8
norma penale. La nozione di rifiuto, infatti, contribuendo ad
esprimere la scelta politico-criminale racchiusa nelle varie figure
astratte di reato, riveste “una primaria valenza costitutiva dell’illiceità
penale delle condotte”.
Questo comporta che, per effetto dell’ampiezza o della ristrettezza
della norma extrapenale definitoria, la tutela penale si espande o,
viceversa, si comprime, rendendo indispensabile un’enucleazione
corretta e soprattutto certa del significato da attribuire alla nozione di
rifiuto. E’ evidente infatti che quanto più tale concetto resta indefinito
e incerto, tanto più elevata è la possibilità che le norme penali, il cui
contenuto esso concorre a individuare, contrastino con il principio di
legalità e di tassatività della legge penale.
La seconda parte della trattazione è dedicata all’analisi dei caratteri
generali dei reati contemplati nella parte IV del d.lgs. 152/2006,
evidenziando le conseguenze dogmatiche e le ripercussioni pratiche
delle scelte legislative adottate in merito alla loro formulazione.
Le inadeguatezze di cui sono state imputate le diverse fattispecie
ambientali ed in particolare, per quanto rileva ai fini della presente
trattazione, quelle comprese nella parte IV del Testo Unico,
conseguono ad opzioni legislative radicate, imperniate sulla scelta di
reati contravvenzionali a carattere prevalentemente formale, con un
ristretto spazio residuato per fattispecie delittuose.
La struttura dei reati ambientali, prevalentemente costruiti come reati
di pericolo astratto e incentrati sulla punizione di violazioni a precetti
amministrativi, ha suscitato il proliferare delle più accese critiche
dottrinali, costantemente impegnate da un lato, in un’opera di
demolizione delle fattispecie che portasse alla loro depenalizzazione,
e dall’altro, in un’attività di ricostruzione ermeneutica che le
riconducesse entro i confini dell’offensività e della legalità .
9
Il reato contravvenzionale, pur rappresentando il modello di elezione
legislativa per la punizione delle condotte antidoverose in materia di
ambiente, non si è rivelato efficace baluardo contro l’incedere dei
crimini ambientali, e non solo di quelli che si realizzano in forma
organizzata. L’incombenza di una rapida prescrizione, le concrete
prospettive di estinguere il reato tramite oblazione, e l’impossibilità di
accedere a penetranti strumenti di indagine snaturano l’efficacia
deterrente della sanzione penale e condannano all’inoperatività le
relative fattispecie.
In tale panorama sanzionatorio, non possono non trovare menzione le
forti potenzialità di contrasto alle c.d. “ecomafie” dell’unica fattispecie
delittuosa in materia di rifiuti, ovvero il reato di attività organizzate
per il traffico illecito, che colpisce le condotte di gestione abusive che
si realizzino in modo organizzato e continuativo.
Pur volendo tacere sui profili strutturali della norma, la cui redazione
frettolosa ed approssimativa è valsa a definirla addirittura
“rudimentale”, deve peraltro ammettersi che la sua introduzione
nell’”inefficace e pletorico arsenale sanzionatorio” ha consentito di
raggiungere risultati insperati nella lotta alla criminalità organizzata in
materia ambientale .
L’ultimo capitolo è dedicato all’esame delle fattispecie di cui alla parte
IV del T.U., seguendo un raffronto critico con i reati contemplati dalla
previgente normativa.
La maggior parte delle fattispecie ha subito, in verità, ben poche
modifiche, tanto che l’analisi dei relativi elementi costitutivi viene
condotta, sotto il profilo metodologico, attraverso gli orientamenti
dottrinali e giurisprudenziali sviluppatisi sotto il vigore della
precedente disciplina.
10
Particolare attenzione, infine, è riservata al reato di omessa bonifica,
in considerazione delle incisive modifiche subite col T.U.A., e al reato
di attività organizzate per il traffico illecito, in ragione della sua
natura delittuosa e dei cambiamenti che, in virtù di recenti proposte
legislative, potrebbero intervenire ad alterarne la struttura.
11
CAPITOLO I
EVOLUZIONE DELLA NOZIONE DI RIFIUTO
1.1. La direttiva 75/442 e il d.p.r. 915/1982
La prima e compiuta definizione normativa della nozione di rifiuto è
fornita dalla direttiva 75/442, ai sensi della quale si intende per rifiuto
“qualsiasi sostanza di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di
disfarsi secondo le disposizioni nazionali vigenti”. Una definizione che,
quando fu dettata, certamente rispondeva all’esigenza, sentita come
prioritaria dal legislatore comunitario, di regolamentare
uniformemente negli Stati Membri lo smaltimento e, più in generale,
la gestione dei rifiuti, al fine di evitare che disparità nelle legislazioni
nazionali costituissero un ostacolo alla realizzazione e al corretto
funzionamento del mercato comune nonché all’obiettivo di protezione
dell’ambiente.1
Gli intenti espressi dal legislatore comunitario non tardarono però ad
essere disattesi: inaugurando una tendenza destinata a caratterizzare
1
Cfr. primo e secondo considerando.
