2
L'ultimo capitolo è dedicato interamente al problema iniziale di
determinazione della retribuzione degli agenti in relazione alle quote di
vendita ad essi assegnate. Troviamo, infatti, lo schema di agenzia
espresso come rapporto tra il sales manager ed il personale di vendita.
Viene analizzato, in pratica, il problema del sales manager di creare
opportuni piani di retribuzione in base alle caratteristiche del personale
di vendita impiegato dall'impresa. Risulta fondamentale, soprattutto in
questo caso, il livello informativo posseduto dal soggetto principale, sia
in senso generale nei confronti delle condizioni di mercato delle diverse
aree da ricoprire, sia in relazione alle abilità di vendita degli agenti che
verranno poi impiegati in quelle stesse zone. Vediamo, anche, come
può variare la scelta ottimale della strategia da adottare proprio in base
alle informazioni od in base alle aspettative del sales manager.
Si argomenta, in seguito, l'applicazione di alcuni possibili piani di
retribuzione rivolti ad una forza di vendita eterogenea, nonché analisi
del rapporto di agenzia basate su alcuni aspetti più attinenti la realtà
come gli studi su sistemi "multiproduct".
Rimangono, infine, due appendici collegate al testo in cui si
possono rintracciare relazioni matematiche, in forma più dettagliata
rispetto a quelle espresse nel corso del lavoro, per rappresentare i
problemi di massimizzazione vincolata.
3
CAPITOLO I
IL RAPPORTO DI AGENZIA NELLA LETTERATURA SUL
GOVERNO DELL’IMPRESA
1.1. RICHIAMI ALLA GLOBALIZZAZIONE E ALLA COMPLESSITA’
CRESCENTI DEI MERCATI.
La società attuale ci mostra, ogni giorno, l’importanza della
comunicazione, dello scorrere delle informazioni. Il mercato di
moltissime aziende non è più solo limitato al paese in cui risiede
l’impresa, ma ne comprende tanti altri, per diverse, infatti, l’attività
commerciale si rivolge a paesi presenti nei vari continenti. Di
conseguenza, l’organico di queste compagnie si presenta composto da
persone che per cultura, formazione ed esperienza sono assai diverse.
I rapporti che s’instaurano tra i vari componenti, risultano di cruciale
rilevanza per la buona riuscita delle strategie aziendali.
Fino a non moltissimi anni fa, i lavoratori erano visti come una
specie di “monade”
(1)
, focalizzando l’attenzione sulle capacità del
singolo di svolgere al meglio le sue mansioni, ma non considerandolo
come parte di un organismo formato da una molteplicità di cellule.
Ognuno di questi componenti dell’azienda deve riuscire sia ad
acquisire le informazioni che gli sono inviate, sia a trasmettere le
informazioni che raccoglie e che elabora nello svolgere i suoi compiti.
(1)
Termine creato da Leibniz, con cui egli nomina le sostanze indivisibili. Leibniz esclude sia
la divisibilità delle monadi, sia la possibilità di raccogliere più monadi per formare
un’unica sostanza composta.
GEYMONAT L. “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, Vol. II, pp. 605-608.
4
Con la crescita esponenziale degli scambi commerciali, quindi, si
accresce anche l’importanza delle relazioni interpersonali, che,
appunto all’interno di un’impresa, fanno da perno alla realizzazione
degli obiettivi dell’azienda stessa per mezzo della sintonia tra i suoi
componenti, che può essere realizzata grazie ad una buona
comunicazione tra loro. E’ in questo quadro di intercomunicatività, che
s’inserisce, come elemento caratterizzante l’intera vita economica, la
relazione di agenzia.
5
1.2. GLI AGENTI DI VENDITA VEICOLI ESSENZIALI DEL
MARKETING DI IMPRESA.
