II
internazionale che procede per stadi sequenziali (dall’esportazione internazionale
alla presenza strutturata nell’arena internazionale) ognuno dei quali caratterizzato
da specifici assetti organizzativi e da specifici orientamenti cognitivi da parte dei
manager.
Le ipotesi deterministiche alla base dei modelli sopra citati hanno tuttavia
mostrato una scarsa, se non nulla, efficacia interpretativa a fronte della varietà
delle forme e dei percorsi di internazionalizzazione concretamente osservabili,
specie nella realtà italiana, da cui emerge che, peraltro, non ci sono comunque
barriere assolute di ordine dimensionale all’ingresso e all’espansione delle PMI
sui mercati internazionali; sono le modalità, gli strumenti e le forme di
coinvolgimento che possono essere diverse rispetto a quelle delle grandi imprese.
Semplicemente le PMI non ci sono, o meglio sono una fase, un transitorio
momento di una incrementale e inevitabile evoluzione che parte dal piccolo e
arriva al grande.
La realtà italiana è certamente in grado di smentire questa visione elitaria
dell’internazionalizzazione dell’economia, pure presentando dei tratti peculiari
rispetto al resto dei paesi del mondo industrializzato. Un modello di
internazionalizzazione centrato sul ruolo delle PMI e dei distretti che si pone in
netta antitesi ai modelli implementati dalle grandi organizzazioni.
La PMI italiana ha sempre preferito largamente la modalità dell’export,
evidenziando invece una ridotta propensione agli investimenti esteri. Nella
maggior parte dei casi, la proiezione internazionale delle PMI italiane ha
riguardato infatti le vendite del prodotto finito e non le attività a monte della
catena del valore. Per queste attività, anche nel caso del ricorso al decentramento,
si sono utilizzate in gran parte risorse e soggetti presenti nello specifico contesto
territoriale locale.
A questa preferenza per modalità poco impegnative di
internazionalizzazione hanno senza dubbio contribuito anche gli stessi modelli di
governance di tali imprese, centrati sul ruolo dell’imprenditore e della famiglia, e
caratterizzati da scarso ricorso a profili manageriali e a forme organizzative
adeguatamente strutturate per affrontare le sfide dell’internazionalizzazione.
III
Tuttavia l’esportazione non va considerata un modello meno evoluto di
internazionalizzazione. In determinate circostanze, la forma export può risultare
più adatta degli IDE per realizzare l’internazionalizzazione dell’impresa. Più in
particolare, la preferenza per l’export può essere giustificata in tutti quei casi dove
il valore dell’offerta dipende da vantaggi che sono prevalentemente di tipo
country specific, come quelli identificabili nelle economie di agglomerazione
tipiche dei distretti industriali italiani.
I vantaggi competitivi su cui hanno fatto leva le PMI italiane nei decenni
passati sono infatti prevalentemente quelli locali di cui parla Porter nel suo
diamante.
3
In questi termini, sarebbe quindi la necessità di conservare i vantaggi
dell’appartenenza a sistemi del valore a base territoriale ad indurre le PMI italiane
a preferire il modello esportativo agli IDE.
Come notano Grandinetti e Rullani, le PMI italiane hanno un rapporto
naturale con l’internazionalizzazione, per il fatto che le loro competenze di
nicchia possono essere messe in valore semplicemente attraverso un’estensione
mondiale delle vendite.
4
I vantaggi competitivi delle nostre imprese sono infatti
fortemente radicati sul territorio e sono intrinsecamente di natura globale, in
quanto adatti ad essere sfruttati a livello internazionale senza un elevato
adattamento dell’offerta ai diversi mercati.
In questo quadro, non vanno poi sottovalutati i vantaggi dell’appartenenza
ai distretti industriali. In un contesto di relativo nanismo imprenditoriale, come
quello italiano, dove il peso sul commerci o internazionale di ogni singola impresa
è poco più che marginale, è forse possibile assegnare proprio ai distretti un ruolo
di multinazionali spontanee.
5
Spontanee perché non il frutto del disegno strategico
di imprese guida; multinazionali per la rilevanza in termini di dimensione
( fatturato e addetti) e di quote di mercato a livello internazionale.
