72
CAPITOLO 3
LE ARGOMENTAZIONI DEI FAUTORI DELLA
GLOBALIZZAZIONE
3.1 Gli apologeti della globalizzazione
Come già accennato nel capitolo precedente, nel great globalization debate in corso vi è
anche lo schieramento degli studiosi favorevoli agli attuali processi di globalizzazione.
Secondo questi autori, negli ultimi tre secoli industrialismo e modernizzazione hanno dato
ottima prova di sé promuovendo: un elevato livello di benessere economico, fenomeni
come la secolarizzazione e la diffusione del liberalismo e dell‟economia di mercato, la
rivoluzione tecnologico-informatica e la proclamazione dei diritti umani.
Alla base di questi processi e del loro crescente successo oltre i confini dell‟Occidente, è
stata l‟indiscussa superiorità economica, tecnologica e militare della civiltà occidentale
rispetto alla altre civiltà del pianeta. In questa chiave, la più recente dilatazione globale
della rivoluzione industriale e dei processi di modernizzazione è un fenomeno inarrestabile
e benefico, poiché è destinato a diffondere nel mondo intero le conquiste civili
dell‟Occidente
1
.
Secondo la tesi globalista siamo in presenza, non soltanto di una semplice intensificazione
e amplificazione delle relazioni economiche internazionali, ma di una vera e propria
economia globale in cui i principali fattori di produzione presentano un tasso di
interdipendenza, integrazione e apertura che non ha precedenti nella storia dell‟umanità.
L‟apertura globale dei mercati e la loro espansione senza limiti territoriali ha l‟effetto di
aumentare la concorrenza e la produttività, di stimolare la circolazione dei risparmi al di
fuori dei confini nazionali, di ridurre la disoccupazione e, di conseguenza, di incrementare
considerevolmente la ricchezza complessiva prodotta
2
.
1
Cfr. Held D. e McGrew A.G., (2000), “The great globalization debate: an introduction”, in Idd. (a CURA DI), “The global
transformations reader, Cambridge, Polity press, trad. It. (2001), “Globalismo e antiglobalismo”, Bologna, Il Mulino, pp.9-16; Zolo
D. (2004), “Globalizzazione, una mappa dei problemi”, Bari, Laterza & Figli S.p.a., pp. 13-14.
2
Cfr. Gallino L. (2000) “Globalizzazione e disuguaglianze”, Roma-Bari, Laterza, pp. 99-106
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Grazie alla diffusione delle nuove tecnologie, dell‟informazione e della comunicazione, al
libero movimento dei capitali e all‟espansione del commercio mondiale, la globalizzazione
porta con sé opportunità e vantaggi di grande rilievo. Fra questi si possono annoverare:
una più efficiente divisione internazionale del lavoro, il progressivo abbattimento dei costi
di produzione, la riduzione della povertà, il miglioramento delle condizioni di vita personali
e sociali e così via…
3
È un dato oggettivo e verificato empiricamente che il consumo globale di beni e di servizi
si è notevolmente accresciuto negli ultimi cinquant‟anni
4
. Ad esempio, nel 2000 il prodotto
interno lordo del pianeta è stato di 42.000 miliardi di dollari e tale cifra rappresenta un
aumento pari a sette volte il Pil del 1950. Inoltre secondo gli indici classici della crescita
economica, non solo una gran parte dei paesi dell‟OCSE ne ha tratto vantaggio, ma
importanti poli di sviluppo si sono affermati in paesi come la Cina, l‟India, e l‟America
meridionale, e ciò ha comportato un aumento del reddito individuale in una parte
considerevole della popolazione mondiale. In pratica le condizioni di vita di milioni di
persone sono migliorate: la loro vita è più lunga e più sana, l‟alfabetizzazione degli adulti è
passata dal 60 all‟80%, il numero delle persone denutrite è diminuito e il tasso di mortalità
infantile si è dimezzato.
5
Per i pro-global la fase della globalizzazione (storicamente parlando) che presenta i
maggiori effetti positivi ha inizio con la conclusione della seconda guerra mondiale e si
protrae fino ai giorni nostri. In questa fase si assiste ad un significativo recupero degli
scambi, rispetto alla prima metà del secolo, con il commercio che cresce ad un tasso
medio annuo del 6%, più del doppio rispetto al tasso di crescita del reddito. I volumi del
commercio mondiale di beni si moltiplicano per 20 e l‟incidenza sul PIL globale per 3
nell‟arco di un cinquantennio.