Per le imprese, viste le caratteristiche dei mercati dove esse
operano, caratterizzati dalla crescente espansione con conseguente
coinvolgimento in molti paesi, risulta fondamentale farsi conoscere dal
pubblico; è importante l’immagine che queste aziende danno di sé e
come presentano i loro prodotti. Proprio in questa situazione di
competitività, caratterizzata sempre di più dalla qualità e dal servizio, il
contatto con il cliente è il momento nel quale gli sforzi dell’impresa
vengono più o meno premiati con il successo
(2)
. Certamente,
nell’organico aziendale, la figura che più si adatta a questo scopo è
quella dell’agente di vendita. Possiamo rinvenire molti punti a favore di
questa tesi. Innanzi tutto l’agente, come venditore, si trova sempre a
contatto con i clienti dell’azienda (effettivi o potenziali che siano) ed è,
quindi, la figura che questi ultimi conoscono dell’impresa. Se,
comunque, ci sono molti fattori che aiutano l’azienda a farsi conoscere
ed a realizzare i propri obiettivi di vendita, come un ottimo budget
pubblicitario o l’aver realizzato dei prodotti di qualità, resta l’agente il
veicolo principe dell’attività di marketing dell’impresa. Il duplice ruolo,
infatti, che esso svolge nei confronti del cliente, sia come immagine
dell’azienda sia come venditore dei prodotti dell’azienda stessa, lo
pone come ingranaggio fondamentale della macchina aziendale
(3)
.
Sappiamo, però, proprio per l’importanza che riveste l’agente, che
il legame tra questo e l’impresa, rappresentato dal contratto di agenzia,
è uno dei punti più delicati della gestione aziendale. Tale legame risulta
dall’evoluzione di studi sul rapporto d’agenzia sorto come problema
della separazione tra proprietà e controllo.
(2)
DI GIACOMO L., 1992, “Gli incentivi economici della rete di vendita”, in Il Sole 24ore Libri,
pp. 333-349.
(3)
D'ALESSIO L., 1980, "La direzione del personale di vendita", in part. il Cap. II, par. 3.
6
1.3. NOZIONE ASTRATTA DI RAPPORTO DI AGENZIA.
La teoria dell’agenzia rappresenta un campo d’indagine
relativamente recente.
Essa deriva da due diversi rami di ricerca: uno pone la propria
attenzione sui diritti di proprietà e l’altro che si occupa della teoria dei
contratti incompleti.
(4)
Si deve porre l’attenzione sul fatto che la teoria studia,
principalmente, una relazione economica e contrattuale di mercato, tra
uno o più soggetti che entrano in rapporto di scambio. Ma dobbiamo
immaginare come rapporti di agenzia anche quelle relazioni che si
instaurano tra soggetti appartenenti a livelli diversi di una stessa
struttura o tra soggetti appartenenti alla medesima impresa. Quindi,
risulta fuorviante non considerare relazioni di agenzia quelle relazioni
che avvengono tra proprietà e direzione, tra produttore e cliente, ma,
anche, quei rapporti che si realizzano tra professionisti ed assistiti. In
pratica, la struttura della relazione che si realizza può essere utilizzata
per descrivere un insieme di fenomeni molto più ampio di quello che si
può pensare.
Tutti i rapporti del tipo descritto sopra possono essere formalizzati
in uno “schema di agenzia”. In tale rapporto individuiamo due parti
contraenti, una (agente) accetta di operare, dietro corrispettivo,
nell’interesse e per conto o in rappresentanza dell’altra (principale)
(5)
.
Tale operazione si svolge in un clima di incertezza dovuta al fatto
che il risultato voluto (atteso) dal principale dipende sia dall’azione
dell’agente, sia dalle condizioni ambientali in cui esso opera, cioè dai
possibili scenari che possono essere considerati una variabile di tipo
(4)
PILOTTI L., 1993, Definisce incompleto un contratto in cui le decisioni dell’agente
dipendono da variabili che non sono tutte conosciute dal principale,
“Teoria dell’agenzia e teoria dell’impresa”, in “Sviluppo e
organizzazione”, marzo-aprile, n.136, pp. 86-92.
