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Da ormai molti anni la critica letteraria riconosce la singolarità e
l'importanza dell'opera poetica di Giorgio Caproni, sicuramente una
delle più interessanti del nostro Novecento. Numerosi sono gli studi
che hanno cercato di penetrare il labirinto della sensibilità caproniana,
tanto tormentata quanto aperta alle esperienze più diverse, stilistiche e
intellettuali. L'indiscusso fascino della sua poesia, dal canto aspro e
scabro, musicale e allo stesso tempo ricca di dissonanze, senza dubbio
l'arte a lui più congeniale
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, ha suo malgrado calato un cono d'ombra
sulla sua foltissima attività parallela, quella del critico, del traduttore
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e del narratore, ancora oggi in gran parte poco frequentata, sussurrante
e sottovalutata se non del tutto ignota.
Dei racconti di Giorgio Caproni si sono occupati nei loro profili
monografici Luigi Surdich e più recentemente Adele Dei
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. Se il primo
ha il merito di averne raccolti una parte
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e tentato una loro prima
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cronologia, la seconda ha svolto un'accurata ricerca in fondi privati e
biblioteche, tanto da aver identificato racconti che Surdich non citava
e retrodatato quelli che inizialmente sembravano più recenti. In
appendice alla sua monografia, la Dei ne ha elencati cinquantacinque
5
,
scegliendo tra gli innumerevoli scritti dell'autore quelli di carattere più
propriamente narrativo. Si spiega dunque perché non vi compaiano le
prose che la saggista ha raccolto e curato nella Valigia delle indie
6
, un
volumetto fresco di stampa (novembre 1998) che riproduce cinque
testi di Caproni pubblicati, nei primi anni Sessanta, dal quotidiano
socialdemocratico «La Giustizia»: se si esclude il primo, Il biglietto
(edito per la prima volta con il titolo Dio in persona sulla
«Repubblica», il 27 febbraio 1948), l'unico definibile come racconto e
che pertanto appare nell'elenco proposto, La danza della lepre, Il
fagottino, Il giardino dei morti e La valigia delle Indie non rientrano
nel genere, avendo il carattere di meditazioni filosofiche e memoriali
che non si inseriscono in nessuna trama di personaggi. Ce ne
occuperemo comunque in seguito, vista la loro rilevanza in relazione
all'esistenzialismo e alla trascendenza scettica delle ultime raccolte
poetiche caproniane.
Spesso gli stessi racconti sono stati pubblicati più volte in diversi
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quotidiani e riviste, proponendo piccole varianti che non ne
modificano il contenuto (si tratta quasi sempre di cambiare un nome o
togliere un episodio poco importante).
I primi li troviamo nella rivista letteraria «Augustea»: Chiaro di
luna (15 ottobre 1939), Un ricordo (29 febbraio 1940), Fine
dell'adolescenza (30 aprile 1940), Primo fuoco (ottobre, novembre e
dicembre 1940). Quest'ultimo sarà modificato e ampliato per diventare
Giorni aperti, un diario di guerra pubblicato da Giambattista Vicari a
Roma per le edizioni di Lettere d'oggi nel 1942. Insieme al Labirinto
(in «Aretusa», gennaio-febbraio 1946) e al Gelo della mattina (in «Il
Lavoro nuovo», 12 febbraio 1949)
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, verrà in seguito stampato in
volume (Il labirinto, Milano, Rizzoli, 1984) sotto la volontà e la stretta
sorveglianza dell'autore. Sono forse questi i racconti che Caproni ha
amato di più, i soli che ha voluto espressamente salvare dal destino di
dimenticanza che ha purtroppo avvolto gli altri (relegati a riviste oggi
difficilmente reperibili o alla terza pagina di quotidiani visibili
soltanto in microfilm). Non a caso sono i più lunghi, quelli di maggior
spessore psicologico e autobiografico e figurano con minuzia i
momenti più difficili e drammatici della vita dell'autore.
Rispettivamente del 31 gennaio e del 31 marzo 1943 sono invece A
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memoria e 15 novembre, usciti nella rivista bolognese «Architrave».
Questi primi abbozzi narrativi sono per lo più prose liriche o
autobiografiche che riprendono temi cari all'autore sviluppati nella
poesia: in Chiaro di Luna e in Un ricordo ritorna con ossessione
l'immagine morente di Olga, la fidanzata dell'autore scomparsa
precocemente e più volte rimpianta; una nota luttuosa che non
abbandonerà mai Caproni ma che si ripresenterà sempre con nuovi
significati, fino a staccarsi completamente dalla sfera personale per
diventare un simbolo universale di morte. Non a caso Il gelo della
mattina, testo che analizza nel profondo i sentimenti dell'autore negli
ultimi bagliori di vita di Olga, si pone come capitolo ultimo del
Labirinto, anziché precedere (come si doveva seguendo una logica
cronologica) gli altri due racconti del volume, che documentano la
militanza del giovane Caproni nell'esercito italiano e nella Resistenza
partigiana. E' un cerchio che si chiude, come se tutti gli orrori
provocati dalla guerra fossero interamente riconducibili a quella morte
individuale, dice Caproni, "in fondo così piccola in un mondo dove
milioni d'uomini si sono distrutti senza un filo di rimorso o pietà".