Con la firma di successivi round di negoziati commerciali multilaterali, i dazi doganali medi
scendono a livelli estremamente bassi, mentre il costo del trasporto internazionale si
riduce. Contemporaneamente l‟investimento estero, che era inizialmente un‟attività
riservata a grandi imprese multinazionali con sede in un numero limitato di Paesi, investe
piccole e medie imprese. La natura stessa dell‟impresa multinazionale muta, poiché le
filiali estere s‟integrano, non solo con la casa madre, ma soprattutto con altre sussidiarie
dello stesso gruppo.
3
Cfr. Sen A. (2002) “Globalizzazione e libertà”, Milano, Mondatori, pp. 3-9
4
Cfr. United Nations Development Program, (1999), “Human Development Report 1999”, New York-Oxford, Oxford university
Press, trad. It. nella serie “Rapporto sullo sviluppo umano”, 12 voll., Torino, Rosenberg&Sellier, 1992-2001.
5
Cfr. id. Zolo D. (2004), “Globalizzazione, una mappa dei problemi”, pp. 27-30
74
Inoltre aumentano gli Investimenti diretti esteri (Ide) nei paesi in via di sviluppo con una
particolare e singolare propensione a grandi mercati come il Brasile, la Cina e il Messico.
Ciò si spiega attraverso la maggiore liberalizzazione delle norme che regolano tali apporti
di capitale, che hanno ridotto le restrizioni cui sono soggetti gli investitori esteri,
proteggendoli meglio ed equiparandoli ai residenti
6
.
Quindi, gli autori che tuttora scrivono a favore dei processi globalizzatori, sostengono che
il processo di liberalizzazione ben esemplifica le molteplici dimensioni della
globalizzazione. Esso infatti, promosso dalla riduzione dei costi di trasporto e
comunicazione, mira alla rimozione delle barriere legislative, alla libera circolazione di beni
e servizi tra Paesi e si realizza grazie all‟adozione di politiche liberali a livello nazionale e
alla promulgazione di regole a livello multilaterale.
Come fa notare l‟economista indiano Jagdish Bhagwathi, i promotori del libero scambio
hanno tradizionalmente goduto di un primato morale sui gruppi protezionistici: mentre i
difensori del libero scambio cercano di consentire alla maggioranza di ottenere un
benessere maggiore, chi lo avversa, pur essendo capace di mobilitare risorse spesso
ingenti, mira a sacrificare l‟interesse generale per salvaguardare il proprio interesse
personale
7
.
3.2 L’apertura commerciale è sinonimo di sviluppo economico
La teoria economica
8
distingue generalmente tre tipi di benefici associati al libero scambio.
Il primo è legato al concetto di vantaggio comparato ed è il risultato di una maggiore
specializzazione, o divisione internazionale del lavoro. Allo stesso modo in cui ciascuno di
noi non produce da sé tutti i beni di cui ha bisogno, ma preferisce impiegare il proprio
tempo in attività in cui è più produttivo e acquistare da altri ciò che non è conveniente
auto-produrre, così, grazie al libero scambio, ciascun paese è in grado di concentrarsi
sulla produzione di quei beni in cui è relativamente più efficiente e importare il resto.
6
Cfr. Bonaglia F. e Goldstein A. (2003), “Globalizzazione e sviluppo”, Bologna, Il Mulino, pp.18-24
7
Cfr. Bhagwathi J., (2001), “Free trade today”, Princeton, Princeton university Press, pp. 59-65
8
A partire da A.Smith, D.Ricardo nel XVIII e XIX secolo che hanno dimostrato come l’eliminazione delle barriere allo scambio tra
individui e nazioni genera n aumento del benessere; fino a Bhagwathi che ha successivamente contribuito a chiarire i casi in cui i
risultati di questa teoria vengono meno e come porvi rimedio, aprendo la strada ai più recenti contributi che, introducendo ipotesi più
realistiche sulla struttura dei mercati e il funzionamento dell’industria, hanno offerto nuovi argomenti in favore del libero scambio. A
tal proposito cfr. il manuale “Trade liberalization and poverty: A handbook” pubblicato nel 2001 dal Department for international
development britannico (http://www.cepr.org/pubs/books/P144.ASP)
75
L‟apertura commerciale, allargando la dimensione del mercato interno, consente di
raggiungere un maggiore grado di divisione del lavoro, riduce il potere di monopolio delle
imprese e offre ai consumatori una maggiore libertà di scelta. La combinazione di questi
meccanismi induce una più efficiente utilizzazione delle risorse, riduce i prezzi dei beni
importati e, quindi, genera più elevati livelli di reddito.
