faceva notare Hart
(15)
 che il mercato dei beni e dei servizi prodotti 
dall’impresa costituisce una forza volta a contenere i costi di agenzia. 
Se rappresentiamo questi ultimi, infatti, come qualsiasi altra voce di 
costo, possiamo affermare che un’impresa, che abbia costi maggiori 
rispetto alle sue concorrenti, rischierebbe, come caso limite, 
l’esclusione dal mercato. Questo meccanismo avrebbe una migliore 
efficacia, più il settore in cui opera quest’impresa fosse concorrenziale. 
Purtroppo, il contenimento o addirittura l’eliminazione dei costi di 
agenzia, grazie ad un mercato dei prodotti concorrenziale, non avrebbe 
luogo se questi costi fossero comuni anche alle altre imprese presenti 
in quel settore
(16)
. Ma anche se, in queste condizioni, il mercato 
                                                          
(14)
 C:f.r. nota (5) a pag. 8. 
(15)
 HART  O.D., 1983, “The Market Mechanism as an Incentive Scheme”, in “Bell Journal of 
Economics”, n. 14, pp. 366-382. 
(16)
 C.f.r. nota (11) a pag. 9. 
 11
“funzionasse”, rischierebbe di intervenire in ritardo, quando, ormai, 
l’impresa è al limite del fallimento. 
Per quanto riguarda il mercato manageriale, in relazione al 
contenimento dei costi di agenzia, il lavoro di riferimento è quello 
presentato da Fama
(17)
. Egli distingue due funzioni che in precedenza 
erano assegnate all’imprenditore, cioè il potere decisionale che spetta 
ai manager ed il rischio di impresa che ricade sugli azionisti. Questi 
ultimi, però, viste le ridotte quote azionarie da loro possedute, non 
effettueranno un monitoraggio sul lavoro dei manager, in quanto, ciò 
sarà svolto dal mercato manageriale coadiuvato da un mercato dei 
capitali efficiente e da un accorto consiglio d’amministrazione (board of 
directors). Fama dice che un manager, che si renda responsabile di 
risultati pessimi, subirà una perdita, rappresentata da un minor valore 
del suo capitale umano espresso dal mercato manageriale come minor 
valore attuale dei compensi futuri. Questa perdita avvicina l’obiettivo 
del manager alla massimizzazione del valore dell’impresa (obiettivo 
degli azionisti), perché è come se desse al manager una 
partecipazione azionaria; quindi, grazie ad un mercato dei capitali 
efficiente si valuterebbe meglio il lavoro svolto dai vari gruppi 
manageriali nelle rispettive aziende. Ciò implica che i manager, 
sapendo che il giudizio di ognuno di loro dipende dai risultati 
dell’impresa, agiranno in modo da monitorare gli altri membri 
dell’impresa. Ma, certamente, questo richiede un mercato dei manager 
efficiente, in grado, cioè, di escludere i manager che non abbiano 
raggiunto gli obiettivi previsti. In questo contesto c’è bisogno di un 
“board” che sia in grado di valutare le prestazioni dei manager e di 
applicare le eventuali correzioni. Purtroppo quanto esposto da Fama è 
lontano dal realizzarsi visto che il mercato manageriale è costellato da 
un numero esiguo di scambi non in grado di realizzare l’efficienza del 
mercato stesso. 
 12
Più articolato il discorso riguardante il mercato per il controllo delle 
imprese (market for corporate control). Immaginando un forte legame 
tra efficienza di un’impresa ed i suoi titoli quotati, possiamo pensare 
che una gestione inefficiente di tale impresa porterà a svalutazioni dei 
titoli rispetto alle imprese del medesimo settore; rischiando possibili 
scalate (con elevata probabilità di alti “capital gain”) da parte di coloro 
che credono di poter gestire meglio l’impresa. In un tale contesto, i 
manager sono portati ad evitare eccessi di inefficienza cosicché il 
“market for corporate control” rappresenta una protezione per gli 
azionisti di minoranza
(18)
. Ma studi successivi hanno condotto alla 
“teoria dell’entrenchment”
(19)
. Alla base della teoria sta la relazione non 
monotonicamente decrescente tra i costi di agenzia e la quota 
azionaria posseduta dai manager; sostenendo che, nelle imprese di 
grandi dimensioni, la riduzione dei costi di agenzia per quote crescenti 
di “proprietà manageriale” potrebbe essere compensata sia dalla 
perdita di vantaggi della diversificazione sia dalla minore 
specializzazione degli agenti decisionali, portando manager, 
tendenzialmente avversi al rischio, a rifiutare progetti con flussi di 
cassa incerti, anche se molto redditizi. Tutto questo trova come base 
un lavoro empirico svolto da Morck, Shleifer e Vishny
(20)
. Vengono 
prese in considerazione due grandezze, una è l’efficienza dell’impresa 
rappresentata dal Q di Tobin (rapporto tra valore di mercato 
dell’impresa [CN + D] e costo di sostituzione delle sue attività tangibili), 
l’altra è la quota azionaria del management. La relazione che ne risulta 
è di tipo non monotonico, con la maggiore efficienza che si realizza per 
                                                                                                                                                                    