12
in futuro la disciplina di attuazione della normativa comunitaria,
l’Italia elaborò una nozione di rifiuto che risultava inspiegabilmente
diversa rispetto alla dizione Cee.2
L’art. 2 del D.P.R. 915/82, attuativo della menzionata direttiva,
definiva infatti il rifiuto come “ qualsiasi sostanza od oggetto
derivante da attività umana o da cicli naturali, abbandonato o
destinato all’abbandono”3.
La differenza concettuale tra la dizione comunitaria e quella nazionale
originò un’ intensa polemica accentuata dalla formulazione poco felice
della nuova norma: se la direttiva infatti ancorava la definizione di
rifiuto ad un criterio oggettivo, facendo leva su un dato storico, (“di
cui il detentore si disfi”) e uno normativo (“di cui il detentore abbia
l’obbligo di disfarsi”), il decreto italiano di attuazione introduceva,
accanto ad un parametro soggettivo esplicito (“abbandonato”), un
ambiguo criterio oggettivo di individuazione (“destinato
all’abbandono”)4, altamente suscettibile di rendere la definizione
normativa di rifiuto aperta a interpretazioni incerte e contrastanti.
La farraginosità e contradditorietà della nuova disciplina5, se da un
lato, come alcuni ritengono, si collega alla volontà di sottrarre i rifiuti
alla normativa di tutela comunitaria6, dall’altro può dirsi imputabile
alla stessa nozione fornita dalla direttiva, tassabile in sé di una
genericità e astrattezza tali da aver generato per prime le incertezze
2
G. AMENDOLA, I rifiuti: normativa italiana e comunitaria,Il sole 24 ore, 1998, p. 47
3
Cfr. Voce Rifiuti (smaltimento dei) in Enciclopedia del diritto, Giuffré, 1989, p.
796. La nozione giuridica di rifiuto prescinde dallo stato fisico e dalle sue
caratteristiche chimiche (organiche o inorganiche) e, per previsione comunitaria,
deve essere costituito necessariamente da cose mobili, nel senso dell’art 812 c.c.
4
P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Cedam, 2003, p.486, secondo il quale
la destinazione all’abbandono assume una connotazione “oggettiva”, in quanto può
derivare da un obbligo di legge o da un impossibilità di ulteriore impiego del residuo
in quanto tale nello stesso stabilimento.
5
L’espressione è utilizzata da Pretura di Asti, 10 gennaio 1986, PERINO, in Foro it.,
1986, con riferimento alle norme dell’intero decreto.
6
G. AMENDOLA, Gestione dei rifiuti e normativa penale,Milano, 2003, p. 59
13
interpretative della norma interna. I dissidi cui ha condotto
l’espressione ivi utilizzata sono imputabili al fatto che la stessa norma
comunitaria lascia intendere che l’individuazione delle sostanze da
considerare rifiuto sia rimessa all’esclusiva determinazione del
legislatore nazionale, non rilevando l’intenzione del detentore né la
qualità intrinseca delle sostanze stesse.7
Al di là delle colpe attribuibili alla normativa comunitaria comunque,
la trasposizione della norma nel diritto interno è indiscutibilmente non
rispondente allo scopo né allo spirito della direttiva e foriera di
problemi applicativi e incertezze interpretative. Oltre ad aver
contribuito a diffondere in Italia la convinzione che rifiuto sia tutto ciò
che risulta inservibile per chiunque e non invece, ogni sostanza che
abbia perso la propria utilità per il detentore, (e che possa quindi
servire ad altri).8, dando luogo ad una accesa disputa sulla corretta
individuazione dei residui, e sul discrimine tra questi e i rifiuti, la
disposizione italiana ha accentrato su di sé un dibattito avente ad
oggetto due diversi filoni interpretativi.
Dottrina e giurisprudenza si sono divise appoggiando infatti, da un
lato, una teoria oggettiva di rifiuto ancorata alla nozione di
abbandono, e dall’altro, una concezione soggettiva facente leva sulla
volontà del detentore di disfarsi o meno della cosa.
In base alla prima teoria quindi, i rifiuti diventano tali nel momento in
cui “escono dai cancelli dello stabilimento che li ha prodotti”9, perché
ivi non più riutilizzabili. Non assume rilevanza alcuna che le sostanze
siano suscettibili di essere riutilizzate economicamente o che vengano
cedute a terzi perché lo stato di abbandono richiesto quale
presupposto qualificatorio dall’art. 2 del d.p.r. 915/82 si verifica nel
7
A. JAZZETTI, I rifiuti: legislazione comunitaria e legislazione nazionale, Giuffrè,
1992, p. 90.