A questo primo guadagno legato alla specializzazione, generalmente definito “statico”, se
ne aggiunge un altro “dinamico”, inerente l‟aumento della produttività dei fattori di
produzione. Questo risulta dalla possibilità di produrre per mercati più ampi (ciò che
consente alle imprese di attuare economie di scala), dalla maggiore pressione competitiva
(che induce le imprese inefficienti a chiudere) e dalla maggiore circolazione della
conoscenza (che consente di applicare la tecnologia più appropriata).
Un terzo gruppo di benefici, solo indirettamente economici, include la riduzione dei privilegi
e delle rendite monopolistiche, la riduzione dell‟isolamento tra i popoli e la promozione di
relazioni pacifiche tra paesi
9
.
Si può allora sostenere che la liberalizzazione degli scambi può accrescere il benessere
dei cittadini inducendo una più efficiente utilizzazione delle risorse e rendendo queste
risorse più produttive, accelerando così la crescita del reddito.
La quantificazione dei benefici legati alla migliore utilizzazione delle risorse, che viene
effettuata con modelli matematici di equilibrio economico generale che simulano diversi
scenari e stimano le variazioni nei livelli aggregati di reddito, dimostra che, in virtù del
livello ancora elevato delle tariffe
10
che gravano su molti beni, queste simulazioni sono
concordi nel confermare l‟effetto positivo della liberalizzazione. Infatti, a seconda delle
ipotesi che man mano vengono fatte, è dimostrabile che una riduzione del reddito
mondiale genera un suo aumento la cui cifra è compresa tra i 250 e i 600 milioni di euro
(almeno un terzo dei quali andrebbe ai PVS).
9
In generale, la teoria prevede che una nazione abbia un guadagno netto quando si apre al libero scambio, anche qualora le altre non
facessero la stessa scelta. In effetti, Bagwathi ha dimostrato che il protezionismo non è mai una politica ottimale. La sua adozione è
giustificabile solo quando rappresenta la scelta del male minore, ovvero in presenza di distorsioni che impediscono all’economia di
funzionare correttamente e che non possono essere sanate da altre politiche. I casi in cui l’adozione di misure restrittive aumenta,
anzichè ridurre, il benessere di una nazione sono assai limitati. In effetti questo si verifica solo quando un paese è così grande da
influenzare il livello mondiale dei prezzi dei beni che importa o esporta. Ad esempio, se il paese rappresenta un parte considerevole
della domanda mondiale di un bene, la rimozione delle restrizioni sulle importazioni di quel bene, che mantenevano il prezzo interno
al di sopra di quello mondiale, può fare aumentare a tal punto la domanda da indurre un aumento del prezzo mondiale che
vanificherebbe la rimozione della tariffa. Cfr. id. Bhagwathi J., (2001), “Free trade today”, pp. 41-52
10
Addirittura sono proprio i Paesi meno sviluppati che applicano tariffe generalmente più elevate. Così facendo recano danno alla
loro prosperità e contemporaneamente pregiudicano la loro lotta contro la povertà. Cfr. Bhagwathi J., (2004), “In defense of
globalization”, Oxford, Oxford University Press, trad. It. (a cura di) Liberatore S. (2005), “Elogio della globalizzazione”, Roma-Bari,
Laterza, p.9
76
Certamente la riallocazione delle risorse verso usi più efficienti non è né immediata, né
priva di costi. Infatti un recente studio del Centro di sviluppo dell‟Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)
11
stima che, quantomeno nel periodo di
aggiustamento, la rimozione del trattamento preferenziale garantito dai paesi
industrializzati alle esportazioni dei Pvs e i maggiori prezzi che questi pagherebbero per le
importazioni alimentari generano per alcuni Pvs costi più elevati dei benefici. Trascorso il
periodo di aggiustamento, però, tutti i Pvs ottengono dalla liberalizzazione un beneficio
netto che può essere fino a dieci volte superiore ai costi
12
.
Per quanto riguarda i guadagni “dinamici” della liberalizzazione, vi è una serie
13
di risultati
empirici su cui c‟è un sostanziale accordo che conferma l‟esistenza di un nesso positivo
tra apertura e crescita. In primo luogo, attraverso l‟utilizzo degli indicatori geografici per
approssimare il grado di apertura commerciale naturale, si dimostra che i Paesi più aperti
sono cresciuti mediamente di più. In secondo luogo, dettagliati studi condotti su singoli Pvs
hanno messo in luce i numerosi costi (diretti e indiretti) associati al protezionismo,
confermando la relazione positiva tra aumento degli scambi e crescita economica.
D‟altra parte nessuno studio ha mai trovato una relazione negativa tra apertura
commerciale e crescita del reddito anzi, si è sempre dimostrato come il commercio estero
possa favorire indirettamente la crescita, grazie alla stimolazione dell‟investimento e il
miglioramento della qualità delle istituzioni.