Export e distretti: in estrema sintesi è proprio su queste colonne portanti
che il sistema delle PMI italiane ha raggiunto livelli relativi di
3
Sicca L. (1998), La gestione strategica dell’impresa. Concetti e strumenti. Cedam, Padova
4
Grandinetti R:, Rullani E. (1996), Impresa transnazionale ed economia globale, La Nuova Italia
Scientifica, Roma
5
Nanut V. e Tracogna A. (2003), Processi di internazionalizzazione delle imprese: vecchi e nuovi
paradigmi. Sinergie n.60,
IV
internazionalizzazione non dissimili da quelli di altri sistemi industriali
occidentali.
Tuttavia, oggigiorno, al cospetto dei mutati scenari internazionali a causa
di fenomeni come :
• l’aumento della scala dei mercati;
• la concorrenza dei nuovi player a livello mondiale, e la tendenza
alla delocalizzazione delle imprese occidentali nei paese a basso
costo del lavoro,
il successo internazionale del nostro tessuto di PMI inizia a mostrare evidenti
segni di cedimento. Un cedimento che trova la sua origine non solo in tutti quei
limiti dimensionali intrinsechi dell’impresa minore (in termini di governance,
management, strategici, e finanziari), ma soprattutto in quelle inadeguatezze
strutturali del nostro sistema paese: un sistema bancario arretrato e l’inesistenza di
un mercato finanziario efficiente; un modello di specializzazione ancora troppo
ancorato ai comparti tradizionali dove è forte la componente labour intensive e
scarso invece il contributo dell’innovazione tecnologica; infine un sistema di
supporto all’internazionalizzazione delle PMI, sia pubblico sia privato, troppo
fragile e frammentato.
Ritardi , questi ultimi, che minano la competitività italiana non solo
ostacolando forme di internazionalizzazione più leggere (il calo delle
esportazioni), ma anche attraversala mancanza di una più radicale proiezione
internazionale del nostro tessuto di PMI, ossia IDE, delocalizzazione produttiva,
oggi quanto mai necessaria alla sopravvivenza del nostro made in Italy. Sembra
un paradosso, ma non lo è.
1
CAPITOLO I
IL PROCESSO DI
INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE
IMPRESE
1.1 L’internazionalizzazione
1.1.1 Il concetto di internazionalizzazione
Il concetto di processo d’ internazionalizzazione di impresa si applica a
tutti i percorsi di crescita che le imprese attuano sui mercati esteri.
Nel tempo questa definizione ha assunto un significato sempre più ampio,
pertanto con questa terminologia “si allude non solo allo svolgimento di attività
all’estero e alla connessa presenza di imprese estere nel proprio ambiente, ma
anche ad una tendenziale attenuazione delle differenze a livello internazionale di
modalità e metodologie operative, di caratteristiche dei prodotti, di
regolamentazioni e di comportamenti”
1
.
Storicamente il primo e più semplice strumento con cui le imprese si sono
internazionalizzate è costituito dalle esportazioni. Si parla, in tal senso, di forma
mercantile dell’internazionalizzazione. Successivamente si è affermata la
cosiddetta forma produttiva, che consiste nel trasferimento, da parte delle aziende,
di risorse e capacità tecnologiche da paese di origine a un altro paese.
Quest’ultima forma si è realizzata attraverso diverse tipologie. In primo luogo,
1
Usai G. e Velo D. (1990), Le imprese e il mercato unico europeo, Pirola Editore, Milano , p.7
2
l’internazionalizzazione è stata caratterizzata da modalità che possiamo definire
classiche cioè attraverso la realizzazione di investimenti diretti all’estero (IDE); in
seguito ha assunto anche connotati innovativi, definiti col termine generico nuove
forme, quali ad esempio, le joint ventures, gli accordi di cooperazione, i
trasferimenti vincolati di tecnologia e le partecipazioni incrociate.
Risulta evidente che quello di internazionalizzazione è un processo
alquanto complesso che arriva a comprendere, secondo alcuni “il grado di
collegamento che il circuito cognitivo della singola impresa ha nelle grandi reti
mondiali, in cui si acquista sapere codificato (non importa se contenuto in
macchine, materiali tecnologici, componenti, prodotti finiti, servizi, licenze
software, o altri artefatti cognitivi)”
2
.
Il grande vantaggio di quest’ultima definizione è che essa ha estensione
maggiore nell’analizzare il fenomeno dell’internazionalizzazione. Comprende non
solo le forme classiche, ma anche quelle più innovative come le differenti
tipologie di accordi. Inoltre utilizzando il concetto di partecipazione alle reti del
sapere codificato si evidenzia il ruolo fondamentale delle conoscenze d’impresa
nell’odierno contesto competitivo internazionale.
