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CAPITOLO PRIMO
Il nuovo sistema penale tributario: genesi e linee guida
1. L’ineffettività della repressione dell’evasione fiscale anteriore alla Legge
516/82: la pregiudiziale tributaria
È di immediata evidenza, anche nell’apprezzamento dell’uomo comune, come
l’obbiettivo di fondo del diritto penale tributario – nel quale si esprime anche il
suo fondamento costituzionale (art. 53 Cost.) – si identifichi <istituzionalmente>
nella salvaguardia dell’interesse dello Stato a percepire in modo tempestivo e completo i
tributi, onde approvvigionare il proprio apparato delle risorse economiche necessarie per
lo svolgimento dei relativi compiti. Ottica nella quale i reati tributari – catalogati fra i
delitti contro la pubblica economia, in quanto offensivi del patrimonio dello Stato-
amministrazione complessivamente considerato – dovrebbero risultare
<naturalmente> imperniati sul fenomeno dell’evasione fiscale, che onde accertare
l’evasione bisogna preventivamente stabilire a quanto ammonti l’imposta dovuta,
in modo da far emergeremo scarto fra quest’ultima e l’imposta concretamente
versata dal contribuente. Una verità lapalissiana, ben s’intende, ma nella quale si
annida la scaturigine prima delle sofferenze del sistema penale tributario italiano.
La nascita di tale sistema può essere fatta risalire all’anno 1928, allorché con
la legge 9 dicembre 1928, nr. 2834 furono introdotte sanzioni penali per l’omessa
denuncia dei redditi, il compimento di atti diretti a sottrarre questi ultimi
all’imposizione e la morosità nel pagamento di sei rate successive d’imposta (artt.
2, 4 e 6 l. cit.). Faceva seguito, meno di un mese dopo la fondamentale legge < di
disciplina > 7 gennaio 1929, nr. 4 la quale dettava regole generali in materia di
violazioni finanziarie per molti versi derogatorie di quelle penali comuni e
destinate per lungo tempo a conferire carattere di accentuata specialità alla
materia. Dette regole apparivano espressive, primo visu, di un atteggiamento di
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particolare rigore verso gli illeciti di comparto: basti pensare, ad esempio, al
principio di fissità (art. 1 comma 1 l. cit., abrogato dall’art. 13 l. 516/82), in forza
della quale le norme incriminatrici finanziarie potevano essere abrogate solo per
dichiarazione espressa del legislatore; ovvero al principio di ultrattività (art. 20
l. 4/1929), per virtù del quale le leggi penali tributarie continuavano ad applicarsi
ai fatti commessi nel periodo della loro vigenza anche nel caso di successiva
abrogazione o modificazione in senso più favorevole.
In fatto, però, il ricorso allo strumento penale rimaneva attestato su livelli
minimali: sia la citata l. 2834/1928 che il r.d. 17 settembre 1931, nr. 1608, che di
lì a poco la surrogò, prevedevano invero, anche per le ipotesi frode fiscale,
esclusivamente pene pecuniarie (ammenda e multa), salva l’isolata comminatoria,
in caso di morosità del pagamento delle imposte, della pena accessoria della
sospensione dall’esercizio di un’attività. In una linea di intervento così morbida –
la quale attribuiva sostanzialmente alla sottrazione di ricchezza pubblica derivante
dall’evasione fiscale un minor disvalore sociale rispetto alla sottrazione di
ricchezza individuale connessa ai delitti contro il patrimonio – non era difficile
scorgere il riflesso dell’ideologia dei ceti dominanti, essendo reati fiscali, a
differenza di quelli contro il patrimonio, normalmente ascrivibili a soggetti
economicamente più forti.
