4
programma che riescono a coinvolgere a tutto tondo i
telespettatori? Che riescono, per così dire, a farli loro, a tenerli
stretti?
Le domande che mi sono posta, durante questo lavoro, sono
essenzialmente queste.
Ma trovare loro una risposta non è stato per nulla semplice e
banale.
Trattandosi di un argomento abbastanza recente è stato difficile,
innanzitutto, trovare supporti bibliografici consistenti.
Soprattutto nel Web ho avuto a che fare con prodotti misti, con
articoli redatti da chiunque, con notizie e retroscena a volte
veritieri, a volte completamente inventati.
Ma le porte chiuse in faccia, si sa, spesso vengono dai vertici del
nostro sistema, dai più “potenti”.
Senza essere troppo specifica, vorrei solo evidenziare il completo
disinteresse e la mancanza di collaborazione da parte di alcune
persone, in modo particolare di quelle appartenenti ai canali che
trasmettono la maggior parte dei reality show; spesso,
l’esercizio di questa “forma di potere” condiziona alcuni
comportamenti, rivelandoli privi di rispetto nei confronti degli
altri.
Contemporaneamente, però, vorrei sottolineare la disponibilità
di coloro che mi hanno fornito alcune fonti video, consultate ad
una certa distanza di tempo dal momento della loro
realizzazione, e di coloro che hanno integrato le mie conoscenze
attraverso pareri professionali e buona parte del loro prezioso
tempo.
Anche per questo la mia ricerca si è rivelata alquanto complessa
e, a volte, affannosa.
Detto ciò, potrei aggiungere solo che mi ritengo soddisfatta del
lavoro compiuto: l’obiettivo primario è stato pressoché
raggiunto.
Essenzialmente questa tesi si divide in quattro parti.
Ho pensato, però, di cominciarla con alcune parole di
Shakespeare, il mio prediletto. È un pezzettino tratto da “Come
vi piace” che, a mio parere, incarna perfettamente ciò che
definisce un reality show, ma anche ciò che è la nostra vita, nei
suoi aspetti più profondi.
Nella prima parte ho studiato l’evoluzione del reality per
precisare quale sarebbe veramente la sua struttura e come,
invece, tende a presentarsi oggi. In passato, infatti, i reality
show sono apparsi televisivamente grazie alle candid camera:
queste riprendevano la realtà spontanea, le reazioni immediate
delle persone e le loro emozioni vere. Oggi, invece, i nostri
reality si basano su un “copione” pensato a priori, un copione
5
che muta continuamente per seguire l’evolversi degli eventi dello
show. Essi, quindi, hanno una larga base di costruzione
artificiale, si compongono di fasi e di scene dirette con scopi
precisi, si strutturano su personaggi scelti con caratteristiche
specifiche e anche tutto ciò che gira attorno a loro (pubblicità,
stampa, radio) è determinante.
Come esempio in questo senso, valga per tutti il reality show
“italiano” più popolare e più acclamato dal pubblico: il Grande
Fratello, preso in considerazione nella seconda parte della tesi.
Non avrei potuto tralasciare, infatti, la sua struttura generale,
una struttura così finemente studiata. Per questo ho cercato di
portare in superficie alcuni retroscena che lo caratterizzano,
analizzando i diversi compiti e i ruoli differenti di autori, registi,
psicologi e di ogni persona che lavora nel dietro le quinte per la
completa realizzazione di questo reality show.
Il tutto ovviamente all’interno di un contesto che spesso, anche
tra la gente, fa riferimento al Grande Fratello letterario, quello di
George Orwell; solo pochi, però, conoscono l’enorme crepa, il
buco maestoso che divide questo “antico” G.F. da quello attuale:
il primo quasi infernale, il secondo quasi onirico ed etereo.
È stato davvero stimolante, poi, in questa parte, conoscere ogni
fase dei tanto citati provini da superare per entrare nella Casa,
nonché sviluppare un certo interesse per determinati aspetti di
questo reality, come il contratto che i ragazzi firmano prima
dell’avventura o il tipo di linguaggio che essi sono soliti usare
una volta reclusi; o come l’interessantissimo paragone tra il
“viaggio del concorrente nell’avventura del Grande Fratello” ed il
“viaggio dell’Eroe” proposto da Chris Vogler.