Allo stesso tempo, c’è da dire che il concetto di internazionalizzazione
offerto da quest’ultima definizione è meno facilmente misurabile in termini
quantitativi rispetto ai processi tipi delle forme classiche, che sono invece
immediatamente quantificabili grazie ad indicatori facilmente reperibili ed
identificabili, quali le esportazioni e gli IDE.
1.1.2 Tendenze recenti del fenomeno
L’importanza del fenomeno dell’internazionalizzazione delle imprese
nell’economia mondiale può essere colto proprio facendo riferimento a questi
ultimi due indicatori.
2
Rullani E. (1994), Economia della conoscenza, Carocci, Roma, p.285
3
Secondo il più recente rapporto annuale dell’ICE
3
il commercio mondiale
nel 2004 è tornato a crescere a ritmi che non si registravano dal picco del 2000
(+12,4%), sfiorando il dieci per cento (+9,9%). L’aumento degli scambi
internazionali di merci e servizi in dollari è stato pari al 20%, il tasso più elevato
degli ultimi 25 anni (Tab. 1), ed ha coinvolto un numero più ampio di paesi. Tale
crescita sostenuta è dovuta alla combinazione di un forte aumento sia
nell’aumento delle esportazioni (+9,6%) che dei prezzi internazionali in dollari
(+10,4%). A guidare il trend a rialzo dei prezzi internazionali ci sono in prima
linea le quotazioni petrolifere e delle altre materie prime; anche per il 2004 i
prezzi delle commodity (+25%) sono cresciuti ad un ritmo più sostenuto di quelli
dei prodotti manufatti (+8,5%).
4
Tabella 1 - Commercio di beni per aree, 1995-2004
Fonte: WTO, Press Release 14 Aprile 2004
3
Rapporto Ice 2004 – 2005, L’Italia nell’economia internazionale.
4
Confindustria, Rapporto sull’industria italiana 2005.
4
Tenendo conto dei soli beni, l’incremento è stato del 20,9% a prezzi
correnti e del 9,2% in termini reali. Considerato che il prodotto mondiale si è
espanso del 4% , il rapporto tra i tassi di crescita del commercio e della
produzione, che misura la velocità che misura approssimativamente la velocità a
cui procede l’interazione economica internazionale, è gradualmente tornato ai
livelli degli anni novanta, dopo il brusco calo subito nel 2001. (Fig. 1)
Fonte: Thomson Financial
Anche gli scambi di tipo immateriale danno il loro contributo
all’internazionalizzazione se è vero che ben il 20% del commercio mondiale ha
per oggetto i servizi (fonte WTO).
Una crescita perfino più sostenuta (in termini percentuali) del trade è stata
quella degli IDE. Secondo i dati dell’ultimo studio UNCTAD
5
, nel 2004 il flusso
degli investimenti diretti esteri mondiali ha mostrato una ripresa consistente
crescendo di circa due punti percentuali (vedi fig.2) segnando la fine della
costante contrazione avvenuta dopo il picco del 2001. La localizzazione del flusso
degli investimenti si è concentrata, come nel 2003, verso i paesi in via di sviluppo,
5
Unctad, World Investment Report 2005
Figura 1 - Tassi di crescita del PIL mondiale e del commercio mondiale
5
in particolare l’Asia e il Pacifico, l’America Latina e l’Europa centro-orientale,
mentre nei paesi sviluppati si è continuata a contrarre la quota a loro destinata
passando dal 66% del 2003 al 52%. (Vedi tab.2)
Fonte: UNCTAD
Fonte: UNCTAD
Tabella 2 - Indicatori IDE e produzione internzionale, 1982 – 2004
Figura 2 - Flussi IDE mondiali e per gruppi di economie, 1980-2004
(In miliardi di dollari)
6
Secondo le prime stime e previsioni dell’UNCTAD il flusso degli Ide
dovrebbe continuare il suo percorso di crescita nel prossimo futuro, in
connessione con la ripresa economica mondiale, la buona valutazione del mercato
azionario e delle merger&acquisition (M&A).
Un’influenza decisiva nella crescita dei numeri dell’internazio-
nalizzazione è dovuta alle strategie seguite dalle grandi imprese multinazionali. Le
prime 100 multinazionali controllano oggi circa il 20% del totale degli
investimenti esterni; 51 delle principali economie del pianeta sono imprese
private, contro 49 stati-nazione.