Prescindendo da speciali norme incriminatici introdotte nell’immediato
dopoguerra, la pena detentiva faceva la sua comparsa sul palcoscenico penale
tributario – dopo l’ulteriore revisione della fattispecie criminose ad opera della l. 5
gennaio 1956, nr. 1 (c.d. legge Tremelloni) – solo con il testo unico delle leggi
sulle imposte dirette, approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, nr. 645, nel limite
massimo, peraltro, di sei mesi di arresto o di reclusione (artt. 243 ss d.P.R. cit.).
per assistere ad una vero e proprio salto qualitativo bisogna attendere la riforma
tributaria dell’inizio degli anni settanta, cui si accompagnava una brusca
impennata delle risposte punitive: reclusione da uno a cinque anni per la
sottrazione al pagamento dell’IVA ed il conseguimento di indebiti rimborsi (art.
50 commi 1 e 2 d.P.R. 26 ottobre 1972, nr. 633); reclusione fino a tre anni per
l’emissione o annotazione di fatture per operazioni inesistenti (art. 50 comma 3
d.P.R. 633/72); arresto fino ad un massimo di tre anni per l’omessa, incompleta o
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infedele dichiarazione dei redditi (art. 56 comma 1 d.P.R. 29 settembre 1973, nr.
600); reclusione da sei mesi a cinque anni per la frode fiscale (art. 56 comma 3
d.P.R. 600/73). A tali pene principali risultava d’altro canto affiancato un
massiccio apparato di pene accessorie, dal contenuto fortemente afflittivo (art. 50
comma 5 d.P.R. 633/1972, art. 57 d.P.R. 600/73).
Si trattava, però, di <tigri di carta>, in quanto la deterrenza astratta della
comminatoria di pena risultava vanificata nei fatti, da un peculiare istituto, già
contemplato dall’art. 21 l. 4/1929: la famosa pregiudiziale tributaria. Posto che i
reati erano, secondo l’accennata loro vocazione naturale, in buona parte imperniati
sull’evasione (essendo segnatamente richiesto, ai fini della punibilità, il
superamento di determinate soglie di evasione di imposta evasa), si era ritenuto
affatto inopportuno demandare al giudice penale – non specializzato in una
materia a così alto tasso tecnico, quale quella tributaria – il compito di
determinare l’entità dell’imposta dovuta dal contribuente, con tutti i connessi
problemi di coordinamento fra processo penale e contenzioso tributario. Di
conseguenza, si era stabilito che l’azione penale per i reati concernenti i tributi
diretti potesse avere corso solo dopo che l’accertamento dell’imposta fosse
divenuto definitivo a norma delle leggi regolative della materia: principio, questo,
che in occasione della riforma degli anni settanta era stato non solo ribadito (art.
56 comma 6 d.P.R. 600/73), ma esteso altresì ai reati in materia di IVA (art. 58
comma 5 d.P.R. 633/72).
Il meccanismo avrebbe potuto funzionare, peraltro, solo se il sistema fosse
stato congegnato in modo tale da garantire la definitività dell’accertamento
tributario in tempi ragionevolmente compressi. Ma in un ordinamento che
prevedeva ben quattro gradi di contenzioso, di esasperante lentezza, la
pregiudiziale tributaria si risolveva in uno strumento atto ad assicurare l’impunità
di fatto ai contribuenti che avessero avuto la minimale accortezza di sfruttare fino
in fondo gli strumenti di contestazione della pretesa fiscale che la legge metteva
loro a disposizione. In tal modo essi potevano procrastinare per dici anni, e anche
di più, l’avvio dell’azione penale nei loro confronti, con conseguente verticale
caduta (pur a fronte della previsione della sospensione del corso della
prescrizione, ex art. 56 comma 6 d.P.R. 600/73) dell’interesse al perseguimento
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dei singoli fatti criminosi. Non stupisce, pertanto, che nel periodo compreso tra il
1929 e il 1982 i reati tributari fossero rimasti ai margini della realtà giudiziaria
italiana.