E mi sono concessa, sempre in questa sezione, anche un
paragrafo alquanto ironico, un paragrafo che spezza la
descrizione puntigliosa del format in questione, dandogli una
valenza spiritosa ma, allo stesso tempo, oggettiva.
La parte della mia tesi più soddisfacente, però, è stata
sicuramente la terza, quella capace di regalarmi alcune risposte
a molti dei miei interrogativi iniziali. Si tratta, essenzialmente,
della sezione compilata grazie alle tre interviste effettuate ad un
sociologo, ad uno psicanalista e ad uno degli psicologi che
lavorano per il Grande Fratello, ma anche in base a quello che si
sente dire, sempre più frequentemente, in tv sui reality show,
sia essa una “tv pubblica”, una “tv privata” o una “tv regionale”.
Il successo del G.F., infatti, è senz’altro da imputarsi in buona
misura alle “voci che corrono”, indipendentemente dal fatto che
siano di segno positivo o negativo nei confronti del format.
Rimane da considerare, comunque, che molte persone di fronte
a questo nuovo fenomeno globale, più che offrire una ricetta
6
interpretativa, avanzano delle ipotesi di comprensione. E questo
corrisponde proprio a ciò che ho ricavato dalle mie interviste:
ogni studioso con cui ho avuto la possibilità di discutere, infatti,
ha rivelato principalmente la propria opinione soggettiva ed
equilibrata, senza la pretesa di formulare giudizi irrevocabili o
assolutamente esatti.
Ma per quanti anni ancora questi reality show invaderanno i
nostri canali televisivi?
D’obbligo uno sguardo al futuro nell’ultima parte, attraverso
l’interpretazione di un autore straniero, ma anche attraverso
quella che è la realtà d’oggi e quello che si dimostra essere il
consumo delle nuove tecnologie mediatiche.
Probabilmente non ci troviamo ancora di fronte ad un’invasione
tecnologica completa perché usiamo tuttora il telecomando per
scegliere, decidiamo se utilizzare o no il computer e siamo
ancora in grado di selezionare gli articoli da leggere sul giornale.
Certo è, comunque, che il futuro, con o senza i reality show,
sarà sempre più formato da nuove tendenze, da nuove macchine
e da nuovi valori cui tutti, prima o dopo, dovremmo adeguarci.
7
‹‹All the world’s a stage,
and all the men and women merely players:
they have their exits and their entrances;
and one man in his time plays many parts,
his acts being seven ages››.
‹‹Tutto il mondo è un palcoscenico,
e gli uomini e le donne
sono soltanto degli attori,
che hanno le loro uscite e le loro entrate.
Ed ognuno, nel tempo che gli è dato,
recita molte parti,
e gli atti son costituiti dalle sue sette
età››
1
.
1
W. Shakespeare, As you like it, atto II, sc. VII, [ citata da Paolo Taggi in Vite da format. La tv
nell’era del Grande Fratello, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 43 ].
8
L’
’
EVOLUZIONE
DEL
REALITY
SHOW
CANDI
I
D-REALI
I
TY:
FI
I
NO
A
DOVE
COMBACI
I
ANO?
Che i reality show d’oggi siano le candid camera di ieri?
Potrebbe essere solo un’impressione.
Di certo esiste una base comune per entrambi, ma il risultato
visivo cui danno luogo è ben diverso.
A fare da filo conduttore tra le candid camera degli anni
Sessanta sino ai nostri “candid–reality” vi è un filo trasparente
che si confonde con la realtà e che ha determinato
un’evoluzione.
Chi trama alle spalle di una candid camera, infatti, è sempre un
team formato da autori, creatori e produttori; chi registra
quanto può accadere davanti ad un obiettivo nascosto, in
conseguenza ad una provocazione, sono quasi sempre delle
telecamere segrete; ma ciò che ne deriva, ciò che viene
documentato in una candid camera, piuttosto che in un reality
show, sono reazioni spontanee, poco scontate, divertite o un po’
violente e di sicuro non costruite. Proprio per questo le candid
camera hanno assunto, soprattutto in passato, quel carattere
prettamente televisivo, capace di far vedere la realtà, la
spontaneità ed il concreto.