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In Chiaro di luna tornano, come figure ossessive, i lamenti dei cani,
laceranti strappi nella quiete notturna che avvertono il poeta, nel suo
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allucinato cammino lunare, della tragedia imminente, la morte di
Olga. L'itinerario campestre che lo conduce, a notte inoltrata,
all'abitazione della fidanzata, gravemente ammalata, è rischiarato dal
chiarore della Luna e dai riverberi "argentini" di un torrente che "con
quel suo andare calmo ma ineluttabile", scrive, "m'infuse una quiete
solenne, quasi per un verdetto combattuto e infine definitivamente
accettato"
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. I rumori tipicamente silvestri e l'odore intenso della menta
completano il quadro sensoriale in cui si inserisce la petite
promenade, che respira l'esplosiva esuberanza percettiva delle prime
prove liriche (Come un'allegoria e Ballo a Fontanigorda
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):
La linea di prosecuzione tematica e ispirativa con i
libretti d'esordio è convalidata dalla costante ripresa di
immagini di vita (naturali, paesaggistiche, umane), dentro
cui s'insinua una più acuita coscienza della dissolvenza…
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Questa la valutazione di Surdich riguardo le liriche di Finzioni
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: un
giudizio che si adatta al clima del viaggio che sta per concludere la
prima giovinezza dello scrittore.
In Fine dell'adolescenza, A memoria e 15 novembre torna, sempre
più dolorosa e paralizzante, la consapevolezza dell'irreversibilità del
tempo e del vissuto: i ricordi riaffiorano malinconicamente e non
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permettono al poeta di volgersi al futuro, vittima ormai di un passato
che non è più. Dichiara Caproni:
All'origine dei miei versi […] direi che c'è la
giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiata
da un vivo senso della labilità delle cose, della loro
fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o
continuo avvertimento della presenza, in tutto, della
morte.
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Le prime prose dunque nascono ancora all'insegna di un
impressionismo sensoriale che coglie l'evento nel suo dileguarsi: solo
più tardi la riflessione prenderà il sopravvento sull'intuizione e il
dolore per le continue perdite, inizialmente provato a livello
epidermico, s'insinuerà con prepotenza nei versi e nella prosa.
Approfondiremo nei prossimi capitoli tali corrispondenze, cercando
nei dettagli un confronto con le immagini e le metafore contenute nel
linguaggio poetico.
Nonostante questo precoce esordio come narratore, la maggior parte
dei racconti sono stati scritti in un arco di tempo che va dal 1945 al
1950, un periodo che vede Caproni prendere momentaneamente le
distanze dalla poesia per collaborare a riviste e soprattutto a
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quotidiani
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di impegno sociale: è il Caproni del dopoguerra che, dopo
l'ultima ermetica poesia di Cronistoria, sente il bisogno di raccontare
l'incolmabile vuoto, "l'assenza di canto" degli anni di guerriglia :
[…] una stagione, lo sappiamo tutti, che non permise
nemmeno nella speranza del riscatto la minima euforia,
mai come allora la morte e la tortura […] avendo circolato
fra noi con così plumbeo piede. Tanto che perfino la
ribellione aperta esplose senza il minimo romanticismo e
perciò senza un canto (nemmeno un Berchet, nemmeno un
Mameli o un Mercantini), frutto di una volontà così
intensamente sofferta da inibire ogni consueto e, possiam
dire, tradizionale sfogo o incitamento che non fosse
anch'esso azione pura.
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Racconti come Il labirinto, La Liguria non cede (1946)
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, Sangue in
Val Trebbia (1949), riescono con chiarezza a delineare la tragedia
umana dei partigiani, ponendo maggior attenzione ai sentimenti e alle
speranze (spezzate) dei protagonisti che alle vicende belliche: si
respira l'odio e l'impotenza delle donne costrette ad abbandonare le
proprie case, ma anche i dubbi paralizzanti che incatenano l'autore
quando, in prima persona, narra le vicende che ha vissuto e sofferto
con un'estrema e fragile sensibilità, spesso inadatta all'azione e a
rapide prese di posizione; tanto che nel Labirinto il capo della
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divisione partigiana Gregorio gli rimprovera: "Pietra è sempre stato un
tonno. I suoi studi gli sono serviti soltanto a farlo diventare un tonno.
Guarda laggiù tu, non importa saper bene il latino per vedere un
pericolo".