(5)
GALLINARO S., 1995, “Il contributo della teoria dell’agenzia”, in “Le parole dell’impresa”, a
cura di Lorenzo Caselli, pp. 610-622.
7
aleatorio. Siamo davanti ad un problema principale-agente
(6)
ogni volta
che ci troviamo in situazioni di non perfetta conoscenza dell’azione
dell’agente o delle circostanze nelle quali l’azione si è svolta. Si parla,
dunque, di azioni in condizioni di asimmetria informativa, che può
riguardare la non osservabilità dell’azione dell’agente (azione celata),
oppure la non conoscenza delle informazioni che hanno portato
l’agente a compiere quella determinata azione (informazione celata)
(7)
.
(6)
ROSS S. A., 1973, “The economic Theory of Agency: The Principal’s Problem”, in
“American Economic Review”, Vol. 63, n. 2, May, pp. 134-139.
(7)
MARSEGUERRA G., “Il modello dell’informazione celata nello schema del rapporto
d’agenzia”, Quaderno 9/90.
8
1.4. LA LETTERATURA SUL RAPPORTO DI AGENZIA: CASI DI
SEPARAZIONE TRA PROPRIETA’ E CONTROLLO. NOZIONE
DI COSTO DI AGENZIA.
I primi studi sul fenomeno di “agency”, possono essere fatti risalire
ad ADAM SMITH nel lavoro “La ricchezza delle nazioni” del 1776. In
quell’opera, il problema riguardava la separazione tra proprietà e
controllo, l’autore immaginava i manager di una società per azioni
comportarsi meno diligentemente nella gestione aziendale, rispetto ad
una società gestita direttamente dai suoi proprietari, in quanto, in tal
caso, essi amministravano il denaro altrui. Ma è nel 1932, con il lavoro
di Berle e Means
(8)
, che il problema di agenzia comincia a delinearsi in
una visione più precisa. Infatti, viene messo in luce il diverso obiettivo
che perseguono i manager ed i proprietari, con i primi che cercano di
massimizzare i propri profitti e con i secondi che vorrebbero
massimizzare i profitti dell’impresa
(9)
. Il primo studio fondamentale, che
affronta il rapporto di agenzia da un punto di vista formale, è quello di
Ross del 1973
(10)
. La novità proposta da Ross rappresenta un nodo
fondamentale nell’evoluzione della letteratura sul rapporto d’agenzia,
egli affronta tale rapporto utilizzando strumenti di microeconomia (le
funzioni di utilità) per determinare lo schema retributivo ottimale. Ross
propone, come possibile soluzione efficiente al problema di agenzia, la
massimizzazione di una funzione di utilità costituita dalla media
ponderata delle funzioni di utilità dell’agente e del principale. Ma è dal
1976 che il fenomeno dell’agenzia acquisisce un ruolo primario
nell’ambito della ricerca economica grazie al contributo di Jensen e
(8)
BERLE A. & MEANS G., 1932, “The Modern Corporation and Private Property”; ed. It.:
“Società per azioni e proprietà privata”, Einaudi, Torino, 1966.
(9)
BIGELLI M. & SANDRI S., 1994, “Le Soluzioni al Problema di Agenzia: il Mercato, i
Sistemi Interni di Controllo e gli Investitori Attivi”, in
“Intermediazione finanziaria e mercato delle imprese”, a cura di
Rocco Corigliano, Editrice CLUEB Bologna, pp. 33.
(10)
C.f.r. nota (6) a pag. 8.
9
Meckling
(11)
. Nel loro lavoro, il problema di “agency”, e con esso i costi
che ne derivano, non è solo individuato come scaturito dalla
separazione tra proprietà e controllo. Essi affermano che, data una
certa struttura proprietaria, la coscienza degli investitori esterni delle
possibili condotte dei manager, porterà i costi derivanti dallo schema di
agenzia, ad essere sostenuti dai manager-proprietari “attraverso un
minor valore realizzabile dalla vendita di azioni ad investitori esterni e
condizioni di finanziamento più onerose”
(12)
.
