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Individuate le ragioni storiche di un intervento pubblico abbiamo
posato la nostra attenzione sull’iniziale politica e strumentazione
giuridica posta in essere dall’apparato pubblico per far fronte al
bisogno di riparare al divario esistente tra le due aree del Paese,
interventi che allora non potevano essere intesi come “politica
economica pubblica” in senso proprio, perché si trattava di singoli
interventi scollegati tra loro(la creazione dell’ILVA a Bagnoli ad
esempio), in virtù del fatto che il pensiero economico allora
dominante vietava qualsiasi ingerenza dello Stato nell’economia che
non fosse diretta a rafforzare i principi del libero mercato. Infatti, è
solo con la crisi economica del 1929 che si ha un’inversione di
tendenza che vede lo Stato protagonista dello sviluppo economico
attraverso le Partecipazioni statali nel capitale di grandi aziende (si
pensi alla creazione dell’IRI e di altri enti pubblici con il compito di
operare nel settore del credito, immobiliare, dei servizi pubblici,
delle opere pubbliche, ecc.), ma sul modello del New Deal, anche
un’organica politica di intervento pubblico diretto dello Stato sulle
strutture economiche sociali del Paese (si pensi alla politica delle
bonifiche agrarie,alla politica dell’ autarchia ecc.).
Dopo la guerra l’esigenza della ricostruzione, le nuove teorie
economiche del deficit spending, la necessità di costruire un’
economia libera ma anche equa, portarono a introdurre nella
normativa costituzionale addirittura l’obbligo per lo Stato di
intervenire con il suo apparato per << rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’
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uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’
organizzazione politica, economica e sociale del Paese >>.
Si erano poste così le basi giuridiche di un’economia programmata
che vedeva lo Stato legittimato ad intervenire nell’economia di
mercato non solo per garantirne il buon funzionamento, ma anche
per indirizzare l’attività degli operatori economici verso fini di
interesse generale o addirittura per sostituire questi nella produzione
di beni, pubblici ma anche privati, ritenuti indispensabili per
garantire il principio costituzionale di uguaglianza. Nasceva così
tutta una serie di strumentazione giuridica finalizzata a concretizzare
la politica di intervento pubblico dello Stato nell’economia di
mercato (incentivi pubblici alle imprese, partecipazione statali in
imprese private, imprese pubbliche, enti pubblici economici o
strumentali ecc.).
Il periodo successivo alla guerra vede, infatti, il nascere di tutta una
serie di iniziative pubbliche tese ad affrontare con decisione il
problema del divario economico-sociale tra il Nord e il Sud del
Paese. Viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno, ente pubblico
straordinario cui è affidato il compito di porre in essere gli interventi
infrastrutturali e (successivamente) di industrializzazione nel
meridione, compito sorretto da un’azione congiunta tra tutti gli
strumenti amministrativi posti in essere per tale finalità dallo Stato,
come il sistema degli incentivi pubblici, delle imprese pubbliche e
del capitale pubblico. Si realizza in questo periodo il più massiccio
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trasferimento di risorse economiche nel Mezzogiorno di tutti i tempi,
con un conseguente massiccio allargamento della sfera pubblica di
azione.
Lo strumento che da un senso e un fine all’insieme dei molteplici
interventi pubblici è quello della programmazione che consente allo
Stato di coordinare ed indirizzare il libero gioco delle forze di
mercato per il perseguimento di quei fini pubblici che garantissero il
concretizzarsi del principio di uguaglianza sostanziale.
E’ in questo momento che nasce uno spirito di programmazione
degli interventi da realizzare che si propagherà per alti e bassi fino
alla programmazione comunitaria del nuovo secolo.
La programmazione degli anni 50, nel cui ambito si inserisce
l’azione della Cassa e delle PP.SS., è strettamente connaturata al
modello keynesiano di sviluppo, allora dominante, incentrato sulla
grande impresa e sul ruolo centrale dello Stato. Questo è il modello
di sviluppo economico top-down, il modello della programmazione
centralizzata, cosiddetta “programmazione razionale-sinottica”,
modello che prevedeva uno schema “a cascata”: un ente centrale
individuava gli obiettivi di carattere generale (perchè si pensava che
questo ente programmatore potesse avere una conoscenza completa
(sinottica) del problema che la programmazione intendeva risolvere
e, pertanto, prendeva decisioni in base a obiettivi definiti in modo
razionale) e gli enti periferici-locali specificano gli obiettivi
programmati dall’ente centrale e li eseguono.
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Questo modello troverà il massimo del suo apice con il tentativo di
Programmazione generale messo in opera dal Piano Pieraccini del
1967.