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2. La legge 516/82 ed il modello dei reati prodromici
Sul finire degli anni settanta si andò peraltro manifestando una forte spinta per
una diversa e più efficace repressione. Alla tradizionale visione del reato tributario
come <reato del gentiluomo> - spesso accompagnato dal consenso sociale, nella
convinzione che fosse <moralmente apprezzabile sottrarre denaro ad uno Stato
sperperatore del pubblico denaro per destinarlo ad investimenti produttivi> -
cominciò a sostituirsi, nell’opinione pubblica e fra gli addetti ai lavori, una
maggior consapevolezza del danno sociale connesso all’evasione, non disgiunta
da una diffusa insofferenza per le sperequazioni di trattamento cui, anche a causa
dell’inefficienza del sistema repressivo, finivano per risultare soggette categorie
diverse di contribuenti, a seconda della minore o maggiore facilità di attivare
meccanismi evasivi (titolari di reddito da lavoro dipendente, da un lato,
professionisti e imprenditori dall’altro). Era inevitabile che il bersaglio principale
di tale movimento d’opinione fosse la pregiudiziale tributaria, giustamente
considerata come causa fondamentale dell’ineffettività delle norme penali di
settore.
Di fronte alle perduranti resistenze, specie fra i cultori del diritto tributario, ad
affidare al giudice penale complessi accertamenti rispetto ai quali egli era
considerato non adeguatamente attrezzato, la via maestra per superare l’impasse
sarebbe stata quella di abbinare all’abolizione delle pregiudiziale tributaria –
ferme restando le norme incriminatici vigenti – particolari misure organizzative
(quale, ad esempio, la costituzione di sezioni specializzate) volte ad incrementare
la professionalità di detto giudice in materia fiscale. La riforma prese invece una
strada del tutto diversa. Si ritenne, cioè – in particolare dal Ministro delle finanze
del tempo – che il problema potesse più agevolmente risolversi accompagnando
all’abbattimento della pregiudiziale una riscrittura delle previsioni punitive che
sganciasse gli illeciti penali dall’evasione d’imposta, facendoli coincidere con
condotte poste <a monte> di questa e di facile accertamento.
Già tracciata nel 1980 dal c.d. <progetto Reviglio> (disegno di legge n. 1507
del 13 marzo 1980), la riforma in tali sensi prese concretamente corpo con il d.l.
10 luglio 1982, nr. 429, con il quale il Governo – pungolato anche da due
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sentenze della Corte costituzionale che avevano aperto brecce nel sistema della
pregiudiziale
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- <bruciò> sul tempo i lavori di un’apposita Commissione
parlamentare mista (c.d. Commissione dei trenta): decreto-legge poi convertito,
con modifiche, dalla l. 7 agosto 1982, nr. 516.
A seguito di tale intervento, il diritto penale tributario mutava radicalmente
fisionomia. Già basato su reati di danno o di pericolo concreto per l’interesse
<finale> al prelievo fiscale, esso diveniva dominio dei c.d. <reati ostacolo>: di
reati , cioè, intesi a colpire violazioni <preparatorie> e solo astrattamente
sintomatiche d’un intento evasivo. La logica era sostanzialmente quella di far
operare il sistema sanzionatorio penale <non su fattispecie complesse che si
evidenziano … come conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione
tributaria, bensì su fattispecie prodromiche (e più semplici) individuabili in una
fase precedente … del procedimento d’imposizione>. Sul presupposto,
corrispondente all’id quod plerumque accidit, che chi intende evadere deve prima
inquinare in sostrato probatorio, l’accento si spostava segnatamente
sull’inosservanza degli obblighi strumentali di documentazione posti a carico
del contribuente allo scopo di consentire agli uffici finanziari la verifica dei redditi
o dei ricavi, con connessa massiccia irruzione nell’arcipelago penale tributario di
reati a carattere omissivo proprio. Facevano così la loro comparsa – accanto alla
tradizionale figura dell’omessa dichiarazione (estesa anche all’IVA), la cui
punibilità veniva peraltro disancorata dal quantum di evasione e collegata alla sola
entità dei componenti attivi non dichiarati – fattispecie quali l’omessa o parziale
fatturazione, l’omessa o parziale registrazione di corrispettivi, l’omessa o
irregolare conservazione delle scritture contabili, le diverse irregolarità in tema di
stampa, acquisto, detenzione e annotazione di stampati per la compilazione di
documenti di accompagnamento di beni viaggianti e ricevute fiscali (artt. 1, 2
comma 1, 3 l. cita). Al tempo stesso, venivano sanzionate, ed in forma più grave,
<forme di simulazione a carattere decettivo, intervenute in quella stessa attività di
documentazione e di dichiarazione>, anch’esse sintomaticamente dirette
all’evasione (le varie ipotesi di frode fiscale previste dall’art. 4 l. cit.). Il tutto con
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Cfr C. cost. 12 maggio 1982, nr. 88; C. cost. 12 maggio 1982, nr. 89.