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Anche al momento della fucilazione della ragazza-spia, Pietra (il
soprannome significativamente affibbiato a Caproni dai compagni di
lotta) rimarrà a lungo nei suoi contraddittori pensieri, non riuscendo in
nessun modo a odiare quella giovane donna, vista in tutta la sua calda
umanità e non nelle vesti di una pedina nemica da disprezzare:
La ragazza era con la nuca sulla neve e il petto
squarciato dalla raffica. Era rimasta a bocca aperta, i denti
fitti e grandi, e nel chiuderle gli occhi sentii sui
polpastrelli gelati l'ultimo suo tepore, un tepore che si
dileguava senza che nessuna forza al mondo potesse ormai
trattenerlo.
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Ancora una volta riecheggia, in questo gelido mattino invernale, il
ricordo di Olga e la sofferente impotenza dell'uomo nei confronti della
morte.
Ne Il sasso sui bambini (1945), Un colpo di pistola (1946), Rovine
invisibili (1946), Le coltellate (1949), la guerra continua a essere
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protagonista; anche se ormai alle spalle, getta la sua ombra sulle
speranze recise e sui sensi di colpa dei personaggi, i cui sogni infranti
sono appunto "rovine invisibili". Ogni racconto termina con
un'interrogazione, con domande che rimangono irrisolte, con un nodo
alla gola che stenta a sciogliersi: troppe le ingiustizie perpetuate
dall'uomo e dal destino, la coscienza morale è fortemente scossa e ha
perso ormai ogni convinzione; come i giovani coniugi del Sasso sui
bambini, che non hanno una casa per i loro figli o il 'folle' di Un colpo
di pistola, che entra armato in un salone affollato di gente cercando un
colpevole, fintanto non capisce di esserlo egli stesso. Una vita distrutta
quella di Simone ne Le coltellate, accecato dal dolore della perdita del
figlio e dei familiari nelle rovine dei bombardamenti.
La tragedia bellica fa soltanto da sfondo in altri racconti, dove
l'autore vuole innanzitutto evidenziare certe sfumature caratteriali,
come quelle infantili in Come in una foresta (1946) e ne La fine di una
giornata (1946)
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: qui la guerra è scorta dal punto di vista ingenuo di
un bambino, Marcellino, che interpreta in modo sbagliato le emozioni
e i comportamenti degli adulti; ad esempio pensa che il padre sia
cattivo perché parte per una campagna militare. E' un personaggio che
torna più volte nelle storie caproniane, come se l'autore avesse voluto
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seguirlo nella sua crescita psicologica, dalla prima infanzia fino alla
maturità. Con tutta probabilità lo scrittore pensava ad un romanzo
intimista, tutto costruito sulle riflessioni e sulle emozioni di un
personaggio a tutto tondo in grado di incarnare le ansie e le paure,
l'estrema emotività del suo creatore.
Dal 1946 Caproni comincia a scrivere racconti, taluni stravaganti e
ironici, altri tragici, che comunque si discostano dalle tematiche che
fino ad allora aveva affrontato: Aria Celeste (1946), Cinquanta
cavallini nuovi (1946), Come un'immensa pietra (1947), Le ginocchia
di Amelia (1947), Il genovese vestito di nero (1948), Dio in persona
(1948), A causa dei motori (1948), La lontananza dal mondo (1948),
Un vigliacco al signore (1948), La corte dei tacchini (1948), Campo
Aperto (1948), Aria come un diamante (1948), Brindisi sulla terrazza
(1948), Ambulanti (1948), Ad portas inferi (1948), L'amico della
badessa (1948), Impresa Wasovicz (1948), L'odore dei capelli (1948),
Due lettere un brindisi (1948), Il 'largo' di Veracini (1948), Il bagno
di luce (1948), Una paura misera (1948), Il segno della schiavitù
(1949), Gli insetti (1949), Per colpa dei poveri (1949), La forza
dell'automobile (1949), Un uomo quasi felice (1951).
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Allontanandosi dalla prosa autobiografica e memorialista l'autore
narra storie d'ogni giorno, intessute su eventi minimi e situazioni
familiari, dove la quotidianità è ascoltata nella sua estrema sottigliezza
e gli uomini, orfani del passato, si affannano alla ricerca di un'identità
irrimediabilmente persa, smarriti in uno scenario muto che grava sulle
loro spalle. Sempre in primo piano la fragilità nascosta nell'anima dei
protagonisti, causa di insuccessi e umiliazioni, ma anche di poetiche
fughe nella memoria. Poiché ogni personaggio rispecchia un lato della
poliedrica sensibilità dell'autore, che sente come una colpa come una
vergogna (si parla addirittura di vigliaccheria in alcuni racconti)
l'inettitudine a vivere, è facile capire in queste storie, come Caproni
confessi, in forma spesso liberatoria, i dubbi e gli interrogativi che lo
tormentano ed è divertente vederlo giocare con le proprie presunte
mancanze. Il racconto allora assume toni decisamente comici, che
aiutano ad alleggerire il dramma dell'uomo che pensa e desidera ma
che non passa all'azione. In questo senso è esemplare la storia tutta
interiore di Un vigliacco al signore: narrata in prima persona, parla del
travaglio della timidezza, madre di atteggiamenti innaturali e azioni
involontarie, di frustrazioni e inibizioni, così paralizzanti nella vita di
chi le prova quanto bizzarre agli occhi del lettore, dilettato dalle
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'imprese eroiche' che l'introverso deve quotidianamente affrontare.