6
“La maggiore mobilità dei capitali, assieme alle persistenti restrizioni nei
movimenti della forza lavoro, hanno esteso l’ampiezza dei network internazionali
di produzione, e di conseguenza accelerato la crescita del commercio in un
consistente numero di settori, specialmente dove le catene di produzione possono
essere spezzate e localizzate in diversi paesi.”
7
Politiche tariffarie di favore, spesso realizzate attraverso accordi a livello
regionale (UE, Nafta,..) e incentivi di carattere fiscale hanno ulteriormente
incoraggiato questo processo, promuovendo nuovi modelli di commercio prodotti
vengono realizzati in diverse località internazionali prima di raggiungere l’utente
finale.
Si stima che queste forme di commercio, basate su modelli di divisione del
lavoro entro network internazionali di produzione, pesino per un buon 30% sulle
esportazioni mondiali.
8
6
Hertz N. (2001), The silent takeover, Arrow
7
Nanut V. e Tracogna A. (2003), Processi di internazionalizzazione delle imprese: vecchi e nuovi
paradigmi. Sinergie n.60, p. 16
8
Unctad, World Investment Report 2005
7
1.2 Le teorie
La portata del fenomeno può giustificare il grande interesse che la
letteratura aziendalistica ha dedicato a queste tematiche. In questo lavoro due sono
le chiavi di lettura che vogliamo utilizzare per definire il processo di
internazionalizzazione: la teoria economico-aziendale,e l’analisi strategica.
Dal primo punto di vista le teorie dell’internazionalizzazione che si sono
sviluppate soprattutto in ambienti accademici anglosassoni, hanno tentato di
interpretare il forte sviluppo internazionale delle imprese americane nel corso del
dopoguerra fino agli anni settanta. Gli strumenti concettuali elaborati da questi
autori, il ciclo di vita del prodotto, la teoria dei vantaggi monopolistici, quella dei
costi di transazione, hanno permesso di comprendere meglio le motivazioni
teoriche che erano, e che tuttora sono, alla base dei processi di
internazionalizzazione. Poca attenzione invece, è stata dedicata all’evoluzione
strategica e organizzativa che ha accompagnato tali processi.
Questa lacuna è divenuta sempre più persistente nel momento in cui, con
gli anni settanta, sono emerse modalità innovative di internazionalizzazione,
spesso definite nuove forme
9
,e i processi di globalizzazione. Questi nuovi
processi di crescita a livello internazionale sono stati analizzati in particolar modo
dagli studiosi di strategia aziendale. Tale approccio teorico ha avuto il merito di
introdurre efficaci schemi interpretativi per analizzare le diverse strategie
d’internazionalizzazione adottate, che ancor oggi risultano validi. In secondo
luogo ha messo in evidenza quali stretti legami, nel contesto internazionale,
esistano tra percorsi strategici, strutture organizzative e meccanismi di
coordinamento all’interno delle imprese.
Utilizzando il concetto di globalizzazione, inteso come “quella modalità
d’internazionalizzazione caratterizzata da una forte integrazione tra attività
domestiche e attività internazionali”
10
, la letteratura strategica ed organizzativa ha
9
Vedi p. 2
10
Majocchi A.(1997), Economia e strategia dei processi di internazionalizzazione delle imprese,
Giuffrè Editore, Milano, p.x
8
messo in evidenza come dai primi modelli d’internazionalizzazione in cui le
attività estere erano semplicemente considerate distinte da quelle domestiche, si
sia passati progressivamente a un più stretto grado di coordinamento tra le attività
domestiche e quelle estere.
Rispetto ai risultati ottenuti dai teorici dell’internazionalizzazione gli studi
di strategia e struttura permettono quindi di compiere un passo avanti,
evidenziando non solo le ragioni alla base delle scelte di internazionalizzazione ,
ma anche i diversi approcci strategici e organizzativi che sono stati adottati.
1.2.1 Le teorie economico aziendali
Sino alla fine degli anni sessanta il fenomeno dell’internazionalizzazione e
in particolare degli IDE
11
, veniva interpretato con riferimento a concetti
macroeconomici nell’ambito della teoria neoclassica. Secondo tali interpretazioni
gli IDE traevano la loro ragion d’essere nei differenziali dei tassi di redditività del
capitale nei diversi paesi: “i movimenti di capitale tendevano quindi a riportare i
tassi di redditività del capitale all’equilibrio ed erano quindi diretti principalmente
verso i paesi del terzo mondo, dove il capitale era scarso e perciò ad alto
rendimento”
12
.