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una curiosa <isola>, che vedeva l’intervento repressivo spostarsi una tantum ed in
modo del tutto <settoriale> sulla fase terminale del procedimento impositivo: id
est, l’omesso versamento di ritenute da parte del sostituto di imposta (art. 2
comma 2 l.cit.).
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3. La crisi del sistema
Risultava, peraltro, di immediata evidenza come la trasfigurazione del sistema
operata dalla l. 516/82 sacrificasse sull’altare di esigenze puramente processuali –
emancipare il giudice penale da accertamenti complessi, in assunto non alla sua
portata – un valore cardine della normazione penale, quale quello espresso dal
principio di (necessaria) offensività del reato. Il rinnovato diritto penale
tributario appariva, in effetti, agli antipodi di un <diritto penale dell’offesa>,
prestandosi, con la sua fitta griglia di incriminazioni, a colpire anche
l’inosservanze concretamente innocue sul piano del prelievo tributario (ad
esempio, irregolare conservazione delle scritture contabili da parte del
contribuente che avesse puntualmente adempiuto agli obblighi di versamento
dell’imposta; omessa annotazione dei ricavi in presenza di <costi in nero>
superiori, ecc.), o che addirittura potevano risolversi a vantaggio del fisco (omessa
presentazione di una dichiarazione IVA a credito, con conseguente esonero
dell’amministrazione finanziaria dall’obbligo di rimborso).
A fronte delle scelte operate dal legislatore del 1982, si opinava generalmente,
in dottrina, che l’oggetto giuridico dei reati tributari dovesse individuarsi, non
più, secondo la concezione tradizionale, nell’interesse <finale> e <sostanziale>
alla completa e tempestiva percezione dei tributi, quanto piuttosto in un interesse
<strumentale – intermedio>, a carattere essenzialmente <funzionale>, quale
quello al corretto e regolare svolgimento dell’attività di accertamento da parte
dell’amministrazione finanziaria, o – come altri preferiva, con formula à la page –
alla c.d. <trasparenza fiscale> del contribuente: in buona sostanza, cioè il
fenomeno penalmente rilevante era rappresentato non più dalla sottrazione del
reddito o del ricavo all’accertamento. Il rilievo che rispetto a tale interesse
<preliminare> le fattispecie criminose della l. 516/82 potessero qualificarsi
(almeno di regola) come reati di danno non bastava, tuttavia, a mascherare il
solare deficit delle stesse sul piano della concreta lesività. L’accennato processo
di<amministrativizzazione> della tutela penale tributaria, con il passaggio dalla
protezione di beni alla protezione di funzioni, si muoveva difatti in senso diametralmente
opposto al compito <garantistico> che il concetto di bene giuridico è chiamato ad
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assolvere, quale limite all’esercizio della potestà punitiva: elevare ad oggetto della tutela
<entità intermedie>, rispetto all’interesse sostanziale e <materialmente> aggredibile,
significava far coincidere tale oggetto con lo scopo dell’incriminazione, <privando di
ogni spessore e significato politico il riferimento stesso al bene giuridico>. Al limite del
paradosso, ed in palese frizione con il principio di estrema ratio, risultava d’altro canto
la circostanza che, invertendo la naturale scala dei valori tra illecito penale ed illecito
amministrativo, si criminalizzasse l’inadempimento di semplici obblighi contabili per
lasciare alla (sola) sanzione amministrativa il compito di reprimere la <vera> evasione
fiscale.
