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2. Storia del Tibet
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La storia tibetana può essere suddivisa sommariamente in sei momenti salienti:
- la formazione dell’impero tibetano, intorno al VII secolo, e la nascita della dinastia
Yarlung;
- la caduta della monarchia nel IX secolo e la disgregazione del potere centrale;
- la formazione degli ordini religiosi e l’emergere del potere clericale;
- la dominazione mongola nel XIII secolo;
- l’ascesa al potere del Dalai Lama, a partire dal XVII secolo, e il conseguente e
definitivo trionfo del clero sull’aristocrazia laica;
- l’occupazione cinese del Tibet nella metà del XX secolo.
Tra questi, l’evento che più d’ogni altro ha scosso il Tibet nelle sue fondamenta è stato
probabilmente l’invasione militare cinese nel 1959 e, successivamente, la Rivoluzione
Culturale scoppiata tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, che ne ha mutato
radicalmente l’assetto politico e sociale.
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2.1 VII-IX secolo – L’affermazione della monarchia
Le prime testimonianze storiche sul Tibet si riferiscono alle regioni centro-
meridionali, ed evocano l’immagine aspra di una realtà culturale governata da capitribù
rivaleggianti fra loro; essi vivevano in roccaforti dispiegate prevalentemente lungo le valli
formate dagli affluenti centrali e orientali del fiume Yarlung Tsangpo, che in India prende il
nome di Brahmaputra. Il resto del Tibet, costituito prevalentemente da zone aride, fredde e
inospitali, era quasi completamente disabitato. Gli abitanti di queste valli praticano ancora
oggi, come allora, l’agricoltura e l’allevamento di pecore, capre e yak, mentre il nomadismo,
in forte diminuzione, è diffuso soprattutto nelle zone settentrionali. La valle dello Yarlung
Tsangpo gode di un clima mite e temperato, e fu qui che venne formandosi, nel VII secolo,
l’omonima dinastia che resse l’impero tibetano fino alla sua frantumazione, nel IX secolo.
La civiltà tibetana fece il suo ingresso nella storia quando alcuni principi locali si
accordarono per eleggere come loro sovrano il capotribù che governava la valle dello
Yarlung, facendo di lui un re potente di cui presto si sarebbero accorti i regni confinanti. In
una porzione di tempo relativamente breve i primi principi di Yarlung diventarono, da
governatori locali, sovrani di buona parte dell’Asia centrale, condizione che rese necessaria
una riorganizzazione dei metodi amministrativi e dunque l’adozione della scrittura. Il
principe di Yarlung si fregiò del titolo dinastico di Pugyel, «sovrano di Pu», un termine
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BELLINI C., Nel Paese delle Nevi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2015, pp. XXIV-XXVI.
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antico che indicava la supremazia su un distretto tibetano sud-orientale. Successivamente il
toponimo contenuto nel titolo mutò in Bö, «luogo originario o nativo», che divenne il
termine con cui gli abitanti di questa zona iniziarono a definire il proprio territorio. Al
sovrano fu attribuito inoltre il titolo onorifico di Tsenpo, letteralmente «Potente», un epiteto
utilizzato con riferimento alla sua regalità e attribuito a tutti i sovrani tibetani da questa fase
in poi, sino alla fine dell’epoca monarchica. Il sovrano era considerato un essere divino e
questa immagine può essere riconducibile a una concezione di origine persiana, che aveva
raggiunto il Tibet attraverso le migrazioni delle popolazioni centro-asiatiche. Nei più antichi
documenti scritti su stele e pilastri ricorre un mito di fondazione teso a glorificare la funzione
regale, secondo il quale il primo sovrano divino sarebbe sceso dal cielo utilizzando una «fune
celeste». In una versione della leggenda più tarda, il sovrano tibetano, scendendo dal cielo,
posò i suoi piedi su una montagna sacra chiamata Yarlha Shampo, che si trova nella valle
dello Yarlung, dove venne accolto da un gruppo di dodici uomini identificati, in base alle
differenti versioni del mito, come saggi, capitribù o pastori. Il sovrano mitico fu omaggiato
col titolo di Nyaktri Tsenpo, letteralmente «Potente portato in spalla», con riferimento a
questo iniziale incontro fra il re divino e i dodici, i quali, avendo assistito alla sua discesa
miracolosa, lo elessero come proprio capo e lo portarono in spalla utilizzando un palanchino.
I sovrani divini, una volta ultimato il loro compito sulla Terra, tornarono in cielo utilizzando
la medesima fune, senza lasciare traccia delle proprie spoglie a testimonianza del loro
passaggio miracoloso.
