- 1 -
Pr e me s sa
Prima di iniziare l‟esposizione della mia tesi, ho ritenuto utile
inserire una “premessa”. Non si tratta di un capitolo vero e
proprio, poiché non riguarda in maniera specifica nessuno degli
argomenti che costituiscono il fulcro del mio lavoro, piuttosto è
una riflessione che sento il bisogno di condividere, poiché è da
essa che è scaturito in me il desiderio di sviluppare questa tesi di
laurea.
Questa premessa non è indispensabile ai fini della
comprensione dei capitoli successivi, ma forse potrebbe
stimolare l‟interesse del lettore verso gli stessi, e soprattutto
aiutarlo ad immedesimarsi con chi scrive, cioè con un ragazzo di
24 anni che, giunto alla conclusione del suo percorso di studi
universitari, si ritrova a doversi inserire in una società e in un
sistema economico che proprio per via degli studi effettuati gli
appaiono ancora più pieni di contraddizioni e problemi da
risolvere.
Il significato della crisi
I due anni in cui si è svolta la mia Laurea Magistrale – dalla
fine del 2008 alla fine del 2010 – sono stati caratterizzati
fondamentalmente da tre parole: “crisi”, “precarietà” e
“insicurezza”. Con queste parole ci si è riferiti a diversi aspetti
che compongono la nostra realtà, dall‟economia all‟ambiente,
dalla politica alla società. Dalle informazioni che ci arrivano dai
giornali, dalla televisione, da internet, nonché dalla maggior parte
delle conversazioni che possiamo fare con le persone intorno a
noi, sembra che ovunque vi sia crisi e paura del futuro che ci
attende, e questo fa si che sempre più persone si sentano insicure,
scoraggiate e incapaci di vedere la vita e il proprio futuro in
modo positivo.
- 2 -
Ma che cos‟è in realtà una “crisi”? E quali sono nello specifico
le crisi che stiamo vivendo?
Per comprendere meglio il significato del termine “crisi” sono
andato a cercare la definizione che ne dà il dizionario Zingarelli:
“Dal greco “krisis”: separazione, scelta, giudizio. Fase della vita
individuale o collettiva, particolarmente difficile da superare e
suscettibile di sviluppi più o meno gravi. Crisi morale, religiosa,
monetaria, agricola, commerciale: profondo turbamento di natura
spirituale, morale, religiosa e sim., che comporta scelte e decisioni
spesso definitive; crisi economica: rallentamento a volte brusco,
nell‟attività economica considerata in complesso; punto di svolta
superiore che segue il passaggio dalla fase di espansione alla fase di
depressione.”
Questa definizione è a mio modo di vedere “illuminante”: da
una parte conferma il sentire comune riguardo al fatto che
l‟umanità sta vivendo una crisi a trecentosessanta gradi, ma
dall‟altra l‟etimologia della parola ci spiega anche cosa
dovremmo fare per superare nella maniera più serena possibile
questo momento di turbamento e difficoltà: imparare a guardarci
intorno, osservare la nostra realtà, ed effettuare una
“separazione” tra ciò che serve ancora e ciò che invece non
serve più per vivere in un mondo diverso da quello passato.
Separare quindi ciò che deve essere cambiato da ciò che invece è
giusto lasciare cosi com‟è. In sostanza bisogna effettuare una
separazione tra ciò che è “bene” e ciò che è “male”, per il futuro
nostro e per quello del pianeta, ed emettere quindi un “giudizio”.
Una volta emesso questo giudizio, cioè una volta comprese quali
sono quelle alternative che dalla nostra analisi risulteranno essere
più convenienti, dovremo operare una “scelta”, ed agire di
conseguenza. In questo modo avremo affrontato la crisi, e
l‟avremo superata.