Ma al di là di considerazioni di ordine puramente dogmatico, era poi alla prova dei
fatti che la scommessa incautamente azzardata dalla l. 516/82 si rivelava assolutamente
perdente. Il sistema della repressione <a monte> non teneva adeguatamente conto del
problema della selezione dei fatti penalmente rilevanti, operando una criminalizzazione
ad ampissimo raggio, tale da determinare un fenomeno per il quale sarebbe fin troppo
facile evocare l’abusata immagine del legislatore schizofrenico: tolto il <freno> della
pregiudiziale tributaria, si passò, difatti, nel giro di pochi anni, da una situazione di
repressione inesistente ad un intervento penale a tappeto, che vide gli uffici giudiziari
sommersi da una vera e propria valanga di notitiae criminis concernenti reati tributari, al
punto che i relativi procedimenti presto per costituire la parte preponderante del carico di
lavoro delle procure delle Repubblica presso i tribunali, con picchi superiori addirittura al
50%.
Al tempo stesso, però la palese sproporzione di mezzi e di uomini rispetto alla massa
di posizioni da controllare, di cui continuavano a soffrire gli organi preposti alle verifiche
tributarie, portò alla proliferazione di accertamenti <epidermici>, capaci di rilevare bensì
violazioni formali i comunque di scarso spessore lesivo, ma senza riuscire ad attingere
alle manovre evasive più pericolose e meglio congegnate. La spirale perversa così
innescata portò dunque sul banco degli imputati, negli anni successivi all’entrata in
vigore della l. 516/82, decine di migliaia di cittadini, il cui unico torto era quello di aver
violato una qualche prescrizione in tema di tenuta della scritture, o di aver, quali sostituti
d’imposta, omesso di versare (o versato qualche giorno di ritardo) somme irrisorie a titolo
di ritenute; laddove invece il grande <evasore> poteva in genere dormire sonni tranquilli.
Sotto diverso profilo, poi, il fatto di aver anticipato l’intervento penale ad una fase
prodromica <costrinse> il legislatore dell’82, onde mantenere una certa proporzione fra
trattamento punitivo ed oggettivo disvalore della violazione, ad optare – almeno in
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rapporto alle fattispecie contravvenzionali, per le quali si ritornò ad utilizzare ampiamente
la pena pecuniaria, sola o in alternativa a quella detentiva – per soluzioni sanzionatorie
decisamente miti e come tali inidonee a costituire una seria controspinta per quanti
volessero realmente sottrarsi al pagamento dei tributi. Processi spesso lunghi e costosi(in
quanto gravati da <indagini bancaria>e patrimoniali, consulenze tecniche e perizie) si
concludevano così con condanne irrisorie, quando non con declaratoria di estinzione del
reato per oblazione.
Superati presto i trionfalismi e le illusioni della vigilia, si venne dunque ad instaurare
fra i contribuenti un clima di diffusa sfiducia sulla effettiva volontà dello Stato di colpire
l’evasione, sembrando ai più che il nuovo sistema fosse una tela di ragno intessuta in
modo da intrappolare la mosca, ma che invece lasciava passare il calabrone.
Se a tutto ciò si aggiungono le evidenti mende della l. 516/82 sul piano tecnico –
trattandosi di un mosaico normativo di taglio esasperatamente classico, fatto di
previsioni talora ai limiti della incomprensibilità e altre infarcite di espressioni equivoche,
destinate a scatenare vere e proprie battaglie interpretative (basti pensare alla frode fiscale
di cui all’art. 4 comma 1 nr. 7 che vide la Corte di cassazione e Corte costituzionale
scendere in campo su opposti fronti) – si ha completo il quadro di un fallimento
annunciato.
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4. L’insufficienza della novella del 1991
Bastarono dunque pochi anni a rendere evidente l’ineludibile esigenza di una
revisione della l. nr. 516/82. l’alternativa che si presentava al legislatore era quella
tra un radicale ripensamento della stessa <filosofia> di quest’ultima ed un
intervento <minimale>, ispirato sostanzialmente alla logica del <rattoppo>: e la
scelta cade sulla soluzione più agevole, vale a dire la seconda. L’operazione ebbe
luogo, ancora una volta, con lo strumento della decretazione d’urgenza, cotto il
pungolo dello <scollone> dato al sistema dalla <annunciata> sentenza della Corte
Costituzionale 28 gennaio 1991, nr. 35, con la quale era stata dichiarata la parziale
illegittimità costituzionale di una delle figure chiave della costellazione, quale il
già ricordato delitto di frode fiscale di cui all’art. 4 nr. 7 l. cit..