Ma il tentativo di una programmazione statale centrale ed
autoritativa fallisce per l’avvio del Mercato unico europeo, per
l’avvio delle istituzioni regionali, ma soprattutto per il consolidarsi
delle istituzioni del libero mercato nel nostro Paese, che non danno
più spazio ad ipotesi di programmazione unilaterale ed autoritativa,
perché lo Stato non riesce più ad avere non solo le capacità
decisionali, ma neanche più la informazioni per decidere in modo
significativo.
Ed,infatti, l’attivazione dell’istituzione Regione nel 1970, a cui si
trasferiscono tutte le funzioni amministrative nelle materie ex art.
117 Cost., che prevedono ambiti di intervento (turismo, opere
pubbliche di interesse regionale, artigianato, ecc.) che si
sovrappongono a quelli affidati alla Cassa per il Mezzogiorno; le
pressioni sempre più forti degli interessi corporativi a concertare lo
sviluppo economico per orientarne secondo gli interessi produttivi
gli sviluppi, mettono in crisi il modello di sviluppo centralista.
S’iniziano a reclamare poteri e spazi di manovra più incisivi in
materia di sviluppo economico da parte dell’ente regionale e dei ceti
produttivi che entrano inevitabilmente in conflitto con quelli statali.
Inoltre, la scelta di strutture amministrative straordinarie e
centralizzate, come nel caso della Cassa, e di massicci trasferimenti
di capitali pubblici sottoforma di incentivi, o anche di imprese
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pubbliche per la produzione di beni a prezzi politici, si rivela fatale,
perché si condanna il Mezzogiorno alla sussistenza, non mettendolo
in grado di sviluppare quel senso di partecipazione di organizzazione
e di progettualità, indispensabile per qualsiasi tipo politica di
sviluppo economico.
Si tenta di porre rimedio a queste disfunzioni limitando la
programmazione agli ambiti settoriali, allargandone l’ambito di
decisione alle organizzazioni degli interessi, si tenta di coinvolgere
nella progettazione degli interventi le esigenze del territorio così
come espresse dagli enti locali.
Anche questo tentativo fallisce perché si tenta di mantenere ferma la
vecchia matrice centralistica cercando solo il consenso della società
civile,imponendole gli interventi; il tentativo di ribaltare la logica
della programmazione,che non scende più dall’alto ma si costruisce
a partire dagli enti locali, mette in tutta evidenza il drammatico stato
della pubblica amministrazione, incapace di raccogliere i bisogni del
territorio e di trasformarli in progetti di sviluppo.
Questo modello entra in crisi anche grazie alle nuove politiche
strutturali intraprese dalla Comunità europea a seguito dell’Atto
Unico Europeo del 1986 (che porterà alla riforma dei Fondi
strutturali del 1988) e del Trattato di Maastricht (che riconoscerà la
coesione economica-sociale quale terzo pilastro dell’Unione
Europea, accanto al Mercato Unico e all’Unione Monetaria).
L’esigenza di creare un mercato unico europeo concorrenziale;
l’esigenza di far fronte alla globalizzazione rilanciando la
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competitività delle imprese di piccola e media dimensione;l’esigenza
di evitare che queste politiche possano avvantaggiare le sole zone
d’Europa già sviluppate,allungando così il divario con quelle ancora
sottosviluppate,portano l’UE a porre in essere un’apposita politica di
riequilibrio territoriale tra le diverse aree europee. Da subito è, però,
forte la consapevolezza che l’efficacia dei risultati di questa politica
è legata ad una “nuova programmazione” che veda partecipare allo
sviluppo economico tutte le articolazioni istituzionali,ciascuno con
propri compiti,ma localizzando prevalentemente a livello più basso
della catena le responsabilità di elaborazione degli interventi.
Si tratta di un modello di sviluppo dal basso (cd. botton-up),
incentrato prevalentemente sulle PMI (la cui aggregazione ha
rilevanti effetti “microeconomici” sul versante dell’ aumento della
produttività e della riduzione dei costi di produzione), sulla
cooperazione pubblico-privato (attraverso una scelta degli interventi
non più unilaterali e autoritativi, ma consensuali: la cd.
programmazione negoziata), sulla concentrazione degli interventi
intorno a poche (ma, decisive) strategie di sviluppo (attraverso
strumenti innovativi come i Patti territoriali o i PIT), ma soprattutto
su una forte capacità di azione degli enti locali, che vanno messi in
condizione di poter “leggere” le esigenze di sviluppo del territorio e
di poterle concretizzare con progetti, risorse e strumenti propri.
