• La partecipazione dei dipendenti al capitale dell’impresa ha avuto le sue prime forme
di attuazione in alcuni paesi europei e negli Stati Uniti già intorno alla metà
dell’Ottocento, presentando poi un certo sviluppo nel periodo successivo alla 1° guerra
mondiale e quindi un rinnovato fervore nel secondo dopoguerra.
La finalità nelle prime realizzazioni fu quella di legare il dipendente all’impresa per
favorirne la permanenza. Ciò è provato dalla maggior frequenza con cui l’istituto si
sviluppò nelle imprese occupanti lavoratori molto specializzati (vedi la Zeiss, in
Germania) ovvero addetti a lavorazione particolarmente gravose (Bat’a in
Cecoslovacchia).
Tuttavia, nello sfondo vi era già, per emergere ai primi del Novecento, il problema
della redistribuzione della ricchezza prodotta, come aveva già intuito Adam Smith.
• Il turn-point è da individuare nella separazione tra proprietà e controllo dell’impresa,
che trova applicazione a partire dagli anni ’20 del Novecento nell’organizzazione delle
imprese anglosassoni e in particolar modo negli Stati Uniti.
Nascono in quegli anni le “public companies”, società a larga base azionaria
controllate dal punto di vista gestionale dai manager, i quali non ne sono proprietari e
svolgono i propri compiti di gestione in adempimento di un servizio e non nell’esercizio
di un diritto.
Il fenomeno si estende rapidamente e spazza via i contenuti prevalentemente sociali
dell’azionariato operaio, secondo i quali i lavoratori dovevano beneficiare dei
sovraredditi che avevano contribuito a produrre, nonché partecipare al governo
dell’impresa.
Berle e Means
1
nel 1932 dimostrano che la separazione tra proprietà e controllo è
una realtà dell’economia americana e si sforzano di analizzare i motivi che spingono i
manager ad operare: appare per la prima volta il problema dell’incentivazione.
• A cavallo degli anni ’60, ultimata la ricostruzione dopo gli eventi bellici, l’obiettivo
primario nelle imprese diventa l’aumento della produttività.
Specie nel Regno Unito (vedi lo “Scanlon Plan”) si adottano piani di profit-sharing,
concordati tra Direzione e Sindacati, che prevedono la ripartizione dei benefici derivanti
dagli incrementi di produttività tra impresa e lavoratori, con distribuzione a questi ultimi
di azioni, oltre che di erogazioni in denaro.
L’esperienza si conclude dopo qualche anno perché l’individuazione dei benefici si
rivela complessa, i joint committes creati allo scopo tendono a compromettere
l’unitarietà di governo dell’impresa ed infine i lavoratori non risultano più di tanto
attratti dal possesso di azioni (che infatti vengono di solito immediatamente vendute).
• Con il fallimento dei piani per la ripartizione dei benefici cade definitivamente la
“ratio” sociale dell’azionariato dei lavoratori.
Altre soluzioni vengono date al problema della partecipazione dei lavoratori (per
meglio dire, delle loro rappresentanze) alla gestione ed al controllo dell’impresa: a
cominciare dalla contrattazione sindacale, all’introduzione di nuove incisive norme
1
Berle e Means; “The Modern Corporation and Private Property”. Traduz. Ital. “Società per azioni e
proprietà privata”. Torino, 1966, Einaudi ed.
nella legislazione del lavoro, per finire alla possibilità in alcuni Paesi
2
data ai lavoratori
di nominare propri rappresentanti in organi collegiali di indirizzo e controllo.
Le recenti offerte di azioni ai dipendenti, vedi il caso delle privatizzazioni in Francia
alla fine degli anni ’80, di quelle in Italia nel decennio 1981-1991
3
, fino alle ultime
privatizzazioni, invero parziali, dell’ENI e dell’ENEL alla fine degli anni ’90, hanno
infatti una “ratio” economica completamente diversa da quella sociale del passato.
La finalità di queste offerte sembrano piuttosto quelle di accrescere il senso di
appartenenza all’impresa da parte dei dipendenti e quella di ottenere mezzi finanziari
attraverso un canale particolare
4
.
• Tornando all’incentivazione dei manager, negli anni ’70 la leva remunerativa per
manifestare l’apprezzamento di prestazioni conformi o superiori all’attesa, cessa
dall’essere costituita esclusivamente dagli aumenti di merito e dalle “gratifiche una
tantum” di carattere discrezionale, venendo sempre più agganciata al raggiungimento
di specifici obiettivi, a livello individuale o di gruppo. Ciò al fine di
2
In Germania, nelle società con oltre 2000 dipendenti la metà dei mebri del Consiglio di Sorveglianza è
nominato dai lavoratori
3
Nel periodo sono state effettuate 55 offerte pubbliche di azioni ai dipendenti
4
Cfr. Gualtieri, “Dirigenti e capitale d’impresa.I piani di Stock Option”, Il Mulino, 1993
Il rafforzamento del senso di appartenenza è stato alla base anche della Cassa di Previdenza, istituita dalla
società Pirelli, costituita da un fondo alimentato da un contributo paritetico della società e dei dipendenti, pari
all’1.30% della retribuzione. Una parte del fondo poteva essere convertito dai dipendenti in azioni.