Ad onor del vero, l’originario d.l. 14 gennaio 1991, nr. 7 prefigurava un
maquillage alquanto inciso della legge del 1982, quantomeno sul piano della
valenza deflattiva, e tale da rappresentare comunque un significativo passo avanti
nel segno della razionalizzazione del comparto. Senonchè, dopo la decadenza del
decreto per mancata conversione e la sua riproposizione in termini pressocchè
identici (d.l. 16 marzo 1991, nr. 83), il Parlamento, nel condividere tale secondo
provvedimento con l. 15 maggio 1991, nr. 154, lo riscrisse per la larga parte sotto
la spinta di un demagogico fervore punitivo, si dà vanificare sostanzialmente le
finalità. Anche a prescindere da ciò, tuttavia, quel che <impediva un reale
miglioramento della disciplina era l’identità dell’orizzonte culturale entro il quale
sia la normativa originaria che la novella si collocavano: id est l’idea di colpire
pur sempre e soltanto condotte <preparatorie> all’evasione.
Ad accrescere vieppiù la distonia dell’apparato intervenne per giunta, di lì a
poco – di seguito a due generosi condoni fiscali <a basso costo>, con connessa
amnistia (l. 30 dicembre 1991, nr. 413 e d.P.R. 20 gennaio 1992, nr. 23) – la l. 12
agosto 1993, nr. 291 (di conversione del d.l. 14 giugno 1993, n. 187), che,
abrogando l’art. 541 l. 24 novembre 1981, nr. 689, consentì la sostituzione delle
pene detentive inflitte per reati tributari con le sanzioni previste dall’art. 53 di tale
ultima legge. In conseguenza di ciò, divenne possibile anche per gli imputati dei
reati più gravi (frode fiscale) – avvalendosi delle riduzioni connesse a circostanze
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attenuanti ed a riti alternativi (rito abbreviato, <patteggiamento>), in modo da
rientrare nel limite dei tre mesi di pena detentiva correttamente irrogata – ottenere
la sostituzione della stessa con la pena pecuniaria, e così di <chiudere> il processo
penale con il semplice pagamento di una (modesta) somma di danaro, senza
neppure <bruciare> la chance di una futura sospensione condizionale. Le famose
<manette agli evasori> - se mai erano state fatte tintinnare in precedenza –
diventavano, ancor di più, un’etichetta ai limiti del farsesco.
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5. La genesi e le ragioni della riforma introdotta dal D.Lgs nr. 74/2000
Già nel 1997 era stato presentato un disegno di legge
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che prevedeva la
depenalizzazione dei reati minori e di gran parte dei reati tributari.
Successivamente, l’art. 9 della legge 25 giugno 1999 nr. 205 ha introdotto le linee
direttive per l’emanazione del decreto legislativo recante la “Nuova disciplina dei
reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”.
La nuova normativa penale tributaria, entrata in vigore il 15 aprile 2000 con il
d.Lgs del 10 marzo 2000, pubblicato nella G.U. nr. 76 del 31.03.2000, ha
introdotto nuove fattispecie penali, tutte delittuose (cioè punibili se commesse
intenzionalmente), eliminando tutte le ipotesi contravvenzionali (cioè punibili
anche a semplice titolo di colpa) e modificando o abrogando gran parte delle
ipotesi delittuose già punite.
Il d.l. 10 luglio 1982 nr. 429, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto
1982 nr. 512, definito come provvedimento “manette agli evasori”, aveva reso
difficile ai Tribunali di tutta Italia, dove si celebravano miriadi di processi aventi
ad oggetto spesso contesti di poco rilievo, anche sotto il profilo sanzionatorio. Si
fa riferimento, ad esempio ai procedimenti per reati in tema di sostituto di
imposta, spesso conclusisi con patteggiamenti a miti sanzioni pecuniarie
sostitutive, ex art. 53 legge 689/81, delle pene detentive irrogate fino a tre mesi.