Takbu Nyazi, erede al trono di Yarlung, strinse probabilmente rapporti con i capi clan dei
territori di Myang e Ba, che ebbero un ruolo importante nella storia del Tibet per i due secoli
e mezzo successivi. Questa alleanza aveva lo scopo di contrastare il potere di Takkyawo,
signore del vicino regno di Zingpo, che corrisponde alla moderna regione che circonda
Lhasa. Le fonti storiche più antiche dipingono Takkyawo come un tiranno e Takbu Nyazi
come l’unico in grado di contrastare il suo potere in espansione. La scelta di Takbu Nyazi
come sovrano fu forse legata alla nobiltà della sua stirpe piuttosto che alla sua reale
propensione al comando. Morì anch’egli di morte violenta prima di poter fronteggiare il
sovrano di Zingpo e senza che la situazione si fosse definitivamente consolidata con i propri
alleati. Tuttavia i capitribù dei regni vassalli di Myang e Ba rinnovarono l’alleanza con il
discendente successivo, Namri Löntsen, agendo con grande determinazione per
incrementare il potere del nuovo re. Questi mise insieme un esercito di diecimila uomini
sotto il suo comando diretto e ciò gli garantì la piena vittoria contro Takkyawo, che venne
ucciso, e il consolidamento delle sue alleanze. Il Tibet centrale e i territori a oriente della
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regione di Kongpo furono riuniti sotto un unico regno. Per la prima volta il nome di un re
tibetano divenne noto; quel sovrano era Namri Löntsen. In questo periodo il Tibet era
attorniato da civiltà che avevano assorbito il buddhismo come loro credo; già fortemente
radicato nella valle del Gange sin dall’epoca dell’imperatore Ashoka (III sec. a.C.), il
buddhismo si era diffuso sul versante nord-occidentale del sub-continente indiano, ossia
negli attuali Kashmir, Gilgit (Pakistan settentrionale) e Baltistan (a metà tra Pakistan nord-
orientale e kashmir). Tramite le vie commerciali, il buddhismo aveva raggiunto la Cina
settentrionale passando attraverso la regione del Pamir e, a sud del Tibet, si era già fatto
strada da tempo nel piccolo regno della Valle del Nepal. I contatti con il buddhismo
divennero sempre più frequenti, dunque, grazie alle relazioni culturali che andavano
intensificandosi attraverso le rotte carovaniere.
Il più noto sovrano della storia tibetana, tuttavia, non fu Namri Löntsen
bensì il figlio,
Songtsen Gampo, che gli succedette appena tredicenne subito dopo il suo avvelenamento,
avvenuto presumibilmente intorno al 618. Appena fu in condizione di governare
autonomamente, Songtsen Gampo cercò di ripristinare il controllo sui regni confinanti che
erano stati perduti durante l’ultimo anno di sovranità del padre, e di intessere nuove alleanze.
In un periodo relativamente breve, infatti, riuscì a estendere i confini del suo regno alle
pianure dell’India e alle montagne del Nepal, spingendosi sino alle frontiere cinesi. Il regno
di Songtsen Gampo fu prospero fino alla sua morte, avvenuta nel 650. La propensione al
governo gli garantì notevoli successi militari e politici. Egli rinsaldò la monarchia su solide
basi e preparò il terreno per due secoli di successori regolari, coronate da una ragguardevole
grandezza imperiale. I suoi gloriosi anni di regno e le sue opere civili e militari costituiscono
i principali argomenti trattati in termini storici, rintracciabili nei documenti di Dunhuang. La
tradizione orale e le fonti leggendarie, frammiste costantemente di elementi mitici,
attribuiscono l’invenzione dell’alfabeto tibetano a Tönmi Sambhota, un ministro di Songtsen
Gampo che fu inviato in Kashmir allo scopo di mettere a punto una lingua scritta. Essa si
basa su un’antica scrittura indiana brahmi in uso nell’India settentrionale, in Nepal e nelle
regioni indianizzate dell’Asia centrale.
Nei due secoli successivi il potere monarchico si resse sull’appoggio delle famiglie
aristocratiche, i cui principali rappresentanti ricoprivano generalmente le cariche di ministri
dello stato. I regnanti tibetani, per difendere l’indipendenza della loro sovranità da una
potente e permanente oligarchia nobiliare, impararono presto a manipolare e a servirsi delle
rivalità fra le famiglie nobili.