Questo approccio era vincolato agli assetti istituzionali tipici del periodo
della seconda guerra mondiale, in cui gli investimenti provenivano esclusivamente
dai paesi industrializzati ed erano prevalentemente diretti verso i paesi in via di
sviluppo (PVS), assumendo forme di tipo coloniale. Già a partire dagli anni
cinquanta il flusso di IDE si è pero concentrato da e per i paesi industrializzati. In
questo periodo strategie di internazionalizzazione erano sviluppate principalmente
da imprese americane ed è proprio negli Stati Uniti che fiorisco i primi studi non
di matrice neoclassica.
11
Vedi p.2
12
Mulinelli M. (2001), Le tendenze dell’internazionalizzazione produttiva delle imprese italiane,
Economia e politica industriale, p.2
9
Le prime interpretazioni non neoclassiche del fenomeno della
internazionalizzazione hanno preso le mosse dalle teorie oligopolistiche dei
mercati.
Il concetto di fondo delle teorie dell’impresa multinazionale che affondano
le proprie radici nella teoria dell’oligopolio è che le imprese che crescono
all’estero godono di qualche tipo di vantaggio monopolistico che consente loro di
esercitare un qualche potere di mercato e dunque di conseguire extraprofitti. Tale
vantaggio monopolistico può derivare dal possesso di risorse, tecnologie di
processo, prodotti, marchi, goodwill, ecc.; esso può risultare duraturo nel tempo o
esaurirsi dopo un certo periodo, dopo aver comunque consentito all’impresa
multinazionale il vantaggio della prima mossa.
13
Tra i diversi contributi teorici riconducibili a quest’ultimo filone, conviene
soffermarsi ad analizzare i modelli di Vernon e Hymer, che risalgono alla seconda
metà degli anni sessanta.
1.2.1.1 La teoria del ciclo di vita del prodotto
Vernon imposta la propria teoria sul noto concetto del ciclo di vita del
prodotto
14
(vedi fig. 3) , individuando un particolare e preciso meccanismo di
crescita internazionale dell’impresa innovatrice e una particolare direzione dei
flussi del commercio internazionale. L’idea di fondo è che esista una stretta
correlazione tra il ciclo di vita dl prodotto, caratteristiche dei paesi e l’espansione
internazionale delle imprese.
13
Grandinetti R. e Rullani E. (1996), Impresa transnazionale ed economia globale, Nis ,Roma
14
La teoria del ciclo di vita del prodotto (sviluppata dallo stesso Vernon) individua una sequenza
di fasi che caratterizzano il marketing di un bene e la correlata struttura competitiva del settore
industriale del bene stesso. Questo modello, le cui prime formulazioni risalgono all’inizio degli
anni ’60, prevede che ogno nuovo bene introdotto sui mercati passi da una fase di introduzione ad
una di sviluppo, caratterizzata da un incremento delle vendite, ad una di maturità fino al declino.
10
Figura 3 - Ciclo di vita del prodotto
Fonte: Sicca 1998
Vernon analizza quindi il caso delle imprese americane individuando le
motivazioni analizzando la più alta propensione all’innovazione mostrata
dall’industria statunitense rispetto a quella di altri paesi. Questa maggiore
propensione può essere spiegata secondo l’autore da fattori strutturali propri
dell’economia americana: 1. elevato livello di reddito pro capite dei consumatori;
2. alto costo del lavoro. L’elevato tasso di crescita del reddito medio dei
consumatori americani, inducendo la nascita di nuovi bisogni nei consumatori
stessi, ha costituito per l’industria statunitense un potente stimolo all’introduzione
di nuovi prodotti in grado di soddisfare la domanda che si sviluppava sul mercato
interno. Per far fronte a questa domanda emergente di prodotti ed in presenza di
un alto costo del lavoro,le imprese americane hanno selezionato forme
tecnologiche di produzione innovative che permettevano di contenere
l’incremento dei costi. Inoltre il motivo per cui tali stimoli agivano sui produttori
americani piuttosto che su imprese estere, erano riconducibili al fatto che
l’incertezza relativa al mercato e la necessità di avere rapide risposte sulle reazioni
dei clienti al nuovo prodotto rendono la vicinanza al mercato un vantaggio
competitivo per l’impresa innovatrice.