Non è quindi il momento della rassegnazione, bensì
dell‟azione. La situazione attuale è chiara: “una parte del mondo,
- 3 -
quella occidentale, ha vissuto per decenni al di sopra delle sue
possibilità, in parte sfruttando il Sud del mondo e in parte
accumulando debiti sempre meno sostenibili. Oggi i nodi stanno
venendo al pettine, tanto dal punto di vista economico e
finanziario quanto da quello ambientale”
1
. Siamo quindi chiamati
a interrogarci su come risolvere le grandi problematiche che noi
stessi abbiamo creato, correggendo gli errori commessi fino ad
ora e promuovendo nuovi stili di vita (e quindi anche di
produzione, di distribuzione e di consumo) che permettano
un‟uscita dalla crisi ed il suo superamento.
Quello che stiamo vivendo oggi è infatti il frutto di scelte
operate in passato, e quello che ci riserverà il domani dipende
dalle decisioni che sapremo prendere oggi. E queste decisioni
devono essere prese in ambito economico, sociale ed ambientale,
considerando anche le forti interconnessioni che esistono tra
questi aspetti della realtà.
La crisi ambientale e la crisi economica
Se analizziamo la situazione a livello ambientale è facile
rendersi conto che gli impatti prodotti dal nostro sistema
economico e dai nostri stili di vita sugli ecosistemi naturali - per
via del prelievo sempre maggiore di risorse e della produzione di
rifiuti
2
ed emissioni - ne stanno alterando gli equilibri.
Il mondo occidentale ha già messo a dura prova la capacità di
carico del nostro pianeta, ma la situazione è destinata a
1
Tratto da un articolo di Andrea Baranes, “La finanziarizzazione della vita sociale”, in
Carta Almanacco, Anno XI, n.°28, p. 80
2
Secondo il rapporto “Panorama mondiale sui rifiuti 2009”, realizzato dal gruppo
“Veolia Environmental Services”, in collaborazione con il prof. Philippe Chalmine
dell‟Università di Parigi-Dauphine, il totale di rifiuti prodotto annualmente a livello
globale ammonta a circa 4 miliardi di tonnellate, oltre 650 chilogrammi per ogni
abitante del pianeta, con una produzione ovviamente molto maggiore nei paesi ricchi
rispetto a quelli poveri.
- 4 -
peggiorare se consideriamo che la popolazione mondiale è in
crescita, e che paesi molto popolosi come Cina, India, Brasile e
Russia stanno sperimentando un aumento sensibile dei consumi e
della produzione di rifiuti ed emissioni.
La domanda di energia è in costante aumento, e le fonti
principali da cui fino ad oggi l‟abbiamo attinta (i combustibili
fossili) stanno andando incontro al loro esaurimento
3
.
L‟IPCC
4
è da anni che sta mettendo in allerta i governi
mondiali relativamente al problema del Global Warming. Il suo
documento di sintesi del 2007, stilato per aiutare i policy makers
nella scelta di decisioni e politiche da intraprendere, si apre
affermando che
“il riscaldamento dei sistemi climatici è inequivocabile, così come è
reso evidente dall‟osservazione dell‟aumento delle temperature medie
globali dell‟aria e degli oceani, dallo scioglimento diffuso di neve e
ghiaccio e dall‟innalzamento medio globale dei livelli dei mari. [...] Le
evidenze osservate da tutti i continenti e dalla maggior parte degli
oceani mostrano come molti sistemi naturali sono colpiti dai
3
Negli ultimi anni diversi studiosi in tutto il mondo (tra cui Colin Campbell, Jean
Laherrère ed altri) hanno ripreso le teorie del famoso geofisico americano Marion
King Hubbert, cercando di estrapolare e formalizzare meglio i suoi risultati al fine di
prevedere il picco della produzione mondiale di petrolio e gas naturale. Sebbene tali
analisi risultino molto più complicate a causa della grande incertezza sulle riserve
petrolifere di molti stati (in particolare di quelli mediorientali), la maggior parte delle
analisi fa cadere il "picco di Hubbert mondiale" all'incirca nel secondo decennio
del XXI secolo o, più precisamente, entro il 2020, anche nel caso in cui vi fossero
ulteriori crisi economiche, che potrebbero temporaneamente ridurre la richiesta di
petrolio.