Sono, quindi, state abrogate – come si vedrà in seguito – quasi tutte le fattispecie
penali per le quali si configurava una punibilità a prescindere dall’evasione fiscale
eventualmente perpetrata (le c.d. ipotesi prodromiche, precedenti e funzionali
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Disegno di legge nr. 2570 approvato dalla Camera dei deputati il 25 giugno 1997, art. 6 (leggi
finanziarie e tributarie): “1. Sono sostituite da sanzioni amministrative, ove non già esistenti,
proporzionate all’entità dei tributi evasi, le sanzioni penali previste:
a. dagli artt. 282 agli art. 292 e 294 e 295 comma 1 e 296 del t.u. delle disposizioni legislative in
materia doganale, approvato con d.P.R. nr. 43/73;
b. dal d.P.R. nr. 633/72;
c. dal d.l. nr. 429/82, convertito, con modificazioni, dalla l. nr. 516/82 e successive
modificazioni, con esclusione dei delitti previsti dall’art. 4 del medesimo decreto legge;
d. dall’art. 2, comma 26, del d.l. nr. 853/84, convertito, con modificazioni, dalla l. nr. 17/85.
2. Sono trasformate in sanzioni amministrative pecuniarie, proporzionali alla fatturazione
della società ed alla gravità della violazione, le sanzioni penali di cui agli artt. 4, 5-quinques
e 17 del d.l. nr. 95/74, convertito, con modificazioni, dalla legge nr. 216/74.
3. In deroga all’art. 20 della l. nr. 4/29, le disposizioni del presente articolo si applicano anche
ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore della presente legge”.
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all’evasione), mentre si è privilegiata la scelta di individuare il momento
consumativi della maggior parte dei reati in quello della presentazione della
dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi e ai fini IVA. Così facendo,
il legislatore è in qualche modo tornato alle origini. L’art. 56 del d.P.R. nr.
600/73, infatti prevedeva il reato di dichiarazione fraudolenta o infedele, pur con
le debite distinzioni rispetto alla normativa attuale. Tuttavia, ricordiamo che allora
era vigente la cosiddetta pregiudiziale tributaria prevista dall’art. 21 della l. 7
gennaio 1929 nr.4, ove il procedimento amministrativo di accertamento
dell’evasione era preliminare e necessario perché potesse prendere le mosse il
procedimento penale. Oggi,come si vedrà, vengono a realizzarsi due tipi di
accertamento – uno di accertamento ed uno penale – l’uno indipendente dall’altro,
in ossequio al principio di speditezza del processo del processo penale sia a quello
di evitare ritardo nella riscossione delle imposte.
Alcune delle nuove fattispecie sono sostitutive dei c.d. reati di frode fiscale,
contemplati dall’art. 4 della legge nr. 516/82 e classificati in cinque condotte
tipiche, delle quali solo tre (quelle previste nelle lettere b, d, f), comunque con
modifiche rilevanti, costituiscono tuttora fattispecie penali:
1. lett. b): distruzione ed occultamento in tutto od in parte delle scritture
contabili e dei documenti contabili fiscalmente rilevanti, fattispecie oggi
prevista dall’art. 10 del decreto legislativo;
2. lett. d): emissione (non più, autonomamente, annotazione) di fatture e di altri
documenti per operazioni in tutto od in parte inesistenti, ora disciplinata
dall’art. 8 della riforma;
3. lett. f): dichiarazione fraudolenta dei redditi, ora contemplata dagli artt. 2 e 3
del decreto legislativo.
A queste ultime si è aggiunta altra fattispecie penale, quale la sottrazione
fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11), invero già prevista dall’art. 97,
sesto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973 nr. 602, espressamente abrogato
dall’art. 25 della riforma. Rimangono fuori dallo schema delle frodi fiscali (anche
se punite come delitti, cioè solo a titolo di dolo, in quanto volute) l’infedele
dichiarazione (art. 4) e l’omessa dichiarazione (art. 5).