(17)
 FAMA  E., 1980, “Agency Problems and the Theory of the Firm”, in “Journal of Political 
Economy”, Vol. 88, n. 2, pp. 288-307. 
(18)
 MANNE  H.G., 1965, “Mergers and the Market for Corporate Control”, in “Journal of 
Political Economy”, Vol. 73, n. 4, pp. 110-120. 
(19)
 FAMA  E. & JENSEN  M.C., 1983, “Separation of Ownership and Control”, in “Journal of 
Law and Economics”, Vol. 26, June, pp. 301-325; 
     MORCK  R., SHLEIFER  A. & VISHNY  R.W., 1988, “Management Ownership and 
Market Valuation: An Empirical Analysis”, in “Journal of Financial  
Economics”, Vol. 20, pp. 293-315. 
(20)
 C.f.r. nota prec. per Morck, Shleifer e Vishny (1988). 
 13
una quota azionaria del management del 5% che, secondo gli autori, è 
riconducibile sia alla maggiore convergenza di interessi per quote 
intorno a quel valore, sia perché i manager possono detenere più 
azioni grazie a determinati “stock options” e che le loro posizioni 
dipendono dai loro schemi retributivi. Mentre per quote azionarie del 
management intorno al 25% si ha la peggiore efficienza perché i 
manager-proprietari si sentono protetti da possibili scalate ostili. 
Un accenno, come possibile soluzione esterna all’impresa per la 
riduzione dei costi d’agenzia, riguarda il livello d’indebitamento di 
un’impresa. Come emerge dai lavori di Jensen
(21)
 e Kaplan
(22)
, 
manager di imprese con elevati flussi di cassa, appartenenti a settori 
industriali maturi o in declino, si trovano ad investire questi flussi in un 
ambiente ormai da abbandonare, quando dovrebbero distribuirli agli 
azionisti. Quindi, in tale contesto, l’aumento del livello d’indebitamento 
agirebbe per ridurre i costi di agenzia dovuti agli elevati flussi di cassa 
di cui i manager potrebbero disporre, abbassando il livello di questi 
flussi. In particolare, secondo Jensen (confermato dal lavoro di 
Kaplan), il successo delle operazioni di “leveraged buyout” 
dipenderebbe sia dal ruolo preminente del debito nella struttura 
finanziaria, sia dalla remunerazione dei manager correlata alle 
prestazioni. Tutto ciò, come fa notare Rappaport
(23)
, può essere vero 
solo per settori maturi che hanno flussi di cassa regolari in grado di 
coprire alti debiti, del resto l'LBO è una forma organizzativa transitoria. 
                                                          
(21)
 JENSEN  M.C., 1986, “Agency  Costs  of  Free  Cash  Flows,  Corporate  Finance  and 
Takeovers”, in “American Economic Review”, September-
October, pp. 305-360; 
  JENSEN  M.C., 1989a, “The Eclipse of the Public Corporation”, in “Harvard Business 
Review”, September-October, pp. 61-74; 
  JENSEN  M.C., 1989b,  “Active Investors, LBOs and the Privatization of Bunkruptcy”, in 
“Journal of Applied Corporate Finance”, n. 2, pp. 35-44; 
  JENSEN  M.C., 1993,  “The  Modern  Industrial  Revolution,  Exit,  and  the  Failure  of 
Internal Control Systems”, in “Journal of Finance”, Vol. 48, n. 3, 
pp. 831-880. 
(22)
 KAPLAN  S.N., 1989, “The Effects of Management Buyouts on Operating Performance 
and  Value”,  in  “Journal  of  Financial  Economics”,  Vol.  24,  
pp. 581-618. 
(23)
 RAPPAPORT  A., 1990, “The Staying Power of the Public Corporation”, in “Harvard 
Business Review”, January-February, pp. 96-104. 
 14
1.4.3. SISTEMI  INTERNI  ALL’IMPRESA  PER  IL  CONTENIMENTO 
DEI  COSTI  DI  AGENZIA. 
 