L’intento dei reality show d’oggi sembrerebbe coincidere, se non
fosse che dai palinsesti odierni filtrano diverse facce della realtà
spesso troppo vicine alla finzione.
Ma allora, che cos’è sostanzialmente un reality show?
Secondo Carlo Freccero il reality è ‹‹il genere televisivo che
finisce per definire il ruolo attorno alla tv, dispositivo che
permette di creare l’evento, di fare incontrare le persone e di
farle innamorare››
2
.
Si tratta di un programma in cui il centro della scena è formato
da gente comune che rivive la quotidianità, in cui si racconta una
storia simile a tante altre, in cui, però, le persone diventano la
stessa narrazione della tv.
Con i reality show, la vita degli altri da privata diviene pubblica:
allo spettatore è permesso spiare in ogni istante (soprattutto
attraverso la rete interattiva) lo svolgersi delle vicende in modo
tale che esso possa rendersi conto di come, anche nella
quotidianità degli altri, esistano momenti noiosi, proprio come
nella vita reale di ognuno. E ad attestare maggiormente la verità
2
Tratto dal sito www.lycos.it
9
dello spettacolo contribuisce la violazione dei tabù da parte dei
protagonisti (spesso occultata dai bip).
Il reality show è, secondo Paolo Taggi, ‹‹la tv dell’incontro››, che
va incontro alle persone come massa
3
. E’ un programma
precostituito per realizzare i sogni della gente, per fornire a chi
lo guarda un modello narrativo in cui riconoscersi, a cui far
riferimento.
Ed è proprio da questa considerazione che muovono le
caratteristiche di un reality perfetto: uno show che miri ad
ottenere la massima permanenza di uno stato emotivo nel
pubblico. Un format che non sveli tutto all’inizio, ma che si
riservi di distribuire la conoscenza dei suoi protagonisti nel corso
della puntata; conoscenza che, nella stessa logica, si potrà dire
completa solo alla fine dell’intero programma.
Nei reality show, quindi, pubblico e protagonisti sono modellati
sin dall’inizio. La parola chiave, sempre a parere di Taggi, è
“addestramento”: non si tratta solo di una forma di
preparazione, ma risulta fondamentale il rapporto che s’instaura
tra l’autore (o il conduttore) e chi diverrà il protagonista.
Quest’ultimo, almeno all’inizio, dovrà sembrare un “pesce fuor
d’acqua” in modo tale che il suo stupore di fronte allo
straordinario mondo della televisione nel quale è appena
approdato, arrivi al pubblico e lo coinvolga
4
.
Sì, perché con i reality lo spettatore da passivo è divenuto parte
attiva, da folla anonima si è trasformato in co-sceneggiatore;
egli sceglie il personaggio da “pedinare”, la stanza da spiare, il
tempo della fruizione e il percorso da seguire, soprattutto
attraverso il web.
Con i reality esiste la possibilità di costruire essenzialmente tre
tipi di spettatori: quello autoreferenziale, il più tipico in questo
genere, interamente formato dalla tv; quello dei quiz,
caratterizzato dalla sua cultura e dalla sua identità; e lo
spettatore finestra del mondo, come quello rappresentato da
Rai3 sotto la direzione di Angelo Guglielmi
5
.
Qualsiasi spettatore di un reality, quindi, risulta attivo, sia in
studio, che da casa; e lo dimostrano, ad esempio, gli sms di
commento inviati che vengono letti in diretta, durante la
trasmissione, o visualizzati in tempo reale. Ognuno di noi, in
questo senso, potrebbe essere un soggetto televisivamente
interessante.
3
P. Taggi, Vite da forma. La tv nell’era del Grande Fratello, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 192.
4
Ivi, p. 168.