Inoltre gli autori osservano che, mentre i tassi di crescita nei Paesi in via di sviluppo non
globalizzatori hanno generalmente rallentato negli ultimi due decenni, nel caso dei Paesi
globalizzatori si è evidenziato esattamente l‟andamento opposto, dato che i loro tassi di
crescita hanno accelerato rispetto ai livelli degli anni‟60-‟70
14
.
11
Cfr. www.glob2000.it/ocse.html
12
Un esempio di come la liberalizzazione dei mercati comporta benefici notevoli per i Pvs può essere dato dalla Politica agricola
comune (PAC) dell’UE. Quest’ultima costa ogni anno 20miliardi di dollari ai Pvs in termini di minori esportazioni ma,
sovvenzionando gli agricoltori europei, ha anche l’effetto di calmierare i prezzi mondiali dei beni agricoli. La sua abolizione avrebbe
quindi un effetto positivo per i Pvs esportatori ma un effetto negativo per quelli che importano invece le derrate alimentari, i cui
prezzi aumenterebbero, almeno nel breve periodo. Col tempo però gli effetti dovrebbero essere complessivamente positivi, visto che
la rinnovata competitività dell’agricoltura nei Pvs aumenterebbe gli investimenti, incrementando la produttività e riducendo quindi i
prezzi. A tal proposito cfr. id. Bonaglia F. e Goldstein A. (2003), “Globalizzazione e sviluppo”,pp. 36-37
13
Cfr. http://columbia.edu/*jb38; Clemens M. e Williamson J., “A Tariff-Growth Paradox? Protection’s Impact the World Around
“,National Bureau of Economic Research, Working paper No. 8459, Cambridge, Mass., settembre 2001; O’Rourke K, “Tariffs and
Growth in the late 19
th
Century” in ECONOMIC JOURNAL 110 (2000), pp. 335-360; Irwin D.,“Interpreting the Tariff –Growth
Correlation in the late 19
th
Century”, in THE JOURNAL OF ECONOMIC HISTORY, 60 (2002), pp. 456-483.
14
Tra i principali autori che studiano questo argomento (i guadagni “dinamici”) vi sono David Dollar e Aart Kraay della Banca
Mondiale che, puntando l’attenzione su paesi globalizzatori come Vietnam e Messico (compresi nel primo terzo della graduatoria dei
Pvs in termini di scambi commerciali rispetto al Pil per l’arco di tempo 1977-1997), hanno mostrato come questi abbiano ottenuto
risultati maggiori rispetto a tanti altri Paesi in termini di una migliore crescita economica. Tali risultati sono documentati in una loro
raccolta di saggi tra cui il più recente è intitolato “Spreading the Wealth “, in FOREIGN AFFAIRS, 81 (2002), 1, pp. 120-133 (in
particolare la conclusione sulla questione del commercio e della crescita è a p. 126).
77
In pratica, il benessere economico e non, si raggiunge con un commercio orientato verso
l‟esterno e, conseguentemente, con l‟ampliarsi dell‟investimento diretto estero, per i
seguenti motivi:
Le economie orientate verso l‟esterno sono in grado di raggiungere una maggiore
efficienza, cioè di trarre maggiori vantaggi dal commercio, attraverso una maggiore
specializzazione.
Quando il commercio espande i mercati, le imprese possono sfruttare le varie
economie di scala
15
.
Vi sono i vantaggi che derivano dall‟aumento della concorrenza. Spesso la causa
principale dell‟esistenza dei monopoli nazionali è l‟imposizione di restrizioni
commerciali: una più marcata liberalizzazione del commercio fa crescere la
concorrenza e quindi l‟efficienza e i guadagni.
Per riuscire a mantenere un atteggiamento orientato verso l‟esterno, i Paesi devono
creare una certa stabilità macroeconomica (principalmente un‟inflazione bassa). Le
economie soggette all‟inflazione e con un regime di tasso di scambio fisso, cioè
riluttanti ad aggiustare il tasso di scambio in risposta all‟inflazione, finivano per
trovarsi subito con una moneta sopravvalutata. Questa sopravvalutazione deprimeva
le esportazioni, tendeva a far aumentare le importazioni e, quindi, indeboliva la
strategia commerciale verso l‟esterno. Di conseguenza, i paesi impegnati in una
strategia commerciale di promozione delle esportazioni dovevano avere una stabilità
macroeconomica, godendo dei vantaggi che una buona gestione economica
consente.