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A partire dal VII secolo il Tibet aveva intrapreso un cammino ascensionale di sviluppo e di
ampliamento del proprio territorio attraverso l’integrazione di nuovi paesi conquistati. La
storia politica della dinastia Yarlung fu contrassegnata costantemente dall’attività bellica con
mire espansionistiche. L’esercito e le forze impiegate per le campagne militari si reggevano
economicamente sulle nuove conquiste. La Cina fu la principale rivale del Tibet nell’ambito
di questa politica, e per danneggiarla i tibetani adottarono la strategia di fare pressione
soprattutto ai confini di quelle terre oggi note come Gansu, Sichuan, Yunnan e Shanxi.
Occupando una posizione strategica sulle rotte che attraversavano l’Asia centrale, in
particolare sulla Via della seta, i tibetani tagliarono le comunicazioni fra la Cina e i paesi a
occidente. Il controllo di questi luoghi assicurava l’egemonia su commerci lucrativi come
quelli di seta, porcellana, pietre preziose, muschio e altre merci pregiate. Per tale motivo i
rapporti intercorrenti fra Tibet e Cina, in questo periodo, furono sempre condizionati da
rivalità. Il Tibet era diventato nel tempo un regno costantemente sul piede di guerra, con un
sistema economico interamente fondato sulle conquiste militari. L’antica organizzazione del
territorio si basava su una suddivisione in tre principali zone, chiamate «corni»: quello di
destra, di centro e di sinistra, che corrispondevano rispettivamente alla parte orientale della
valle dello Tsangpo e ai paesi occidentali immediatamente adiacenti, alla valle di Lhasa con
le zone circostanti, e alla valle di Yarlung e di Kongpo, nella zona del fiume Nyang, un
affluente settentrionale dello Yarlung. Nelle zone occupate, i ministri erano impegnati
prevalentemente nel mantenimento del loro contingente bellico, dato che l’esercito tibetano
si reggeva sulle esazioni locali. Nel Tibet propriamente detto, invece, i ministri avevano il
compito di reclutare le truppe, in una costante richiesta di forze da combattimento.
Un personaggio chiave nella fase storica successiva alla morte di Songtsen Gampo fu il
fedele ministro Gar Tongtsen, che si assunse l’incarico di redigere definitivamente un codice
legislativo, portando a compimento il progetto iniziato dal suo sovrano.
All’inizio dell’VIII secolo, all’estremo Nord-Ovest, ai confini con la Cina, i tibetani furono
a lungo impegnati a stringere alleanze con la potenza in declino del primo grande impero
turco, allo scopo di trovare dei sostenitori contro la Cina. I tibetani, per lungo tempo, fecero
sentire la loro presenza nel Turkestan, vivendo a stretto contatto con le città stato
cosmopolite che si trovavano lungo le rotte commerciali che andavano da occidente sino in
Cina. Qui entrarono in contatto con le tradizioni culturali ormai assorbite da queste società,
che avrebbero fortemente influenzato la cultura tibetana: da quelle dell’India buddhista a
quelle dell’antico impero persiano e dei satrapi ellenizzati di Bactria e Sogdiana. Questi
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luoghi erano il crogiolo delle grandi religioni del mondo, dove zoroastriani, manichei,
musulmani, buddhisti e cristiani nestoriani convivevano liberamente.
Il ruolo politico del Tibet dagli inizi del VII secolo fino a circa la metà del IX fu condizionato
dal tentativo di dominare gran parte dell’Asia centrale rivaleggiando con la potente dinastia
cinese dei Tang.
Il 755 segna l’anno del colpo di stato in cui il sovrano Tri Detsuktsen fu assassinato in seguito
a una rivolta. Dopo il suo assassinio gli successe sul trono il figlio Tri Songdetsen. La
progressiva adesione di Tri Songdetsen al buddhismo, e la sua decisione a proclamarlo
religione di stato, appare come il tentativo riuscito di consolidare il proprio potere e la propria
legittimità come successore del sovrano precedente. La rivolta del 755 fu il primo
avvenimento che caratterizzò la nuova direzione presa dal governo, volta a confermare il
potere del sovrano. In un primo momento Tri Songdetsen fu poco più di una pedina in mano
alla potente aristocrazia, implacabile nella sua opposizione al buddhismo. Ma quando il
giovane sovrano raggiunse i vent’anni prese in mano il potere e la sua ascesa andò di pari
passo con una nuova espansione territoriale. Nel 763 i tibetani occuparono la capitale cinese,
Chang’an, attuale Xi’an, e vi insediarono un imperatore cinese fantoccio al loro servizio.