5
E. Manfucci, tratto dal sito www.ilcorto.it
10
LA
CONTAMI
I
NAZI
I
ONE
DA
REALI
I
TY
Siamo di fronte, dunque, alla nuova ‹‹tv dell’evento››
6
che
nullifica la distinzione tra finzione e realtà, determinando, così,
una sempre più evidente contaminazione tra i generi televisivi.
In particolar modo, una contaminazione tra quei due
macrogeneri che hanno sempre separato il campo televisivo:
l’informazione (ossia il reale) e l’evasione (ossia la finzione); e
ancora, la cultura (la riflessione su quei modi che distinguono il
reale dalla finzione) e l’intrattenimento (il trasporto emotivo
verso la sola finzione).
È nella tv dell’evento che questi due macrogeneri possono dirsi
compresenti in uno stesso programma, oppure unificati
solamente nel momento in cui vengono proposti
televisivamente, nel momento in cui entrano nel flusso
omogeneizzante del teleschermo.
Compreso in questo nuovo tipo di televisione, quindi, il reality
show perfetto afferra gli altri generi ai loro estremi e ne trattiene
dei frammenti; esso assorbe più o meno tutte le altre forme
d’intrattenimento televisivo.
Per questo è stato definito da molti un ‹‹supergenere›› in cui
possono esser fatti rientrare diversi sottogeneri:
- l’utility tv, ossia la televisione in difesa del cittadino;
- il light show, uno spettacolo per così dire economico;
- la reality tv;
- l’emotainment, ossia un intrattenimento creato attraverso
le emozioni;
- il people show, un sottogenere in cui i protagonisti sono
persone comuni;
- il celebrity show, ossia un programma in cui attori,
sportivi, cantanti e conduttori famosi si comportano come
persone comuni.
Ogni programma televisivo può essere contaminato da particelle
di reality show che si espande in modi diversi: nella scuola più
spiata d’Italia, Amici di Maria De Filippi, gli studenti sono
costretti a passare l’intera settimana precedente la sfida
eliminatoria all’interno di una casetta rossa; nel mondo
interattivo, invece, c’è chi inaugura (luglio 2000) un sito
interamente dedicato alla maggior parte dei reality show
internazionali. Si tratta di Andy Dehnart, web producer, scrittore
e docente che, quotidianamente, aggiorna il suo sito, pubblica i
gossip più piccanti e le ultime notizie inerenti ai suoi format
6
C. Sartori, La Grande Sorella-Il mondo cambiato dalla televisione, Mondadori, Milano 1989, p. 150.
11
preferiti (The Real World, Road Rules, Making the Band,
Survivor, Big Brother, Popstar).
Cenni
i
st
t
ori
i
ci
i
Il reality show sembra avere delle radici inconsapevoli.
Già nel 1963 si era tentato di mettere in piedi qualcosa che gli
assomigliasse molto. Un intraprendente e ricco californiano,
infatti, aveva affittato una piccola stazione televisiva vicino a
San Francisco. Il palinsesto da lui ideato prevedeva solo due
programmi: l’Oceano e “le persone”.
Il primo era realizzato con un’unica telecamera che riprendeva le
onde dell’oceano rotolanti verso la spiaggia e qualsiasi altra cosa
finisse nel suo campo visivo.
Il secondo programma, invece, si ambientava in uno studio
sgombro. La telecamera fissava un muro vuoto e chiunque
voleva, poteva passare di lì e rivolgersi al pubblico
(sconosciuto).
Poi, nel 1987, fu la volta di coloro che, successivamente,
diventarono i due turisti per caso.
Patrizio Roversi e Syusy Blady allestirono, aiutati da alcuni
amici, uno studio televisivo con una casa (composta di cucina,
salotto, bagno e camera da letto) su di un palco del Festival
dell’Unità. Ci vissero dentro per quattro giorni e Patrizio fu
ripreso dalle telecamere per oltre cento ore ininterrottamente.
Un record mondiale!
Venature di reality show, in Italia, si possono riconoscere poi
anche in “Fantastico ’90” (i migliori 10 studenti italiani diplomati
si sfidavano per conquistare dei “chilometri premio” da sfruttare
in un viaggio) di Pippo Baudo o in “Varietà” dell’anno successivo
(programma in cui erano presentate le storie di persone comuni,
protagoniste di esperienze estreme come, ad esempio, quella di
un prete esorcista).