4
Intergovernmental Panel on Climate Change (comitato intergovernativo sul
mutamento climatico). E‟ un comitato scientifico creato nel 1988 da due organismi
delle Nazioni Unite, la World Meteorological Organization (WMO) e l'United
Nations Environment Programme (UNEP) allo scopo di studiare il fenomeno del
riscaldamento globale. I rapporti periodici diffusi dall'IPCC sono alla base di accordi
mondiali quali la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici
e il Protocollo di Kyoto che la attua.
- 5 -
cambiamenti climatici regionali, in particolare dall‟innalzamento della
temperatura.”
5
Le principali conseguenze che questi cambiamenti climatici
stanno producendo si possono riassumere nello scioglimento dei
ghiacciai, nell‟acidificazione degli oceani, nella scomparsa di
specie viventi sia nei mari che sulla terraferma, nell‟avanzare
della desertificazione, nella diminuzione della disponibilità di
acqua potabile e di terre fertili, nell‟inondazione di molti territori
costieri, nell‟aumento di fenomeni atmosferici distruttivi.
Ovviamente in questo momento non tutti questi effetti si sono già
manifestati pienamente (anche se i primi sintomi si stanno già
facendo avvertire), ma ciò che il documento dell‟IPCC sottolinea
è il fatto che se non si farà nulla per correggere queste tendenze, i
danni per il nostro ecosistema e per la nostra specie potrebbero
essere enormi.
Dello stesso avviso è il “World Development Report 2010”
della Banca Mondiale, che fin dalla sua introduzione si sofferma
sul fatto che la gran parte degli effetti del cambiamento climatico
(dal 75 all‟80 percento) si riverseranno inevitabilmente sulle
fasce più povere della popolazione mondiale
6
. E sono tutti
d‟accordo sul fatto che non basterà di certo un trattato
internazionale come il protocollo di Kyoto per risolvere la
problematica. Saranno necessari invece accordi internazionali più
coraggiosi ed incisivi, e soprattutto un maggior impegno da parte
delle istituzioni e delle imprese per il rispetto degli accordi presi,
nonché una maggiore presa di coscienza da parte dei
consumatori. Già, perché nonostante le evidenze scientifiche, che
dimostrano come la componente delle attività antropiche giochi
5
IPCC, Climate Change 2007: Synthesis Report, Summary for Policy Makers
(traduzione dal documento originale, in lingua inglese), p.2
6
Per ulteriori approfondimenti sul tema si osservi The World Bank, World
Development Report 2010
- 6 -
un ruolo fondamentale per quanto riguarda il riscaldamento
globale, c‟è ancora chi sostiene che l‟aumento delle temperature
a cui stiamo assistendo si tratti di un fenomeno naturale, sul
quale l‟uomo, con il suo stile di vita e il suo consumo non ha
grande possibilità di incidere.
Invece basta leggere il Living Planet Report 2010, pubblicato
dal WWF (in collaborazione con la Zoogical Society of London
e il Global Footprint Network), per capire che è stata proprio la
forte rincorsa al benessere e alla ricchezza degli ultimi 40-50
anni ad aver esercitato una pressione insostenibile sul nostro
pianeta. I due indicatori principali su cui si basa (l’indice del
pianeta vivente
7
e l’impronta ecologica
8
) mostrano chiaramente
che la situazione dei nostri ecosistemi è peggiorata drasticamente
dagli anni ‟70 in poi, ed oggi è arrivata ad un punto critico, che
rende necessario un forte cambiamento di rotta a livello globale.
Questo pensiero è sostenuto anche da altri studi, come quelli
portati avanti fin dal 1972 dal cosiddetto “Club di Roma” con il
suo famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo (poi aggiornato
7
Il Living Planet Index si basa sui trend di oltre 7.953 distinte popolazioni di
2.691specie di vertebrati in tutto il mondo. Questo indice viene scomposto in 3
diversi indici: LPI terrestre (diminuito del 25%), LPI marino (diminuito del 24%) e
LPI delle acque dolci (diminuito del 35%).