1.4.1. NOZIONE DI COSTO DI AGENZIA.
Merita, ora, porre la nostra attenzione sui costi che derivano dal
problema di agenzia. Come abbiamo visto in precedenza, all’interno di
un’impresa, si possono configurare rapporti di agenzia tra azionisti e
manager, ma anche tra principale e venditore come tra azionisti e
creditori esterni. Quindi, nel caso della separazione tra proprietà e
controllo, si può parlare di costi di agenzia in caso di riduzione del
valore dell’impresa, come minor valore di mercato dei titoli di proprietà
detenuti in portafoglio dagli azionisti, derivante da scelte inefficienti da
parte dei manager o dovuto al consumo di risorse aziendali per uso
personale da parte degli stessi manager
(13)
. Possiamo, però, parlare di
costi di agenzia visti come traguardi di vendita non raggiunti, cioè come
differenziale tra l’obiettivo ed il risultato ottenuto, quindi come perdita di
potenzialità sul mercato, ma anche, nel caso di azionisti che ricoprono
il ruolo di manager, ricorrendo a creditori esterni per investimenti molto
rischiosi, essi scaricano i possibili costi di una non buona riuscita di tali
investimenti sui finanziatori esterni. Naturalmente, dobbiamo
considerare che i comportamenti dell’agente non sono, in genere,
(11)
JENSEN M.C. & MECKLING W.M., 1976, “Theory of the firm: Managerial Behavoir,
Agency Costs and Ownership Structure”, in “Journal of Financial
Economics”, October, pp. 305-360.
(12)
C.f.r. nota (9).
(13)
C.f.r. nota (9) a pag. 9, in relazione alla pag. 34.
10
verificabili se non ex-post da parte del principale; quindi esistono dei
costi relativi all’attività di monitoraggio e costi relativi a sistemi di
incentivazione che vengono supportati dal principale (quando esso sia
in grado di supportarli) per aumentare le probabilità che gli “agenti”
prendano decisioni il più possibile asintotiche agli interessi dei
“principali”. Questi ultimi costi di monitoring e di incentivazione
dovrebbero funzionare per ridurre gli altri costi derivanti dal rapporto di
agenzia
(14)
.
1.4.2. SISTEMI ESTERNI ALL’IMPRESA PER IL CONTENIMENTO
DEI COSTI DI AGENZIA.
Presa consapevolezza dell’esistenza dei costi di agenzia, gli studi
successivi cercano di individuare meccanismi in grado di contenerli. In
quest’ambito, come sistemi di controllo esterni all’impresa, si possono
presentare alcune idee in relazione al mercato dei prodotti, al mercato
manageriale ed al mercato per il controllo delle imprese.
Faceva notare Hart
(15)
che il mercato dei beni e dei servizi prodotti
dall’impresa costituisce una forza volta a contenere i costi di agenzia.
Se rappresentiamo questi ultimi, infatti, come qualsiasi altra voce di
costo, possiamo affermare che un’impresa, che abbia costi maggiori
rispetto alle sue concorrenti, rischierebbe, come caso limite,
l’esclusione dal mercato. Questo meccanismo avrebbe una migliore
efficacia, più il settore in cui opera quest’impresa fosse concorrenziale.
Purtroppo, il contenimento o addirittura l’eliminazione dei costi di
agenzia, grazie ad un mercato dei prodotti concorrenziale, non avrebbe
luogo se questi costi fossero comuni anche alle altre imprese presenti
in quel settore
(16)
. Ma anche se, in queste condizioni, il mercato
(14)
C:f.r. nota (5) a pag. 8.
(15)
HART O.D., 1983, “The Market Mechanism as an Incentive Scheme”, in “Bell Journal of
Economics”, n. 14, pp. 366-382.
(16)
C.f.r. nota (11) a pag. 9.