Di solito è un personaggio femminile che pone il protagonista di
fronte ai suoi limiti, quelli dettati dall'incapacità di scegliere di fronte
agli innumerevoli bivi che la vita propone. La donna cerca protezione,
quella che l'autore e i suoi alter-ego narrativi non riescono a dare e
che paradossalmente cercano anch'essi in un impossibile rapporto
'fusionale', quasi materno: La forza dell'automobile rivive la storia di
un abbandono, quello subito dall'io narrante nel drammatico addio
della convivente; lei preferisce la sicurezza che un uomo ricco può
darle, sceglie la forza e il futuro, il proprietario di un'automobile, e
lascia in balia di sé stesso il debole, la vittima, l'uomo la cui unica
colpa è la povertà. Le sue ultime parole di congedo potrebbero essere
quelle di una madre costretta ad allontanarsi dal figlio: lascia
indicazioni domestiche da seguire, ricette culinarie per preparare,
questa volta da solo, quei piatti che tanto aveva amato.
Le incertezze e gli smarrimenti nel rapporto di coppia tornano nelle
storie contigue de Le ginocchia di Amelia e Il genovese vestito di
nero. Anche qui, tramite la metafora calcistica, si traccia un netto
confine tra forti e deboli, giocatori vincenti e perdenti. Il protagonista
si trova sempre tra i sopraffatti, fin da bambino umiliato per
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l'incapacità di tirare anche un solo calcio a un pallone (persino una
bambina si prende gioco di lui!). Una speranza sembra l'incontro con
Amelia, una giovane ragazza conosciuta allo stadio, che sembra
disprezzare i calciatori, modelli di perfezione e virilità. Col passare
degli anni però anche Amelia si rivelerà una delusione, gli rinfaccerà
le sue sconfitte, nel calcio come nella vita; non potendola più
sopportare troncherà in un momento di tragica follia la vita della
donna che un tempo lo amava e che ora l'accusava di quelle stesse
debolezze che aveva sempre riconosciute sue.
Tutte queste storie, domestiche e popolari, sono accompagnate da
uno stile sempre chiaro e sciolto, dove Caproni aggiunge un'affabilità
comunicativa tanto limpida quanto inconsueta. Possiamo affermare,
senza ombra di dubbio, che sono proprio i racconti a sperimentare per
la prima volta un nuovo modo di intendere il reale e la poesia, la vita e
il linguaggio. Per l'autore le parole hanno importanza solo come segni
delle cose, se non fanno riferimento ad una realtà tangibile non hanno
nessun valore. L'attaccamento alla concretezza delle parole è
attaccamento alla vita; Caproni stesso ebbe a dire successivamente dei
suoi versi:
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L'unica 'linea di svolgimento' che vedo nei miei versi, è
la stessa 'linea della vita': il gusto sempre crescente, negli
anni, per la chiarezza e l'incisività, per la 'franchezza', e il
sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o
concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante
specie, come il diavolo, e per l'astrazione dalla concreta
realtà. Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere
o una stringa, m'ha sempre messo in sospetto. Non mi è
mai piaciuta: non l'ho mai usata nemmeno come lettore.
Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé,
più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché
sono oggetti quotidiani e nostri.
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La ricorrente ossessione di afferrare il reale che, a partire dal Seme
del piangere
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, caratterizza tutta la poesia di Caproni, non nasce di
certo in nome di un nuovo realismo, semmai di una nuova presa di
coscienza: il senso della vita va cercato nella vita stessa, nei ricordi e
nelle speranze, nel dolore e nella gioia, nelle persone che abbiamo
amato e negli "oggetti quotidiani e nostri" e mai e poi mai dobbiamo o
possiamo allontanarcene: strazianti sono i deserti aridi della ragione;
per questo dopo la lettura dei suoi versi, dei suoi racconti, non si ha
mai l'impressione di aver attraversato un mondo di pure idee e concetti
ma fatto di uomini, animali e cose, l'unico mondo a noi concesso, il
solo che possa alleviare l'angoscioso mistero dell'esistenza e la tragica
solitudine umana. Gli obiettivi del poeta e del narratore non sono