Questa nuova strategia dello sviluppo dal basso, ha portato ad uno
sconvolgimento dell’assetto dei poteri amministrativi che sono stati
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reimpostati sulla base del principio di sussidiarietà, ma anche delle
modalità di attuazione degli interventi.
Infatti, un’efficiente politica di sviluppo locale richiede un ruolo più
attivo degli enti locali, a cui vanno necessariamente affidati le
funzioni in tema di sviluppo del territorio (soprattutto dal lato
dell’offerta di beni locali e di insediamenti produttivi), ma
soprattutto nuove modalità operative che, superati gli ormai vetusti
poteri amministrativi autorizzativi, prevedano strumenti di
programmazione per obiettivi.
In effetti il nuovo orientamento verso lo sviluppo locale, sia a livello
comunitario che nazionale, è stato probabilmente la molla scatenante
della profonda trasformazione della Pubblica Amministrazione in
Italia negli anni ’90. L’accoglimento del principio di sussidiarietà
con il conseguente scardinamento del centralismo statale da parte
delle Leggi Bassanini (che ha fatto da apripista alla successiva
riforma del Titolo V Cost.); i nuovi strumenti di amministrazione
consensuale per la semplificazione amministrativa (accordi di
programma, conferenza dei servizi, sportello unico, ecc.); la
contrattualizzazione dei rapporti istituzionali,sia in senso verticale,
tra diverse amministrazioni, che orizzontali nell’ambito della stessa
amministrazione(funzionale a raccordare le competenze,le decisioni,
le risorse distribuite ormai tra diversi livelli di governo)hanno
costituito la manifestazione più evidente di un radicale cambiamento
dell’amministrazione pubblica italiana, che in sistema ormai
policentrico, aperto alla concorrenza globale necessariamente
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richiede di affrontare le complesse problematiche della vita moderna
(come possono essere quelle dello sviluppo, ma anche quelle della
sicurezza,dell’immigrazione,della tutela ambientale, ecc.) attraverso,
non solo decisioni rapide ed efficaci,ma attraverso decisioni migliori
perché integrate con quelle di altre amministrazioni,e concertate con
i privati,cioè i soggetti beneficiari ultimi dell’azione pubblica.
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PARTE PRIMA
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CAPITOLO 1
L’INTERVENTO PUBBLICO: PRINCIPI E GENESI.
Per intervento pubblico dello Stato nell’economia deve intendersi
tutto l’apparato amministrativo (procedimenti, autorizzazioni, enti,
ecc.) posto in essere dallo Stato per regolare o agire direttamente
nell’economia di mercato.
Dall’inizio dell’ottocento si è affermata la teoria del “laissez faire”,
secondo la quale il mercato lasciato agire secondo le sue leggi (dell’
iniziativa privata, della concorrenza della massimizzazione del
profitto), sarebbe stato in grado di assicurare lo sviluppo tutta la
comunità. In questa teoria allo Stato spettava un compito
esclusivamente di garanzia del buon funzionamento delle leggi del
mercato e di intervento pubblico finalizzato alla produzione di quei
soli beni pubblici che il mercato non era in grado di produrre,ma che
comunque erano utili al suo buon funzionamento (opere pubbliche
per le imprese, ordine pubblico, giustizia, ecc.).
Per buona parte dell’ottocento e del novecento il ruolo svolto dallo
Stato, dunque, è stato limitato a quello di regolamentazione e di
rafforzamento del mercato: lo Stato interviene nelle attività
economiche solo in modo estemporaneo, per fronteggiare crisi
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congiunturali, e, comunque, per guidare lo sviluppo secondo gli
interessi della classe dominante.
1
Pertanto, in questo periodo si può parlare di un intervento pubblico
dello Stato solo in senso lato. A maggior ragione nel Mezzogiorno,
pur in presenza della situazione di arretratezza economica-sociale
più grave del Paese, per tutto il periodo post-unitario, lo Stato
italiano non ha assunto nessun tipo di politica di intervento pubblico
nel senso moderno che conosciamo,
2
per via dello scarso interesse in
tal senso della ricca borghesia settentrionale, ma si è limitato allo
costruzione di un nuovo apparato amministrativo conforme a quello
piemontese, e funzionale al mantenimento del compromesso
d’interessi tra la borghesia del Nord e la nobiltà agraria del Sud,
lasciando per il resto alle libere forze del mercato il compito di
promozione dello sviluppo.
E’ solo con le leggi speciali giolittiane del 1906, con le prime
nazionalizzazioni di interesse nazionale (ferrovie, trasporti marittimi
e postali, energia, metallurgia, ecc.) del 1907, con le prime
operazioni di salvataggio di imprese private (che portarono all’
istituzione dell’IRI) e con la politica economica autarchica fascista
che s’inizia ad delineare il prototipo di quella che sarà più tardi la
politica di intervento pubblico diretto nell’economia.