8
L‟impronta ecologica calcola la porzione di superficie terrestre che sarebbe
necessaria per produrre le risorse naturali consumate dalla popolazione di vari paesi e
per assorbirne i rifiuti (vengono considerate tali solo le emissioni di CO2). In
particolare misura la superficie di terra e di acqua, produttive dal punto di vista
biologico, necessarie alla produzione delle risorse rinnovabili che le persone
utilizzano, comprende lo spazio necessario per le infrastrutture e la vegetazione per
assorbire il biossido di carbonio immesso (CO2), generato da attività umane.
Secondo questo indicatore, attualmente l‟umanità avrebbe bisogno di un pianeta e
mezzo per poter sostenere le proprie attività. Per approfondimenti sul tema si veda:
Wackernagel et al., Ecological Footprint of Nations:How Much Nature Do They
Use? How Much Of Nature Do They Have?, Xalapa, Messico, Centro de Estudios
para la Sustenibilidad, 10 marzo 1997; e anche il sito www.footprintnetwork.org
- 7 -
nella sua ultima versione del 2004 “I nuovi limiti dello
sviluppo”), che si sofferma in particolare sulla considerazione dei
limiti fisici del nostro pianeta, sia in termini di “sorgenti” che di
“pozzi”, ponendo l‟accento sulla necessità di porre un “limite alla
crescita”, o almeno a quella crescita “senza se e senza ma” che
non è in grado di riconoscere i limiti del pianeta che ci ospita. La
loro conclusione infatti è che la tecnologia e l‟auto regolazione
dei mercati da soli non possono bastare per risolvere i problemi
che si stanno generando a livello globale per via del superamento
dei limiti del nostro pianeta, ed è quindi necessario che l‟umanità
si adoperi per una transizione verso una “società sostenibile”, che
non consumi più risorse di quante il nostro pianeta non riesca a
generare e non produca più rifiuti di quanto non sia in grado di
assorbire. Per dirla con la definizione del Rapporto Bruntland:
una società che sia in grado di soddisfare i bisogni del presente
senza compromettere la capacità delle future generazioni di
soddisfare i propri. Una società in cui le persone vedano il loro
aumento del benessere in un ottica diversa da quella dell'homo
economicus (che lo misura solo in base al livello dei beni che è in
grado di possedere), tenendo in conto anche altri aspetti, come la
qualità delle proprie relazioni sociali e dell‟ambiente, e che
sappiano ridare il giusto valore a concetti fondamentali tante
volte enunciati nel corso della storia (ma quasi mai concretizzati
nella vita reale) come la Libertà, l‟Uguaglianza, la Fraternità, o
semplicemente la Giustizia, attribuendo a questa espressione il
senso filosofico del dare a ciascuno ciò che gli spetta secondo la
dignità dell‟essere umano.
Raggiungere un‟evoluzione di questo tipo vorrebbe dire
realizzare un grande cambiamento nelle coscienze delle persone,
e questo è uno di quegli obiettivi di fronte ai quali la gente spesso
si sente “impotente”, e per cui quindi si preferisce non lottare. La
storia però ci ha insegnato che i cambiamenti i grandi
cambiamenti, cioè quelli in grado di toccare nel profondo la
- 8 -
coscienza delle persone, si producono partendo proprio da
situazioni di forte crisi, e quindi da questo punto di vista la
situazione di “crisi globale” che stiamo vivendo potrebbe
stimolare questa transizione. L‟importante è non vedere la crisi
economica attuale come un ostacolo, bensì come un‟opportunità
per rimodellare il nostro sistema economico in maniera nuova.
Così afferma Angel Gurrìa, segretario generale dell‟OCSE
9
: “la
protezione della biodiversità
10
e degli ecosistemi deve
rappresentare una priorità nei nostri tentativi di costruire
un‟economia mondiale più forte, equa e pulita. La recente crisi
finanziaria ed economica, invece di costituire una scusa per
rimandare ulteriori azioni, deve servire a ricordarci la necessità
urgente di mettere a punto economie che rispettino
maggiormente l‟ambiente.”
