quando Y assume un valore inferiore, o viceversa; sarà nulla quando X e Y sono
indipendenti
1
.
Il coefficiente di correlazione si ottiene invece dividendo la covarianza fra due
variabili casuali per il prodotto delle deviazioni standard di ciascuna variabile
casuale.
Esso è così definito:
ρ
xy
= Cov (X, Y)/σ
x
σ
y
Il coefficiente di correlazione è una variabile con le stesse proprietà della covarianza
con la particolarità che può assumere solo valori compresi fra -1 e 1. Esso sarà pari a
+1 quando le due variabili sono perfettamente correlate positivamente, assumerà
valore –1 quando sono perfettamente correlate negativamente e sarà pari a 0 quando
non esiste correlazione. E’ ovvio che il coefficiente di correlazione è nullo, positivo,
negativo, a seconda che le due variabili X e Y siano rispettivamente non correlate,
correlate positivamente o correlate negativamente.
La correlazione dovrebbe essere calcolata sulla variabile casuale rendimento.
Tuttavia, per i prestiti, per le ragioni considerate nel precedente capitolo, le variabili
casuali oggetto di studio per la stima delle suddette correlazioni sono le perdite dei
prestiti in portafoglio, che rappresentano senz’altro un’ottima proxy delle correlazioni
fra i rendimenti. Il rischio del portafoglio è dunque dato dalla volatilità complessiva
delle perdite dei prestiti in portafoglio.
Nell’ambito di un percorso che a partire dal rischio dei singoli prestiti porta alla
definizione del rischio di portafoglio, la stima delle correlazioni rappresenta
indubbiamente la fase metodologicamente più complessa e ancora tecnicamente più
imprecisa.
Metodologicamente più complessa perché una corretta misurazione del rischio di un
portafoglio necessita di identificare i fattori, di natura sistematica, dai quali
1
Per approfondimenti sulla covarianza si veda O. VITALI, 1993, p. 154.
dipendono le variazioni congiunte dei tassi di perdita dei singoli impieghi in
portafoglio.
A differenza di quanto avviene nell’ambito dei rischi di mercato, dove i fattori di
rischio sono facilmente identificabili nelle variazioni degli stessi fattori di mercato
(tassi d’interesse, tassi di cambio, prezzi azionari, ecc.) e le singole posizioni di
rischio possono dunque essere scomposte e ricondotte, mediante una procedura di
mapping a tali fattori, nel caso del rischio di credito i diversi modelli adottano
generalmente approcci differenti alla definizione dei fattori di rischio. Così, ad
esempio alcuni identificano nell’appartenenza degli affidati ai medesimi settori
produttivi o alle stesse aree (paese) geografiche i fattori di rischio sistematico di un
portafoglio, altri si spingono oltre identificando tali fattori nella comune sensibilità
delle esposizioni alle variazioni d’alcuni fattori macroeconomici, altri ancora non
esplicitano in alcun modo i fattori comuni di rischio e si limitano a rilevare la
variabilità del tasso di perdita del portafoglio.
Tecnicamente più imprecisa perché, a differenza di quanto avviene per i rischi di
mercato, dove si hanno a disposizione dati pubblici ad elevata frequenza e relativi a
prolungati periodi campionari storici con i quali stimare la distribuzione di probabilità
congiunta delle variazioni dei fattori di mercato e dunque le correlazioni fra queste
ultime, nel caso di rischio di credito i dati sono spesso carenti, a bassa frequenza e
relativi a periodi campionari storici limitati.
Il presente capitolo si sofferma sull’analisi dei diversi approcci che, alla luce delle
precedenti considerazioni, la misurazione del rischio di portafoglio può seguire
facendo riferimento in particolare ai prestiti bancari anche se gli approcci in esame
possono trovare teoricamente applicazione ad altre tipologie d’esposizioni creditizie.
Una volta chiarita la rilevanza connessa all’identificazione dei fattori di rischio
sistematico di un portafoglio impieghi, l’analisi si sofferma sulle caratteristiche
tecniche, i vantaggi e gli svantaggi connessi ai principali criteri per il mapping dei
singoli impieghi e per la successiva misurazione del rischio del portafoglio.
3.2 Gli approcci classici per la misurazione del rischio di un portafoglio.
Una prima modalità per stimare il rischio di un portafoglio composto da N impieghi
creditizi è quella che si basa sulla stima delle correlazioni fra le perdite inattese dei
singoli impieghi in portafoglio. Analiticamente:
σ
p
=
∑∑
==
n
i
n
j11
ji,ji ρσσ
dove σ
i
rappresenta la volatilità del tasso di perdita connesso all’impiego i e ρ
ij
rappresenta il coefficiente di correlazione fra le variazioni inattese del tasso di perdita
degli impieghi i e j. Per quanto corretto dal punto di vista teorico, questo metodo mal
si presta alla concreta determinazione del contributo che il singolo impiego arreca, in
termini di rischio, al portafoglio complessivo di una banca. Sarebbe, infatti,
necessario costruire una matrice di dimensioni N*N, dove N indica il numero
d’impieghi in portafoglio, al cui interno siano periodicamente calcolati gli N*(N-1)/2
coefficienti di correlazione fra i diversi impieghi in portafoglio. E’ dunque necessario
ricorrere ad una soluzione alternativa che consenta da un lato di non trascurare i
benefici connessi alla costruzione di un portafoglio sufficientemente diversificato per
settori produttivi e aree geografiche delle imprese affidate, dall’altro di tradurre
operativamente tali benefici in un sistema d’incentivi in grado di superare gli ostacoli
connessi alla pura formulazione teorica.