1
L.Barca,Dizionario di politica economica,Editori Riuniti,1974,pag.34.
2
Gli unici strumenti d’intervento statale nell’economia post-unitaria furono quelli tradizionali
dei sussidi; delle agevolazioni fiscali; delle commesse pubbliche di guerra; dei dazi doganali
protettivi.
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Anche se, bisognerà aspettare la metà del secolo XXI affinchè la
politica cominciasse ad occuparsi di economia come strumento per
assicurare una maggiore uguaglianza fra i cittadini, una distribuzione
dei beni equa e sufficiente per tutti. Infatti una volta acquisita la
nozione di cittadino, per attuare concretamente il principio
dell'uguaglianza fra i cittadini non è sufficiente la libertà politica, ma
occorre una opportuna dotazione di risorse materiali ed immateriali.
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1.1: L’EVOLUZIONE DELL’ INTERVENTO PUBBLICO
DAL 1861 AL 1950.
Certamente quello meridionale fu uno dei problemi che si pose
davanti al neonato Stato unitario e al suo esponente di governo, il
conte di Cavour, quando egli dovette pensare ad una unificazione
reale del Paese.
Finchè l’Italia era divisa in molti Stati,non solo politicamente ma
anche economicamente, con le diversità di leggi, con le barriere
doganali fra Stato e Stato, l’esistenza di una differenza organica fra
Nord e Sud d’Italia non poteva manifestarsi.
Ma allorché l’unificazione fu compiuta nel 1860 fu evidente che l’
arretratezza e le differenze di vita e di struttura economica erano tali
che si necessitava di una qualche forma di intervento. Due furono
sostanzialmente i propositi per il Sud: portare un’efficiente apparato
amministrativo a presidiare quelle terre;costruire un effettivo
mercato unico nazionale.
Nel primo caso il dibattito fu acceso: <<in linea di principio i
moderati, ammiratori dell’Inghilterra col suo liberalismo politico e
col suo decentramento amministrativo avrebbero voluto introdurre in
Italia il modello inglese e il decentramento, erano ostili a ogni
invadenza dello Stato nella società. Ma la condizione obiettiva di
cose li obbligò ad accantonare questi principi e ad abbracciare
risolutamente i principi di un liberalismo basato sulla preminenza
dell’accentramento dell’azione diretta dello Stato sulla società:di
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uno Stato che per vari decenni continuò ad affidarsi al personale
piemontese. L’istituzione del prefetto, del funzionario incaricato di
rappresentare il governo nelle diverse province, simboleggiò il
carattere accentato che si volle dare allo Stato>>.
3
La mancanza di
un’adeguata classe dirigente nelle regioni meridionali fece il resto:
l’istituzione delle Regioni, infatti, avrebbe dato alla vecchia classe
dirigente borbonica la possibilità di continuare a governare la vita
locale del Mezzogiorno in modo arbitrario e corrotto, perpetuando
quel sistema amministrativo illiberale che invece il nuovo Stato
liberale si prefiggeva di abbattere.
L’esistenza, dunque, di un Paese così diverso nelle sue componenti
geografiche e, per quanto riguarda il Sud, ancora da pacificare, visto
che era rimasto pressoché estraneo al movimento del Risorgimento,
fu all’origine di quella stretta accentratrice avutasi nell’ottobre 1861
e sancita dalla legge di unificazione amministrativa del marzo 1865.
Infatti il riconoscimento dell’ordinamento locale (Province,
circondari, mandamenti e Comuni) e della sua autonomia (elezione
dei consiglieri, attribuzioni alle deputazioni provinciale di poteri
prima spettanti al Governatore) è stato effettuato dalla legge
comunale e provinciale del 20.3.1865 n.2248 Allegato A, che a sua
3
A opinione di un grande meridionalista come G.Salvemini <<lo Stato liberale fu, di seguito,
almeno nel Mezzogiorno, assai poco liberale, quanto alla sua effettività come “Stato di diritto”,
nell’imparzialità della pubblica amministrazione e nell’applicazione giudiziaria delle leggi […].
Servì piuttosto da garanzia e difesa di un vasto insieme di situazioni parassitarie e di privilegio,
e precisamente su questa base si ebbe l’adesione al nuovo Stato di buona parte della classe
dirigente meridionale. Sicchè lo Stato italiano aveva finito per fare da sostegno alle forze
peggiori del latifondismo e dello sfruttamento>> in Scritti sulla questione meridione 1866-1955,
Feltrinelli, 1955, pag. 68.