Le forze di mercato che intervengono per ridurre i costi di agenzia, 
entrano in gioco in periodi in cui il problema di “agency” è già in fase 
avanzata, non portando mai a soluzioni di “First Best”. Il problema deve 
essere combattuto sul fronte interno all’impresa; saranno, quindi, 
elementi endogeni che svolgeranno un’azione volta alla riduzione dei 
costi di agenzia prima che questi si manifestino in tutta la loro forza e 
portino verso situazioni critiche per la sopravvivenza dell’azienda. 
Indubbiamente, il consiglio di amministrazione, dovrebbe rivestire 
un ruolo fondamentale da questo punto di vista. Nella realtà dei fatti gli 
interventi che esso compie sono limitati ed inefficienti, soprattutto in 
quei casi in cui sarebbe più opportuno, come nelle imprese di settori 
industriali maturi e in declino, ma, anche nei casi in cui un’azienda 
presenti “performance” inferiori a quelle del settore di appartenenza. 
A tal proposito, per favorire un buon funzionamento del consiglio 
di amministrazione, Sahlman
(24)
 ritiene che il rischio e la 
remunerazione di un membro del consiglio non siano ben correlati. 
Quindi, i soggetti più capaci non sono attratti da questi ruoli, in più, il 
“non collegamento” tra prestazioni dell’impresa e retribuzioni limita 
l’interesse dei membri del consiglio ad esercitare un’azione di controllo 
adeguata. Jensen
(25)
 fa notare il fattore relativo ai problemi informativi 
in connessione al fatto che frequentemente il presidente del “board” ed 
il CEO coincidono. 
Un altro sistema interno di controllo per la riduzione dei costi di 
agenzia, riguarda gli incentivi ai manager. Un primo studio 
fondamentale è rappresentato dal lavoro di Ross
(26)
. Egli considera lo 
                                                          
(24)
 SAHLMAN  W.A., 1990, “Why Sane People Shouldn’t Serve on Public Boards”, in 
“Harvard Business Review”, May-June, pp. 28-35. 
(25)
 C.f.r. nota (21) a pag. 14 per Jensen (1993). 
(26)
 C.f.r. nota (6) a pag. 8. 
 15
schema retributivo ottimale secondo la teoria microeconomica, 
utilizzando, quindi, funzioni di utilità sia per il principale sia per l’agente. 
Individua, nell’insieme degli schemi retributivi, l’insieme che dà 
soluzioni Pareto-efficienti che permettono, cioè, di risolvere il problema 
dei costi di agenzia massimizzando una funzione di utilità, data dalla 
somma ponderata delle utilità del principale e dell’agente. Con piani 
retributivi in cui sono presenti incentivi si cerca di far avvicinare gli 
obiettivi dei manager a quelli degli azionisti. Quindi, un buon incentivo 
è rappresentato dal collegare i compensi manageriali al valore 
dell’impresa. Possiamo vedere 3 esempi di incentivi con relative 
implicazioni: bonus, stock options e piani che si basano sulla 
“performance” relativa. I primi si basano quasi completamente su valori 
contabili come la crescita degli utili per azione, ma, purtroppo, queste 
grandezze sono facilmente manipolabili e spingono i manager verso 
risultati di breve periodo. Le stock options sono legate a variazioni dei 
prezzi azionari riuscendo ad allineare gli stipendi dei manager al valore 
dell’impresa. Tutto ciò presenta degli inconvenienti per il fatto che il 
valore delle azioni dipende anche da fattori di mercato, sui quali il 
manager non può avere controllo. Quindi si potrebbe avere, in base 
all’andamento generale del mercato, un premio od una perdita per una 
gestione inefficiente o per una gestione efficiente. Per quanto riguarda i 
sistemi basati sulla performance relativa rispetto al settore o rispetto 
alle imprese concorrenti, si rischia di giustificare il reinvestimento dei 
flussi di cassa (free cash flows) in settori senza opportunità di crescita. 
Ma questi tre sistemi di incentivi presentano un problema comune, 
perché prevedono un premio per una gestione efficiente ma non 
prevedono penalità per gestioni inefficienti. 
Uno schema remunerativo particolare è quello presentato da 
Jensen-Murphy
(27)
 & Stewart
(28)
 per i manager proprietari. 
                                                          
(27)
 JENSEN  M.C. &  MURPHY  K.J., 1990a, “CEO Incentives – It’s Not How Much You Pay, 
But   How”,   in   “Harvard   Business   Review”,   May-June, 
pp. 138-153.