11
“funzionasse”, rischierebbe di intervenire in ritardo, quando, ormai,
l’impresa è al limite del fallimento.
Per quanto riguarda il mercato manageriale, in relazione al
contenimento dei costi di agenzia, il lavoro di riferimento è quello
presentato da Fama
(17)
. Egli distingue due funzioni che in precedenza
erano assegnate all’imprenditore, cioè il potere decisionale che spetta
ai manager ed il rischio di impresa che ricade sugli azionisti. Questi
ultimi, però, viste le ridotte quote azionarie da loro possedute, non
effettueranno un monitoraggio sul lavoro dei manager, in quanto, ciò
sarà svolto dal mercato manageriale coadiuvato da un mercato dei
capitali efficiente e da un accorto consiglio d’amministrazione (board of
directors). Fama dice che un manager, che si renda responsabile di
risultati pessimi, subirà una perdita, rappresentata da un minor valore
del suo capitale umano espresso dal mercato manageriale come minor
valore attuale dei compensi futuri. Questa perdita avvicina l’obiettivo
del manager alla massimizzazione del valore dell’impresa (obiettivo
degli azionisti), perché è come se desse al manager una
partecipazione azionaria; quindi, grazie ad un mercato dei capitali
efficiente si valuterebbe meglio il lavoro svolto dai vari gruppi
manageriali nelle rispettive aziende. Ciò implica che i manager,
sapendo che il giudizio di ognuno di loro dipende dai risultati
dell’impresa, agiranno in modo da monitorare gli altri membri
dell’impresa. Ma, certamente, questo richiede un mercato dei manager
efficiente, in grado, cioè, di escludere i manager che non abbiano
raggiunto gli obiettivi previsti. In questo contesto c’è bisogno di un
“board” che sia in grado di valutare le prestazioni dei manager e di
applicare le eventuali correzioni. Purtroppo quanto esposto da Fama è
lontano dal realizzarsi visto che il mercato manageriale è costellato da
un numero esiguo di scambi non in grado di realizzare l’efficienza del
mercato stesso.
12
Più articolato il discorso riguardante il mercato per il controllo delle
imprese (market for corporate control). Immaginando un forte legame
tra efficienza di un’impresa ed i suoi titoli quotati, possiamo pensare
che una gestione inefficiente di tale impresa porterà a svalutazioni dei
titoli rispetto alle imprese del medesimo settore; rischiando possibili
scalate (con elevata probabilità di alti “capital gain”) da parte di coloro
che credono di poter gestire meglio l’impresa. In un tale contesto, i
manager sono portati ad evitare eccessi di inefficienza cosicché il
“market for corporate control” rappresenta una protezione per gli
azionisti di minoranza
(18)
. Ma studi successivi hanno condotto alla
“teoria dell’entrenchment”
(19)
. Alla base della teoria sta la relazione non
monotonicamente decrescente tra i costi di agenzia e la quota
azionaria posseduta dai manager; sostenendo che, nelle imprese di
grandi dimensioni, la riduzione dei costi di agenzia per quote crescenti
di “proprietà manageriale” potrebbe essere compensata sia dalla
perdita di vantaggi della diversificazione sia dalla minore
specializzazione degli agenti decisionali, portando manager,
tendenzialmente avversi al rischio, a rifiutare progetti con flussi di
cassa incerti, anche se molto redditizi. Tutto questo trova come base
un lavoro empirico svolto da Morck, Shleifer e Vishny
(20)
. Vengono
prese in considerazione due grandezze, una è l’efficienza dell’impresa
rappresentata dal Q di Tobin (rapporto tra valore di mercato
dell’impresa [CN + D] e costo di sostituzione delle sue attività tangibili),
l’altra è la quota azionaria del management. La relazione che ne risulta
è di tipo non monotonico, con la maggiore efficienza che si realizza per
(17)
FAMA E., 1980, “Agency Problems and the Theory of the Firm”, in “Journal of Political
Economy”, Vol. 88, n. 2, pp. 288-307.