11
Per capire quanto profonda sia questa crisi economica (che si
fa risalire solitamente alla crisi dei mercati del credito dell‟estate
del 2007
12
) e quali siano le proporzioni degli impatti che la stessa
ha prodotto sulla produzione mondiale, sui consumi, sul livello di
indebitamento degli stati, sull‟occupazione e sui redditi delle
famiglie, basta analizzare i dati economici recenti: solo nel 2009
il PIL mondiale ha subito una riduzione del -2% e del -4%
nell‟area Euro
13
. Per quanto riguarda il nostro paese il PIL è
9
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
10
Per biodiversità si intende l'insieme di tutte le forme viventi geneticamente diverse e
degli ecosistemi ad esse correlati. Implica tutta la variabilità biologica: di geni,
specie, habitat ed ecosistemi. L'anno 2010 è stato dichiarato dall'ONU l'anno
internazionale della biodiversità.
11
WWF, Living Planet Report 2010, biodiversità, biocapacità e sviluppo, p.3
12
Secondo altri si può far risalire alla seconda metà del 2006, quando cominciò a
sgonfiarsi la bolla immobiliare statunitense e contemporaneamente molti possessori
di mutui subprime divennero insolventi a causa del rialzo dei tassi di interesse.
13
Fonte: dati Banca Mondiale
- 9 -
diminuito del -1,3% nel 2008 e del -5% nel 2009, il tasso di
disoccupazione è aumentato di circa due punti percentuali
rispetto al 2007 (la disoccupazione giovanile si è portata al
29,4%
14
), e in questo stesso arco di tempo i consumi procapite si
sono ridotti del -4% (addirittura -7,70% i consumi alimentari,
arretramento che non ha precedenti nelle altre fasi congiunturali
recessive vissute dall‟economia italiana); per quanto riguarda i
redditi familiari degli italiani invece, gli ultimi dati Istat
evidenziano una diminuzione del -2,7% nel periodo 2008-2009,
che rappresenta la prima diminuzione dal 1995
15
. Dati sulla
stessa tendenza, se non più critici, si possono riscontrare anche
negli altri stati, e risulta quindi facile capire coma mai molti
economisti abbiano definito quella del „08-‟09 come la peggiore
recessione dal dopoguerra ad oggi.
Altri dati interessanti e rappresentativi delle difficoltà che
stanno vivendo le famiglie ce li fornisce una recente indagine
(giugno 2010) relativa agli “impatti sociali della crisi”,
pubblicata dall‟Eurobarometro della Commissione Europea e
realizzata in maniera omogenea nei diversi paesi dell‟Unione. Da
questa indagine risulta che ben il 37% degli italiani ritengono che
nell‟ultimo anno la povertà sia fortemente aumentata nel tessuto
sociale in cui vivono (rispetto ad una media europea del 24%) e
che un sesto della popolazione (oltre il 16%) non abbia i soldi per
fare fronte a spese ordinarie come il cibo o gli altri prodotti di
uso quotidiano (in questo avvicinandosi maggiormente alla
media europea). Ma ci sono dati ancora più allarmanti, come il
fatto che ben il 13,5% degli intervistati (media EU27 all‟11%)
abbia difficoltà a garantire assistenza sanitaria per sé e per la
propria famiglia e che meno di un terzo delle famiglie italiane
possa guardare al futuro con la tranquillità di poter far fronte
14
Fonte: dati Istat 2010
15
Fonte: dati ISTAT
- 10 -
senza problemi ad una spesa imprevista anche solo di mille euro.
Infine ci sono le preoccupazioni legate al lavoro: solo il 30%
degli italiani ritiene di avere la possibilità di trovare un nuovo
lavoro entro sei mesi dalla perdita del precedente, una
percentuale pari a circa la metà di quella dei paesi dell‟Europa
continentale
16
.