Ma non si tratta già di reality, quanto di varietà che puntano sui
contenuti e sulla spettacolarità della messa in scena.
Oggi, nel Grande Fratello, è proprio il vissuto dei protagonisti a
suggerire le formule della messa in scena; il reality traduce la
loro vita in meccanismi a dir poco spettacolari.
Non è un caso, quindi, che il progenitore del G.F. sia successivo
alle due trasmissioni appena citate. Esso risiede in un format
americano portato in Italia, nel 1995, da Giovanni Minoli, allora
direttore di Rai Due.
Era stato chiamato “Davvero” e presentava otto ragazzi, in un
appartamento bolognese, ripresi costantemente da una decina di
12
telecamere. Gli otto concorrenti erano stati selezionati, a detta
degli autori del programma, perché esponenti di diverse fasce
sociali e appartenenze culturali.
I protagonisti di “Davvero”, però, a differenza di quelli del
Grande Fratello, non dovevano rispettare divieti o costrizioni
particolari, né dovevano eliminarsi a vicenda.
Gli autori infatti, nella costruzione del programma, si erano
basati essenzialmente su due linee guida: una improntata sul
confronto psicologico tra i giovani chiusi nell’appartamento,
l’altra orientata a stimolare comportamenti soggettivi comunque
volti alla competizione e alla provocazione, ai legami stretti tra
qualcuno e all’astio espresso da altri. Tale bivalenza, però, aveva
portato i giovani a costituirsi come un gruppo orientato ad uno
stesso stile di condotta da una parte, e ad accentuare la propria
individualità, dall’altra, soprattutto in seguito al venir meno della
primitiva casualità comportamentale che, tra l’altro, condusse gli
autori a chiedere l’esecuzione di alcune prestazioni.
“Davvero” non fu un programma noioso o banale ma, in realtà,
non ebbe neanche un’infinitesima parte del successo che il
Grande Fratello ottiene oggi tra il pubblico.
Questo effetto di “pesci nell’acquario” non aveva favorito il senso
di libertà dei protagonisti, anzi, ne aveva promosso il senso di
vivere insieme in cattività. E questa dimensione, una volta
avvertita, aveva portato a comportamenti viziati dal persistente
pensiero di essere sotto il controllo e lo sguardo di milioni di
occhi invisibili.
Il cercare di costruire una qualche “zona franca” in cui l’intimità
fosse stata sottratta agli occhi scrutatori aveva portato,
oltretutto, ad uno spreco di energie, tanto che la quasi
spontaneità degli esordi della trasmissione e le dinamiche inter-
personali ne avevano risentito al punto tale da risultare
crescentemente povere di espressività umana.
Ma perché, allora, questo programma non ebbe un successo
strepitoso, pari a quello del nostro Grande Fratello?
Principalmente perchè nel 1995 nessuno spingeva per far
diventare “Davvero” il simbolo di un nuovo modo di concepire le
potenzialità televisive. Oggi, invece, le connessioni tra l’industria
dell’intrattenimento e i mass media riescono ad indirizzare più
facilmente l’attenzione degli spettatori verso quelle trasmissioni
su cui si è deciso di investire massicciamente.
E oggi, tra l’altro, è più facile rapire le energie del pubblico, il
suo bisogno di sfogo e di distrazione, mediante molteplici
occasioni d’intrattenimento. In passato queste ultime erano
circoscritte solamente alla partita di calcio della domenica o al
varietà televisivo del sabato sera.
13
QUANDO
LE
TELECAMERE
ERANO
NASCOSTE:
“SPECCHI
I
O
SEGRETO”
e…
Ai tempi in cui nessuno sospettava la presenza delle telecamere
ed in cui nessuno poteva recitare una parte (se non i complici),
ma reagiva d’impeto secondo la propria personalità, si parlava di
real tv.
Erano i tempi in cui colui che oggi noi chiamiamo “padre della
real tv” realizzava delle candid camera. Si trattava del regista
Nanni Loy e della sua storica trasmissione “Specchio Segreto”.