(18)
MANNE H.G., 1965, “Mergers and the Market for Corporate Control”, in “Journal of
Political Economy”, Vol. 73, n. 4, pp. 110-120.
(19)
FAMA E. & JENSEN M.C., 1983, “Separation of Ownership and Control”, in “Journal of
Law and Economics”, Vol. 26, June, pp. 301-325;
MORCK R., SHLEIFER A. & VISHNY R.W., 1988, “Management Ownership and
Market Valuation: An Empirical Analysis”, in “Journal of Financial
Economics”, Vol. 20, pp. 293-315.
(20)
C.f.r. nota prec. per Morck, Shleifer e Vishny (1988).
13
una quota azionaria del management del 5% che, secondo gli autori, è
riconducibile sia alla maggiore convergenza di interessi per quote
intorno a quel valore, sia perché i manager possono detenere più
azioni grazie a determinati “stock options” e che le loro posizioni
dipendono dai loro schemi retributivi. Mentre per quote azionarie del
management intorno al 25% si ha la peggiore efficienza perché i
manager-proprietari si sentono protetti da possibili scalate ostili.
Un accenno, come possibile soluzione esterna all’impresa per la
riduzione dei costi d’agenzia, riguarda il livello d’indebitamento di
un’impresa. Come emerge dai lavori di Jensen
(21)
e Kaplan
(22)
,
manager di imprese con elevati flussi di cassa, appartenenti a settori
industriali maturi o in declino, si trovano ad investire questi flussi in un
ambiente ormai da abbandonare, quando dovrebbero distribuirli agli
azionisti. Quindi, in tale contesto, l’aumento del livello d’indebitamento
agirebbe per ridurre i costi di agenzia dovuti agli elevati flussi di cassa
di cui i manager potrebbero disporre, abbassando il livello di questi
flussi. In particolare, secondo Jensen (confermato dal lavoro di
Kaplan), il successo delle operazioni di “leveraged buyout”
dipenderebbe sia dal ruolo preminente del debito nella struttura
finanziaria, sia dalla remunerazione dei manager correlata alle
prestazioni. Tutto ciò, come fa notare Rappaport
(23)
, può essere vero
solo per settori maturi che hanno flussi di cassa regolari in grado di
coprire alti debiti, del resto l'LBO è una forma organizzativa transitoria.
(21)
JENSEN M.C., 1986, “Agency Costs of Free Cash Flows, Corporate Finance and
Takeovers”, in “American Economic Review”, September-
October, pp. 305-360;
JENSEN M.C., 1989a, “The Eclipse of the Public Corporation”, in “Harvard Business
Review”, September-October, pp. 61-74;
JENSEN M.C., 1989b, “Active Investors, LBOs and the Privatization of Bunkruptcy”, in
“Journal of Applied Corporate Finance”, n. 2, pp. 35-44;
JENSEN M.C., 1993, “The Modern Industrial Revolution, Exit, and the Failure of
Internal Control Systems”, in “Journal of Finance”, Vol. 48, n. 3,
pp. 831-880.
(22)
KAPLAN S.N., 1989, “The Effects of Management Buyouts on Operating Performance
and Value”, in “Journal of Financial Economics”, Vol. 24,
pp. 581-618.
(23)
RAPPAPORT A., 1990, “The Staying Power of the Public Corporation”, in “Harvard
Business Review”, January-February, pp. 96-104.
14
1.4.3. SISTEMI INTERNI ALL’IMPRESA PER IL CONTENIMENTO
DEI COSTI DI AGENZIA.
Le forze di mercato che intervengono per ridurre i costi di agenzia,
entrano in gioco in periodi in cui il problema di “agency” è già in fase
avanzata, non portando mai a soluzioni di “First Best”. Il problema deve
essere combattuto sul fronte interno all’impresa; saranno, quindi,
elementi endogeni che svolgeranno un’azione volta alla riduzione dei
costi di agenzia prima che questi si manifestino in tutta la loro forza e
portino verso situazioni critiche per la sopravvivenza dell’azienda.