Uno spunto interessante di riflessione ce lo può dare poi
l‟analisi degli andamenti fatti registrare nell‟ultimo mezzo secolo
dall‟Indicatore di Salute Sociale (ISH), creato nel 1996 da Marc e
Luise Miringoff, studiosi della Fordhan University, che
rappresenta la media ponderata di sedici indicatori di progresso
sociale (fra gli altri: mortalità infantile, occupazione lavorativa e
redditi da essa derivanti, copertura sociale dei rischi sanitari),
messi a confronto con le variazioni del PIL. Questa analisi,
effettuata sugli Stati Uniti, evidenzia che i due indicatori
crescono insieme fino al 1973, ma a partire dal 1974 il PIL
continua a salire mentre l‟ISH inizia a scendere, e a metà degli
anni Novanta il valore dell‟ISH è nettamente più basso di quello
della metà degli anni Settanta. Altri indici di benessere,
introdotti da altri autori, hanno un simile andamento.
17
Non serve andare oltre nell‟analisi di dati per capire il tipo di
situazione che l‟Europa (e tutto il mondo occidentale) sta
vivendo. E tantomeno è il caso di affrontare le problematiche
sociali ed economiche che si stanno manifestando con tutta la
loro forza nei paesi delle aree Medio orientali e Nord africane in
questi ultimi mesi. Basta dare uno sguardo alle prime pagine dei
giornali (e documentarsi un minimo via internet) per capire che
le difficoltà che le persone (soprattutto le più deboli) stanno
16
Fonte: dati Eurobarometro 2010 – Commissione Europea
17
Sul tema è stato osservato Badiale M. e Bontempelli M., Per salvare la vita. 28 tesi
contro le barbarie,2008. Articolo scaricabile da www.rivistaindipendenza.org
- 11 -
affrontando sono innumerevoli, e che nessuna popolazione è più
disposta ad accettare soluzioni a questa crisi che comportino
ulteriori sacrifici da parte di chi non ha più nulla da dare.
Rispetto al passato il cambiamento dovrà essere più profondo,
di natura ideologica, e per far questo è necessario mettere a nudo
una volta per tutte i limiti del cosiddetto “fondamentalismo di
mercato”.
Questa non è infatti la prima crisi che il nostro sistema
economico si trova a dover fronteggiare, anzi, ad analizzare i dati
e i commenti degli economisti sulle crisi precedenti, essa appare
assolutamente simile a tutte le altre sia dal punto di vista delle
“cause apparenti” (iniziale crisi finanziaria e creditizia, dovuta
allo scoppio di bolle speculative a loro volta dovute ad un cattivo
risk management e allo short termism con cui troppo spesso si
tende ad operare nei mercati finanziari) che dei “rimedi” che
vengono adottati per superarla (collettivizzazione delle perdite
tramite massicci interventi pubblici in sostegno del sistema
finanziario). Ciò che è cambiato è il fatto che la globalizzazione,
collegata con l‟estremizzazione dell‟ideologia dei liberi mercati e
della liberalizzazione finanziaria, ne ha accresciuto le dimensioni
e la ricaduta sulle popolazioni e sulle imprese, e ha portato le
persone a interrogarsi in maniera diversa rispetto al passato sulle
sue motivazioni e sul suo significato. E‟ Joseph Stiglitz , premio
nobel per l‟economia nel 2001, ad affermare in un intervista del
2008 che “la caduta di Wall Street è per il fondamentalismo di
mercato quello che la caduta del Muro di Berlino è stata per il
comunismo”
18
, paragone ripreso anche da Anthony Giddens, tra i
padrini teorici di Tony Blair e del new labour.
18
J. Stiglitz, The fall of Wall Street is to market foundamentalism what the fall of the
Berlin Wall was to communism, in www.huffingtonpost.com/nathan-gardels/stiglitz-
the-fall-of-wall_b_126911.html
- 12 -
La necessità di un cambiamento
Possiamo quindi affermare che questa crisi è in qualche modo
diversa dalle altre perché segna un punto di rottura, un momento
di passaggio fondamentale che non si può ignorare andando
avanti come se nulla fosse. Se veramente vogliamo superarla in
maniera definitiva, ed evitare che si ripeta in futuro, c‟è bisogno
di rimettere in discussione molti dei “dogmi” sui quali abbiamo
costruito le nostre credenze economiche, analizzare quali sono le
sue “cause più profonde” e prendere le idonee misure per
correggerle.