8
G. AMENDOLA, Gestione dei rifiuti e normative penale, cit., p. 60.
9
A. JAZZETTI, cit., p. 92.
14
momento in cui il detentore o produttore del materiale, “in seguito ad
una valutazione negativa circa la possibilità di ulteriore utilizzazione
del bene, ha deciso di sbarazzarsene senza preoccuparsi del destino
successivo della cosa”10. L’utilità della sostanza per il detentore
tuttavia, deve essere valutata non con riferimento all’intenzione di
questi, bensì in base al connotato oggettivo della sostanza stessa. 11
I sostenitori della teoria oggettiva ritengono altresì di ancorare la
definizione di rifiuto a quella di smaltimento di cui all’art. 1 del d.p.r.
915, che comprende le fasi di riutilizzo, rigenerazione, recupero,
riciclo e innocuizzazione: in questo modo costituirebbero rifiuto non
soltanto le sostanze abbandonate o destinate all’abbandono, ma
anche quelle orientate ai predetti scopi12. Tale percorso
argomentativo può risultare illogico e controverso, dal momento che
la nozione di smaltimento è distinta e successiva cronologicamente a
quella di rifiuto, per cui non si potrebbe considerare tale un bene che
già non rientri nei parametri di cui all’art. 2. I criteri espressi nel
suddetto articolo infatti, sarebbero i soli necessari e sufficienti a
consentire la qualificazione di una sostanza come rifiuto.13 La
forzatura del dato normativo, così come evidenziato dai sostenitori
dell’opposta teoria soggettiva, può tuttavia essere giustificata quale
frutto di un’interpretazione sistematica e in considerazione del fatto
che, nel decreto, la nozione di smaltimento precede quella di rifiuto.
10
Pretura di Asti, 10 gennaio 1986, PERINO, in Foro it., 1986, II, p. 443.
11
Cfr. Pretura di Arzignano, 24 marzo 1986, CALEARO, in Giur. Merito, 1987, II, p. 9,
dove si sostiene che quello che deve essere oggetto di valutazione non è tanto
l’intenzione o la volontà del detentore/produttore della sostanza, bensì se
quest’ultima abbia o no una utilità obiettivamente apprezzabile per chi la detiene.
12
G. AMENDOLA, Smaltimento dei rifiuti e legge penale, Napoli, 1988, p. 15.
13
In questo senso si esprimono i sostenitori della teoria soggettiva. Cfr. MORELLI e
P. GIAMPIETRO, Testo Unico della normativa sui rifiuti, Giuffrè, 1990 e P. GIAMPIETRO,
“Il rifiuto, la materia prima secondaria e la volontà del detentore tra d.m. 26
gennaio 1990 e Corte di Giustizia delle Comunità Europee”, in Foro it. 1990, parte
IV, col. 501. L’autore afferma che nel rapporto logico-cronologico tra rifiuto (che è
un prius) ed il suo smaltimento (che costituisce un posterius),si annida una
ricorrente svista interpretativa, per cui non può essere consentito desumere, dalla
seconda nozione, attributi ed elementi costitutivi della prima.
15
Più in generale, gli aspetti dell’intera teoria meglio si comprendono se
si tiene presente che le ragioni su cui essa si basa, derivano dal
considerare come prioritario l’interesse alla salvaguardia della salute
umana e della protezione dell’ambiente. La nozione di rifiuto che ne
consegue, realizza in tal modo una forma di tutela anticipata, ispirata
ad un estremo garantismo, per cui, in nome dell’ambiente, risulta
preferibile assoggettare al severo regime dei rifiuti piuttosto che a
quello dei prodotti, sostanze dalle caratteristiche potenzialmente
nocive. 14
L’estendersi dell’ambito di applicazione delle norme del decreto si
accompagna in tal modo ad un’ampliarsi delle ipotesi di responsabilità
penale la cui compatibilità col principio di offensività e legalità, come
si vedrà in seguito, è oltremodo dubbia.
Altro aspetto che connota la teoria oggettiva è rappresentato dal
ritenere infondata la questione dell’incompatibilità tra norma
comunitaria e norma interna. Il contrasto infatti, sarebbe
insussistente dal momento che <tra i termini “disfarsi” e
“abbandonare” esiste chiara equivalenza, considerato che la
situazione di abbandono della cosa ha l’implicito requisito della
dismissione da parte del detentore>.15.
L’interpretazione del termine “abbandonare”, contenuto nel decreto,
come concettualmente coincidente con il termine “disfarsi” di cui alla
direttiva, permea inoltre un’altra importante decisione, nella quale si
giunge alla conclusione che rifiuto sia tutto ciò che viene ceduto dal
detentore a qualsiasi titolo, restando irrilevante la possibile
14
Cfr. MELISSA SHINN, in www.eeb.org/publication/chapter-4_4, la quale afferma che
“the waste regime can also be seen as a surrogate precautionary regime that has a
function as long as product legislation is not yet developed and complete”.
15
Cass. Pen 16 febbraio 1988, RIDOLFI, in Foro. it. 1989, II, 407 ss. Affermando
l’insussistenza del contrasto tra norma comunitaria e norma interna, la Corte ha
ritenuto non doversi richiedere l’interpretazione in via pregiudiziale della Corte di
Giustizia CEE.