Indubbiamente, il consiglio di amministrazione, dovrebbe rivestire
un ruolo fondamentale da questo punto di vista. Nella realtà dei fatti gli
interventi che esso compie sono limitati ed inefficienti, soprattutto in
quei casi in cui sarebbe più opportuno, come nelle imprese di settori
industriali maturi e in declino, ma, anche nei casi in cui un’azienda
presenti “performance” inferiori a quelle del settore di appartenenza.
A tal proposito, per favorire un buon funzionamento del consiglio
di amministrazione, Sahlman
(24)
ritiene che il rischio e la
remunerazione di un membro del consiglio non siano ben correlati.
Quindi, i soggetti più capaci non sono attratti da questi ruoli, in più, il
“non collegamento” tra prestazioni dell’impresa e retribuzioni limita
l’interesse dei membri del consiglio ad esercitare un’azione di controllo
adeguata. Jensen
(25)
fa notare il fattore relativo ai problemi informativi
in connessione al fatto che frequentemente il presidente del “board” ed
il CEO coincidono.
Un altro sistema interno di controllo per la riduzione dei costi di
agenzia, riguarda gli incentivi ai manager. Un primo studio
fondamentale è rappresentato dal lavoro di Ross
(26)
. Egli considera lo
(24)
SAHLMAN W.A., 1990, “Why Sane People Shouldn’t Serve on Public Boards”, in
“Harvard Business Review”, May-June, pp. 28-35.
(25)
C.f.r. nota (21) a pag. 14 per Jensen (1993).
(26)
C.f.r. nota (6) a pag. 8.
15
schema retributivo ottimale secondo la teoria microeconomica,
utilizzando, quindi, funzioni di utilità sia per il principale sia per l’agente.
Individua, nell’insieme degli schemi retributivi, l’insieme che dà
soluzioni Pareto-efficienti che permettono, cioè, di risolvere il problema
dei costi di agenzia massimizzando una funzione di utilità, data dalla
somma ponderata delle utilità del principale e dell’agente. Con piani
retributivi in cui sono presenti incentivi si cerca di far avvicinare gli
obiettivi dei manager a quelli degli azionisti. Quindi, un buon incentivo
è rappresentato dal collegare i compensi manageriali al valore
dell’impresa. Possiamo vedere 3 esempi di incentivi con relative
implicazioni: bonus, stock options e piani che si basano sulla
“performance” relativa. I primi si basano quasi completamente su valori
contabili come la crescita degli utili per azione, ma, purtroppo, queste
grandezze sono facilmente manipolabili e spingono i manager verso
risultati di breve periodo. Le stock options sono legate a variazioni dei
prezzi azionari riuscendo ad allineare gli stipendi dei manager al valore
dell’impresa. Tutto ciò presenta degli inconvenienti per il fatto che il
valore delle azioni dipende anche da fattori di mercato, sui quali il
manager non può avere controllo. Quindi si potrebbe avere, in base
all’andamento generale del mercato, un premio od una perdita per una
gestione inefficiente o per una gestione efficiente. Per quanto riguarda i
sistemi basati sulla performance relativa rispetto al settore o rispetto
alle imprese concorrenti, si rischia di giustificare il reinvestimento dei
flussi di cassa (free cash flows) in settori senza opportunità di crescita.
Ma questi tre sistemi di incentivi presentano un problema comune,
perché prevedono un premio per una gestione efficiente ma non
prevedono penalità per gestioni inefficienti.
Uno schema remunerativo particolare è quello presentato da
Jensen-Murphy
(27)
& Stewart
(28)
per i manager proprietari.
(27)
JENSEN M.C. & MURPHY K.J., 1990a, “CEO Incentives – It’s Not How Much You Pay,
But How”, in “Harvard Business Review”, May-June,
pp. 138-153.