Infine, la presenza di restrizioni commerciali fa diminuire anche l‟investimento diretto
estero, che oltretutto è anche meno produttivo perché l‟esistenza di barriere doganali
sta a significare che l‟investimento è destinato prima di tutto al mercato interno, che è
generalmente limitato. Al contrario, nelle economie orientate verso l‟esterno
l‟investimento è destinato al mercato mondiale, che non è affatto limitato
16
.
Un esempio in cui sono riscontrabili tutti i punti sopra elencati lo si può avere considerando
il contrasto fra le esperienze dell‟India e dell‟ Estremo Oriente nell‟ultimo trentennio. A
partire dagli anni Sessanta agli Ottanta, l‟India rimase chiusa in politiche commerciali
15
Ciò è particolarmente vero per i Paesi piccoli. Infatti negli anni Sessanta ad esempio Tanzania, Uganda e Kenya fecero ricorso a
una politica protezionistica imponendo alte tariffe sulle importazioni, per poi rendersi conto che tale politica aveva un costo troppo
alto: ciascuno di essi produceva poche unità di diversi prodotti. Perciò negli anni Settanta decisero di costruire una sorta di mercato
comune dell’Africa orientale, in modo che ciascun paese, specializzandosi in certi settori, potesse produrre a costi inferiori per un
mercato più ampio e integrato. Questo esempio è estrapolato da: id. Bhagwathi J., (2004), “Elogio della globalizzazione”, p. 86.
16
A tal proposito cfr. id. Bhagwathi J., (2004), “Elogio della globalizzazione”, pp. 86-87.
78
relativamente autarchiche; i paesi dell‟Estremo Oriente, Singapore-Hong Kong-Corea del
Sud e Taiwan (le quattro “piccole tigri”) assunsero invece un atteggiamento vistosamente
orientato verso l‟esterno. I risultati furono che: in India le esportazioni e il reddito
continuarono a tendere decisamente verso il basso, mentre in Estremo Oriente
crescevano a ritmi veramente sostenuti. Non per niente gli economisti parlarono e parlano
tuttora del miracolo asiatico. Questi spettacolari risultati erano dovuti a tassi d‟investimento
per la produzione molto alti, quasi mai raggiunti altrove.
Il motivo per cui questi tassi potevano essere così alti era che questi paesi del miracolo
asiatico avevano aperto le proprie economie e quindi dovevano fare i conti con i mercati
mondiali al momento di pianificare i loro investimenti. Al contrario, l‟India si rivolgeva al
mercato interno, che quindi in pratica ne limitava gli investimenti.
Inoltre tali tassi d‟investimento eccezionalmente alti furono straordinariamente produttivi.
Essi, infatti, basandosi sui guadagni delle esportazioni, permisero di far convergere
l‟investimento di capitali nelle importazioni di apparecchiature con componenti a tecnologia
avanzata e altamente produttiva
17
.
Infine, a tal proposito, bisogna sottolineare che molti studi empirici hanno permesso
l‟analisi di come incidano sull‟occupazione i mutamenti nei modelli commerciali. Ad
esempio uno studio su 165 Paesi, relativo al periodo 1985-1990, conclude che una
maggiore apertura al commercio aumenta la quota femminile di occupazione retribuita.
Un‟ulteriore analisi dei dati raccolti a livello di industria in Colombia e in Turchia (ambedue
caratterizzate da rapida crescita delle esportazioni) rivela che le imprese che producono
per esportare impiegano più lavoratrici, spesso per mansioni specializzate.
La globalizzazione viene associata anche al lavoro a domicilio, al telelavoro e al lavoro
part time. In Gran Bretagna, la percentuale di lavoratori con accordi di lavoro non
convenzionali è aumentata dal 17% nel 1965 al 40% nel 1991, mentre nel 1985 la quota di
tali accordi di lavoro ammontava al 15% in Giappone, al 33% in Corea del Sud e al 50% in
Messico, Perù e Sri Lanka; in Grecia e Portogallo le donne rappresentano il 90% di chi
lavora a casa con conseguente possibilità di conciliare gli obblighi di assistenza che le
donne hanno all‟interno della famiglia
18
.
17
Per quest’ultimo esempio cfr. THE WIND OF THE HUNDRED DAYS: HOW WASHINGTON MISMANAGED
GLOBALIZATION, Bhagwathi J. (2000), “East Asian growth: the miracle that did happen”, 81, pp. 36-65.
18
Cfr. United Nations Development Program,(1999), “Human Development Report 1999”, New York-Oxford, Oxford university
Press, trad. It. nella serie “Rapporto sullo sviluppo umano”, 12 voll., Torino, Rosenberg&Sellier, 1992-2001, p. 100