L’idea era nata nel 1964 con la collaborazione di Giorgio Arlorio
(sceneggiatore), Fernando Moranti, Ruggero Mastroianni
(addetto al montaggio), Marcello Gatti e Giuseppe Ruzzolini
(direttori della fotografia).
Il format era americano (di Allen Funt, trasmesso dalla Cbs nel
1960) ed aveva avuto un grandissimo successo; così i funzionari
della Rai, nella scelta del conduttore, si erano rivolti a Loy, uno
di quelli che, facendo già il regista, sapeva dove posizionarsi
senza “impallare” la telecamera.
L’architettura del programma non prevedeva solo la comicità,
quanto anche uno studio sociale e pedagogico sui fenomeni che
in quegli anni attraversavano l’Italia. Mentre in America il solo
scopo della trasmissione era il divertimento con automobili che
viaggiavano senza motore, ascensori che portavano sempre allo
stesso piano, segretarie in prova alle prese con cassetti colmi di
carte, in Italia tutte le gag si basavano sulle relazioni tra gli
individui.
Otto furono le puntate della prima edizione con 25 episodi, molti
dei quali descrivevano l’umanità, il tenero smarrimento e
l’infinita pazienza degli italiani dell’epoca. Primo tra tutti quello
in cui Loy, travestito da carcerato in fuga, chiedeva ai passanti
di prestargli una cinta; o quello in cui il regista si metteva nei
panni di un operaio che, davanti ad una fabbrica del Nord,
reclamava il diritto di non lavorare più e chiedeva il sostegno dei
colleghi.
Ma “Specchio Segreto” non si fermava davanti al buonismo e a
dimostrarlo era proprio l’episodio in cui Nanni Loy si presentava
in mezzo alla folla di un mercato cercando di vendere una
schiava di colore che teneva tra le braccia. In quell’occasione la
reazione della maggior parte delle persone era di indignazione e
di condanna per la forma di schiavismo, ma c’era anche chi
(l’eccezione?) si dimostrava disposto a concludere l’affare.
L’episodio più famoso di “Specchio Segreto” rimaneva, però
quello della “zuppetta”: Loy, nei panni di un signore con una
certa classe, entrava nei bar ed inzuppava la sua brioche nel
14
cappuccino degli altri. Le reazioni non potevano che essere
quelle di persone che vivono in una società ancora in equilibrio,
poiché ciò che si coglieva nelle loro espressioni era soltanto
un’esterrefatta sorpresa senza l’ombra di scatti di nervosismo
(che invece oggi dominerebbe senza dubbio).
In realtà, già in questa trasmissione era cominciata, seppur
nascosta dietro ad un alibi perfetto (l’unione del divertimento
con l’osservazione antropologica), ‹‹una certa manipolazione del
materiale umano ad uso televisivo››
7
. Le ore di girato, infatti,
venivano montate in modo da valorizzare quelle parti che
potevano dare un effetto maggiore dal punto di vista della resa
televisiva, mentre il materiale che, sotto l’aspetto sociologico,
rimaneva significativo ma che, sotto l’aspetto del divertimento,
non rispondeva alle aspettative, spesso veniva cestinato.
“Specchio Segreto” si dimostrava, anche se in minima parte ed
in modo ancora innocente, un primo importante esempio di
compromesso tra volontà di esporre le maggiori tendenze
comportamentali a livello sociale e necessità di dover comunque
dar loro un “vestito” che fosse in grado di renderle spettacolari.
Dal punto di vista della vittima e dello spettatore, in ogni caso,
la trasmissione rimaneva del tutto “pura”.
Il programma, dunque, presentava un’immagine dell’Italia degli
anni Sessanta tra cinismo e umanità, di sicuro priva di
esibizionismo da parte delle ignare vittime di queste candid.
In quegli anni la disponibilità delle vittime a concedere la
liberatoria per trasmettere le immagini che li riguardavano era
assolutamente scarsa. Ogni protagonista si trovava ben lontano
dalla voglia di esserci ad ogni costo, voglia che, invece, assale i
personaggi dei reality show odierni.