E a tal proposito non è strano che tra gli economisti e i politici
si sia rianimato l‟interesse verso il pensiero di Karl Marx (al
punto che il presidente francese Nicolas Sarkozy si è fatto
fotografare mentre sfogliava le pagine de “Il Capitale”). Il
pensiero di Marx sulla crisi può essere infatti molto d‟aiuto nel
comprenderne le sue “cause profonde”.
A suo modo di vedere la radice ultima della crisi consiste nella
contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i
rapporti di produzione capitalistici. Il modello di produzione
capitalistico infatti da un lato tende verso il massimo sviluppo
delle forze produttive, ma dall‟altro i rapporti di produzione e di
proprietà che lo contraddistinguono (ossia il lavoro salariato,
l‟appropriazione privata della ricchezza prodotta, l‟orientamento
della produzione al profitto anziché al soddisfacimento dei
bisogni sociali) inceppano periodicamente lo sviluppo delle
stesse forze produttive, creando sovrapproduzione di capitale
(cioè un accumulo di capitale che non riesce a trovare
un‟adeguata valorizzazione) e sovrapproduzione di merci (cioè
un accumulo di merci che non riescono ad essere vendute ad un
prezzo tale da remunerare adeguatamente il capitale impiegato
per produrle). La crisi è il momento in cui tale contraddizione tra
forze produttive e rapporti di produzione si manifesta e, al tempo
stesso, il mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni
- 13 -
di accumulazione del capitale, grazie all‟aumento della
disoccupazione (e quindi abbassamento dei salari), al fallimento
di varie imprese (e quindi alla conseguente concentrazione che
ne scaturisce) e al deprezzamento di beni capitali, macchinari e
materie prime (e quindi al miglioramento dei margini di profitto
per chi li mette in opera). Di conseguenza secondo Marx
l‟eccesso di speculazioni e l‟abuso del credito non sono le vere
cause della crisi, ma solo strumenti attraverso i quali la
sovrapproduzione trova momentanei canali di sbocco e che si
manifestano puntualmente prima di ogni crisi, accelerandone lo
scoppio ed aumentandone la gravità. La crisi finanziaria è quindi
il sintomo, non la causa. Le cause sono invece da ricercare nel
fatto che il capitale è diventato il punto di partenza e il fine della
produzione e che la capacità di consumo dei lavoratori viene
strutturalmente limitata dall‟appropriazione del plusvalore da
parte del capitalista
19
.
Questa è ovviamente una semplificazione del complesso
pensiero di Marx, e sicuramente c‟è chi potrebbe obiettare che il
tale punto di vista non sia più attuale e rapportabile con il
presente. A conferma dell‟attualità delle sue riflessioni, e
dell‟importanza che esse possono rivestire per meglio
comprendere la realtà che stiamo vivendo, si può però analizzare
una ricerca pubblicata sul sito dell‟OCSE nel maggio del 2009,
che evidenzia come la produttività del lavoro fosse in
rallentamento già molto prima dello scoppio della crisi
finanziaria
20
. La conclusione della ricerca è piuttosto chiara:
“rispetto all‟assunto che il deterioramento dell‟economia reale sia
19
Sul tema è stato osservato: Giacchè V., Il capitalismo e la crisi, Roma,
DeriveApprodi, 2009, pp.16-20
20
La produttività del lavoro è calcolata in termini di quantità di merci prodotte per
lavoratore, quindi un suo calo indica una diminuzione della produzione a seguito di
un eccesso di offerta, cioè di sovrapproduzione.
- 14 -
stato semplicemente causato dalla crisi finanziaria, i dati danno
sostegno a una relazione più complessa”
21
.