Anche se si trattò di una breve parentesi, i tibetani continuarono a dominare territori
immediatamente a occidente della capitale per molti secoli a venire. La svolta religiosa di
Tri Songdetsen avvenne solo in questo periodo, probabilmente nel 762, un anno prima della
conquista della capitale cinese. Il giovane sovrano fece un’esperienza molto simile a una
conversione e da quel momento si impegnò a promulgare la religione buddhista come
religione di stato. Nel 799 ordinò l’edificazione del primo monastero buddhista, quello di
Samyé, e invitò l’erudito filosofo e monaco indiano Shantarakshita a presiedere
all’ordinazione ufficiale dei primi monaci buddhisti tibetani. Per il mantenimento delle
comunità monastiche fu stabilita una vera e propria tassa a favore della nuova religione. Il
buddhismo continuò a svilupparsi, con il sostegno della famiglia reale, anche durante i regni
dei successori di Tri Songdetsen: Tri Desongtsen e Relpachen.
Il Tibet aveva intrapreso una politica di controllo sulla maggior parte dei territori
corrispondenti all’attuale Xinjiang durante la metà e nel tardo VII secolo. A partire dal tardo
VIII secolo, Dunhuang e i vicini territori nel cosiddetto corridoio di Gansu, dove le rotte
mercantili convergevano riunendosi prima di entrare nella Cina propriamente detta, caddero
anch’essi sotto il dominio tibetano. I tibetani si trovarono, in questo modo, fra la dinastia
cinese dei Tang e qualsiasi potere a occidente della Cina che avesse con essa rapporti politici
e commerciali, come arabi, turchi, iraniani e altri ancora.
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A partire dall’821 venne stipulata una serie di accordi di pace fra tibetani e cinesi e fra
tibetani e uighuri, allo scopo di stabilizzare e riaffermare l’integrità delle frontiere, oltre a
restaurare l’armonia fra i tibetani e la corte della dinastia Tang. Le guerre che precedettero
questi accordi di pace furono spietate e sanguinose, causando molte vittime nella contesa
della regione del Gansu. La dura guerra oramai conclusasi costò cara al Tibet e alla Cina e
segnò la fine di un’èra caratterizzata dall’espansione territoriale del Tibet in Asia centrale.
Con questo processo di pace vennero meno importanti entrate nelle casse dell’impero
tibetano. Come se non bastasse, nello stesso tempo a Relpachen fu attribuita la decisione di
incrementare i finanziamenti al nuovo culto buddhista, provvedendo con generose
elargizioni al clero sulla base del rango. Lo stesso è anche ricordato per aver legittimato
punizioni corporali e torture nei confronti di coloro che non rispettavano la legge buddhista.
La tradizione attribuisce la responsabilità della caduta dell’impero all’apostasia del sovrano
successivo, Üdumten, meglio conosciuto come Lang Darma, che uccise il fratello Relpachen
nell’838, con l’aiuto delle fazioni che volevano favorire il ritorno della religione autoctona
pre-buddhista. Nell’845 vennero chiusi mille monasteri buddhisti cinesi e i monaci furono
costretti a tornare al laicato. La principale obiezione mossa contro le istituzioni buddhiste fu
quella di sottrarre reclute all’esercito e di non contribuire al pagamento delle tasse, in
contrasto con il benessere di cui godevano i monasteri. La questione religiosa non può essere
considerata la causa del crollo dell’impero tibetano. Alla base ci furono certamente ragioni
di carattere politico ed economico. L’impero tibetano, così come gli imperi medievali, si
reggeva su un sistema molto preciso legato al processo di espansione. Le eccedenze
economiche raccolte attraverso le conquiste territoriali venivano utilizzate per ricompensare
gli amministratori e l’esercito, oltre a ingrassare le tasche della corte aristocratica, e venivano
reinvestite per nuove campagne espansionistiche. La garanzia del mantenimento di un
bilancio economico positivo era strettamente correlata alla conquista di territori. In seguito
agli accordi di pace dell’821-23 con la Cina, le casse dello stato si svuotarono gradualmente.
Gli investimenti più onerosi, come il sostegno generoso ai monasteri, le operazioni di
traduzione di testi sanscriti in tibetano, l’edificazione di nuovi templi e monasteri, furono
decurtati, ma gli ufficiali, pagati con titoli di credito, divennero comunque insofferenti. I
debiti, dunque, furono la vera causa del crollo della potenza tibetana. La fine dell’impero
tibetano non fu un evento improvviso ma il risultato di un processo progressivo di
disgregazione economica e amministrativa che continuò oltre mezzo secolo.
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BELLINI C., Nel Paese delle Nevi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2015, pp. 3-30.