Al giorno d’oggi chi non concede la liberatoria, infatti, è la
classica mosca bianca.
7
R. Levi, le trasmissioni tv che hanno fatto ( o no) l’Italia, Rizzoli, Milano 2002, p. 99.
15
…e
“STI
I
FFELI
I
US”
Con il passare degli anni il mondo televisivo pian piano si
accorgeva di quanto potevano essere importanti questi video
filmati di nascosto, soprattutto per esaminare le differenti
personalità degli individui. Anche se l’intento iniziale dei
molteplici programmi d’intrattenimento, come potevano essere
le candid camera, rimaneva quello di realizzare una trasmissione
che portasse il sorriso, venivano costantemente a galla le
tendenze sociologiche positive e negative delle persone.
Fu proprio un programma come “Stiffelius”, ideato da Mimmo
Scarano, a condurre, anche se in modo inconsapevole,
un’introspezione generale di alcune vittime, ignare di esser
riprese.
“Stiffelius”, che andava in onda quotidianamente sulla terza rete
Rai, in fascia pre-serale, in realtà nasceva come magazine di
argomenti vari (musica, cinema, ballo, eccetera.) in cui l’intento
principale era quello di creare delle componenti di spettacolo
attraverso un linguaggio particolare.
Il fil rouge della trasmissione, infatti, era costituito da segmenti
d’intonazione tipicamente cabarettistica che era proposta
soprattutto negli stacchi a sfondo musicale. Ovviamente si
trattava di un cabaret conforme alle tendenze di quegli anni,
rivolto, in modo particolare, ai gusti dei giovani: le battute,
infatti, erano tratte da “Linus” e “Cuore”, i giornalini dell’epoca.
L’attore protagonista era lo stesso per ogni sceneggiato ironico
ideato da Marcello Casco; uno dei cabarettisti più divertenti era
proprio Enrico Papi.
Tra i segmenti della trasmissione, in onda nel 1987, c’era, poi,
quello della candid camera, costruita in modo pensato e con
mezzi più appropriati rispetto a quelli del precedente “Specchio
Segreto”.
Questa componente di spettacolo offerta da “Stiffelius”
dimostrava come certi individui, pur di ricevere un compenso in
denaro o in qualunque altro bene concreto (che in realtà era
fasullo, preparato solo per il “gioco”), erano disposti ad
intraprendere qualsiasi azione.
I “protagonisti” venivano attirati all’interno di un vecchio
capannone con pretesti vari (anche offerte di lavoro che
comparivano sui quotidiani) e, di seguito, venivano provocati
pesantemente: gli si chiedeva addirittura di partecipare a
missioni militari e di rischiare la propria vita.
Da queste istigazioni gli autori non si aspettavano altro che
reazioni in grado di divertire il pubblico, ma ciò che ne era
derivato, in realtà, aveva sorpreso tutti. Infatti, molti degli
16
interpellati rifiutavano i compiti proposti, ma, incredibilmente,
c’era anche chi accettava tali sfide.
Grazie a questo tipo di candid camera, dunque, si venivano a
conoscere le movenze aggressive che balenavano nelle menti di
persone qualunque. E ciò che più sconvolgeva era il fatto che lì,
davanti a quelle telecamere invisibili, nessuno scherzava: era
tutto assolutamente reale!
…POI
I
SONO
DI
I
VENTATE
VI
I
SI
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BI
I
LI
I
:
“THE
EXPERI
I
MENT”
e…
Era all’incirca negli anni Settanta che nasceva il prototipo, a
livello di struttura, dei reality show d’oggi.
Grazie a Philiph Zimbardo, psicologo statunitense, si avviava una
prova destinata a divenire un reality che più di tutti manteneva
in sé una costante di realtà espressa nei suoi termini più
estremi.