Appare quindi evidente che il sistema economico attuale è
tutt‟altro che razionale ed efficiente: la produzione capitalistica
cosi come l‟abbiamo conosciuta non ha lo scopo di soddisfare
bisogni sociali, ma essenzialmente quello di conseguire un
profitto, la sua crescita di produttività ha bisogno di crisi
ricorrenti e di distruzione di capitale su larga scala per andare
avanti e, nonostante gli obiettivi dichiarati fossero
completamente diversi, nel corso del tempo ha portato più che
altro ad un aumento delle problematiche ambientali, delle
disuguaglianze e del numero di poveri nel mondo.
Il sistema dominante, e le lobby che lo sostengono, ha fatto di
tutto per far si che ogni idea alternativa di sistema produttivo
fosse rimossa dall‟immaginario collettivo, appiattendo il futuro
ad una semplice continuazione del presente. Nonostante questo
sono sempre di più le persone che oggi credono che non solo un
nuovo tipo di sistema economico fondato su valori diversi
rispetto a quelli attuali sia possibile, ma addirittura auspicabile se
non vogliamo che si verifichino catastrofi ambientali o il
prolungamento della stagnazione economica con tutte le
problematiche sociali ad essa connesse.
Non si tratta di voler fare i pessimisti o i catastrofisti, anche
perché esistono delle vie d‟uscita e sappiamo tutti che l‟uomo sa
essere estremamente creativo nel momento in cui si ritrova a
dover fronteggiare delle emergenze. Ma è importante capire che
c‟è urgenza di una forte presa di coscienza da parte delle persone
che porti ad un mutamento globale di paradigma. In sostanza si
tratta di fare quanto in nostro potere per stimolare una
21
Brackfield D., Oliverira Martins J., Productivity and the crisis: Revisiting the
fundamentals, 2009.
- 15 -
“rivoluzione della sostenibilità”
22
che investa l‟economia, la
società e l‟ambiente. Una “rivoluzione” che porti alla creazione
di nuove aziende o alla ristrutturazione di quelle già esistenti in
modo da ridurne l‟impronta ecologica; che porti alla creazione di
nuovi rapporti sia all‟interno delle aziende (maggiore tutela dei
diritti dei lavoratori e maggiore consapevolezza delle
responsabilità verso l‟azienda) che tra le aziende produttrici,
quelle della distribuzione e i consumatori (che possono riscoprire
uno spirito più collaborativo e meno competitivo), nonché tra i
governi e i cittadini (che devono rendersi conto dell‟importanza
di interessarsi della “cosa pubblica”, delegando meno ai partiti e
ai “politici” e attivandosi in prima persona sul loro territorio sotto
forma di associazioni, comitati, ecc.).
Sarebbe auspicabile che questa “rivoluzione” avvenisse in
maniera “controllata”, con il consenso di tutti e mossa da solidi
principi, come quelli elencati precedentemente. Ma come in un
tutte le rivoluzioni i suoi esiti non potranno essere previsti, e
soprattutto essa non potrà essere imposta dall‟alto bensì dovrà
scaturire dall‟immaginazione, dall‟intuizione e dalle azioni di
miliardi di individui, che dovranno saperla concretizzare nella
propria vita tramite piccole azioni quotidiane.
L’importanza delle reti e delle relazioni
Un cambiamento, che potremmo definire una vera e propria
“rivoluzione”, forse sta già avvenendo. Per favorirlo è però
necessario agevolare la circolazione delle informazioni, dato che
“l‟informazione è il fattore chiave del cambiamento”
23
. Abbiamo
bisogno di far fluire verso le persone nuove informazioni, più
22
Sul tema si veda Meadows D., Meadows D. e Randers J., I nuovi limiti dello
sviluppo – La salute del pianeta nel terzo millennio, Mondadori, Milano, 2006
23
Meadows D., Meadows D. e Randers J., I nuovi limiti dello sviluppo – La salute del
pianeta nel terzo millennio, Mondadori, Milano, 2006, p. 318