Una possibile soluzione alternativa, analoga a quella che, nell’ambito di un
portafoglio mobiliare, prevede il passaggio da un modello alla Markowitz ad un
modello a indice singolo, è quella che prevede di stimare la correlazione fra le perdite
del singolo impiego non nei confronti di quelle degli altri (N-1) impieghi in
portafoglio ma nei confronti di quelle del portafoglio. Analiticamente:
σ
p
=
∑
=
n
i 1
pi,iρσ
dove σ
i
rappresenta la volatilità del tasso di perdita connesso all’impiego i, e ρ
i,p
rappresenta la correlazione fra le variazioni inattese delle perdite relative all’impiego
i e quelle del portafoglio complessivo della banca.
Questa seconda soluzione, seppure capace di superare la complessità connessa alla
numerosità dei coefficienti di correlazione da stimare della precedente soluzione,
soffre anch’essa di due principali problemi.
Il primo problema è connesso al fatto che la stima del tasso di perdita e delle relative
variazioni, essendo l’evento perdita derivante dall’insolvenza un evento raro e
peraltro unico se il riferimento è a un singolo soggetto, non può essere compiuta al
livello del singolo affidamento ma necessita di ricorrere, come detto nel primo
paragrafo, a una qualche forma di raggruppamento degli affidati. Il tipo di
raggruppamento più sovente utilizzato è quello che si basa su una classificazione in
classi di merito creditizio. Questo tipo di raggruppamento è particolarmente efficace
quando l’obiettivo è di stimare il tasso di insolvenza di un singolo affidato o il rischio
di un singolo impiego, risulta tuttavia poco utile quando l’obiettivo è di stimare le
correlazioni fra le variazioni dei tassi di insolvenza degli affidati in portafoglio.
Mentre infatti la variabilità del tasso di perdita di un impiego, e dunque il rischio di
quest’ultimo, è direttamente proporzionale al grado di merito creditizio dell’affidato,
il suo contributo al rischio del portafoglio, ossia il suo rischio marginale, non dipende
tanto dal fatto che il singolo impiego appartenga ad una determinata classe di merito
creditizio, quanto piuttosto dal fatto che l’impiego sia concesso a un’impresa
operante in un certo settore produttivo o in una certa area geografica. E’ infatti da
quest’appartenenza che deriva una diversa sensibilità dell’impresa alle variazioni dei
fattori di natura sistematica che incidono sul rischio del portafoglio. Ne segue che la
classificazione in classi di merito creditizio andrebbe affiancata da una
classificazione per settori produttivi e per aree geografiche.
Un secondo problema è rappresentato dal fatto che, nell’analizzare il rischio del
portafoglio, e in particolare nello stimare le correlazioni fra le variazioni inattese dei
tassi di perdita degli impieghi in portafoglio i due metodi non si sforzano di
esplicitare i fattori causali che stanno alla base delle correlazioni stesse. In altri
termini, il fatto che due impieghi siano caratterizzati da una certa correlazione dei
rispettivi tassi di perdita inattesi dipende dalla comune dipendenza di questi ultimi da
fattori di rischio sistematico che non sono in questo caso in nessun modo esplicitati.
Le conseguenze della mancata esplicitazione dei fattori di rischio sistematico sono
due. Anzitutto, in mancanza di una corretta comprensione dei fattori causali che
determinano la correlazione e il conseguente rischio di concentrazione di un
portafoglio, risulta anche difficile, se non impossibile, andare al di là di una semplice
rilevazione del rischio del portafoglio e in particolare modificare opportunamente la
composizione dello stesso in modo da ridurne il grado di rischio. In secondo luogo, se
l’esistenza di determinate correlazioni viene semplicemente rilevata senza essere
spiegata, si rischia di ottenere delle stime di tali coefficienti che risultano
temporalmente instabili.
Il superamento dei problemi menzionati richiede dunque da un lato che le esposizioni
del portafoglio impieghi della banca vengano “ricondotte”, mediante un’appropriata
procedura di mapping, ai relativi fattori di rischio di natura sistematica, in modo da
poter successivamente rilevare il rischio del portafoglio sulla base delle correlazioni
fra tali fattori di rischio, dall’altro che la stima delle correlazioni non si limiti alle
variazioni dei tassi di insolvenza, e dunque dei tassi di perdita, ma consideri anche le
correlazioni fra le variazioni dei tassi di recupero e le variazioni dei tassi di
migrazione.