Zimbardo, infatti, nel tentativo di confutare una credenza diffusa
secondo la quale alcuni comportamenti violenti che si
manifestano all’interno di un’istituzione sono dovuti, in gran
parte, a disfunzioni della personalità, innate o apprese,
realizzava un esperimento nel seminterrato dell’istituto di
psicologia dell’Università di Stanford, a Palo Alto. In questo
luogo egli aveva riprodotto con estrema cura l’ambiente di un
carcere facendolo sembrare il più realistico possibile e, in seguito
ad un annuncio riportato su di un quotidiano, con la
collaborazione dei suoi colleghi, aveva selezionato 24 volontari
maschi: la scelta era caduta su individui di classe media, maturi,
emotivamente stabili e meno attratti da comportamenti devianti.
Gli “abitanti” del carcere poi erano stati divisi in due gruppi: i
prigionieri e le guardie. Ai primi era stata agganciata una catena
alla caviglia ed era stato imposto loro di indossare delle divise su
cui era stampato un numero. Alle guardie, invece, erano stati
consegnati un’uniforme, degli occhiali da sole riflettenti, un
manganello, un fischietto e delle manette.
L’esperimento doveva portare, secondo Zimbardo, alla conferma
della teoria della deindividuazione sostenuta da Gustav Le Bon,
secondo la quale gli individui di una folla, in genere, tendono a
perdere l’identità personale e il senso di responsabilità
evidenziando, in compenso, degli impulsi antisociali.
Nel progetto iniziale il reality show di Zimbardo doveva durare
due settimane, ma dovette essere abbandonato dopo appena sei
giorni. I risultati erano drammatici già dopo i primi due giorni: i
detenuti si toglievano le divise e inveivano contro le guardie che,
per contro, facevano di tutto per intimidirli (li irroravano con gli
17
estintori, gli sequestravano i letti) e li obbligavano a compiere
atti osceni (come pulire le latrine a mani nude).
Vi era stato anche un tentativo di evasione di massa da parte dei
detenuti e al quinto giorno erano arrivati i primi segni di
disgregazione individuale e collettiva: il rapporto con la realtà da
parte dei prigionieri appariva seriamente compromesso, mentre
il comportamento delle guardie diveniva sempre più sadico.
I naturali istinti umani di sopravvivenza e di violenza avevano
preso il sopravvento su qualsiasi ordine e su qualsiasi regola.
L’esperimento venne così interrotto.
Secondo Philiph Zimbardo la prigione, da finta, era diventata
vera. Ogni individuo al suo interno agiva pensando che le proprie
azioni facessero parte di quelle compiute dal gruppo; non teneva
più conto delle conseguenze possibili di ogni singolo atto ed il
suo controllo basato sul senso di colpa, sulla vergogna e sulla
paura aveva raggiunto livelli bassissimi.
Il test del 1971 divenne lo spunto per la creazione prima di un
film tedesco (“Das Experiment”, diretto da Oliver Hirschbiegel ed
interpretato dalla tedesca Moritz Bleibtreu) che fu candidato
all’Oscar come miglior film straniero nel 2002, e, in un secondo
momento, di un nuovo reality show.
Ad assicurarsi la produzione di quest’ultimo fu l’Inghilterra che
mandò in onda su Planet, canale di Sky, “The Experiment”.
La serie, alla cui realizzazione partecipò anche Zimbardo,
apparve in televisione nel 2004 mediante quattro puntate: i
protagonisti furono 15 studenti che, consapevoli di essere
ripresi, vennero rinchiusi all’interno di un carcere ricreato per
l’occasione negli studios Elstree di Hertfordshire, sotto il
controllo diretto di due psicologi noti, Alex Haslam della Exeter
University e Stephen Reicher dell’Università di St Andrews.
Ovviamente il progetto televisivo non replicò la brutalità
dell’esperimento originale; ai 15 partecipanti non vennero
promessi dei soldi o una certa fama, ma solo un cambiamento
radicale nel loro modo di pensare.
Zimbardo, sin da subito, si dichiarò comunque contrario alla
ripetizione di un’esperienza così rischiosa ed in questo si rivelò
un profeta: coloro che sovrintendevano la trasmissione, infatti,
proposero di sospenderla non appena si accorsero che l’equilibrio
emozionale e fisico degli studenti stava arrivando al limite
massimo.
Soprattutto per coloro che “interpretavano” i prigionieri si era
avvertito, secondo gli psicologi, un livello di stress rischioso.