• focalizzare l’attenzione sui risultati-chiave che l’organizzazione vuole
perseguire
• discriminare le ricompense economiche secondo il contributo individuale/di
gruppo al raggiungimento dei risultati, oggettivamente misurabili (M.B.O.)
• flessibilizzare il costo del lavoro, collegandolo maggiormente alle prestazioni
individuali ed aumentando il peso della retribuzione variabile.
• La pratica degli incentivi annuali, legati al raggiungimento di particolari obiettivi, si è
rapidamente diffusa nel mondo occidentale, diventando anche in Italia negli anni ‘90
una realtà estesa alla quasi totalità delle imprese quotate in Borsa.
In questo processo, la focalizzazione è risultata sul management ai vari livelli, con la
scelta di obiettivi specifici (quote di mercato, produttività, scorte, circolante, ecc.) per il
middle management e di obiettivi di risultato (PBT, ROI, Cash Flow) per l’Alta
Direzione.
• Sempre nello stesso periodo, negli Stati Uniti e successivamente, all’inizio degli anni
’80, nel Regno Unito e, successivamente ancora, negli anni ’90 in Italia, si prende
tuttavia atto che i sistemi degli incentivi annuali non sono coerenti con l’esigenza per
l’impresa di bilanciare la visione di breve con quella di lungo periodo e non motivano a
sufficienza le risorse chiave a rimanere in azienda.
Ma soprattutto si afferma il concetto che la finalità principale della gestione
dell’impresa deve essere la creazione di valore.
Di qui l’opportunità di introdurre, ad integrazione degli incentivi annuali o, per i
livelli più alti, talvolta in sostituzione di essi, sistemi di riconoscimento della
performance su un arco pluriennale, correlati all’aumento di valore dell’impresa per gli
azionisti e tali da consentire di incidere sul consolidamento dei risultati, rafforzando al
tempo stesso la “ fidelity”.
Lo strumento adottato più diffuso, dapprima negli Stati Uniti e quindi negli altri
Paesi, è costituito dai Piani di Stock Option, oggetto della presente tesi di laurea.
CAPITOLO PRIMO
I PIANI DI STOCK OPTION – GENERALITA’
1.1. Definizioni
Cominciamo col descrivere sinteticamente termini e contenuti dei Piani di Stock Option
che saranno poi oggetto di analisi, riferendoci alla struttura-tipo, in particolare nelle
applicazioni nei paesi anglosassoni.
I piani si basano su opzioni call, offerte in numero definito al dirigente, ad un prezzo
(Exercise/Strike Price) generalmente inferiore a quello di mercato (Stock Price), che
attribuiscono al beneficiario la facoltà di sottoscrivere o acquistare le azioni corrispondenti
trascorso un certo tempo (Vesting Period) e lungo un periodo determinato (Maturity).
L’impresa rende disponibili le azioni da distribuire attraverso nuove emissioni (il
dirigente le sottoscrive). Meno frequentemente procede al loro acquisto sul mercato
attraverso operazioni di “buyback” (il dirigente le acquista).
L’esercizio del diritto di opzione non può di norma avvenire prima di 2/3 anni
dall’attribuzione. In questo periodo le opzioni rimangono personali e intrasferibili.
Successivamente alla “Vesting Date” e per un arco di tempo normalmente pari a 6/7
anni, il dirigente può esercitare liberamente il suo diritto di opzione, divenendo in possesso
delle azioni, previa corresponsione all’impresa dell’importo pattuito al momento
dell’attribuzione delle opzioni.
A questo punto è facoltà del dirigente vendere le azioni sul mercato allo Stock Price del
momento o tenerle in deposito presso l’impresa in attesa di quotazioni migliori del titolo.
Nell’operazione di vendita il dirigente realizza un capital gain, sul quale è di regola
soggetto ad una imposizione fiscale inferiore a quella prevista sul reddito.
Va subito rilevato che l’espressione “Stock Option” non esaurisce il campo di
realizzazione della partecipazione azionaria dei dipendenti, anche in termini di
riconoscimento di performances individuali.
Sempre utilizzando la terminologia USA, paese dove si sono maggiormente sviluppati, i
piani di azionariato ai dipendenti possono infatti essere distinti in tre principali categorie:
• Stock Purchase Plans,
piani che garantiscono al beneficiario la facoltà di acquistare azioni della società ad
un prezzo fisso, normalmente di favore, con eventuale trattenuta sulla retribuzione.
• Stock Grant Plans,
piani con i quali vengono attribuite al beneficiario azioni della società a titolo
gratuito. In tale categoria sono compresi quei piani con i quali la società riconosce al
dipendente un determinato numero di azioni a fronte di una determinata
performance.
• Stock Options Plans,
piani che, come già detto, attribuiscono al beneficiario il diritto di acquistare o
sottoscrivere un certo ammontare di azioni della società ad un prezzo prefissato,
trascorsa una certa data ed entro un certo periodo di tempo. In capo al beneficiario
non sorge alcun obbligo, ma unicamente il diritto di esercitare o meno l’opzione,
divenendo con l’esercizio titolare di azioni. L’esercizio è subordinato al
mantenimento del rapporto di lavoro con l’impresa.
1
Emerge quindi una sostanziale differenza tra piani che garantiscono una attribuzione
immediata di azioni (onerosa nel caso di Stock Purchase; gratuita, nel caso di Stock Grant)
e piani che garantiscono l’attribuzione di meri diritti di opzione per l’acquisto o la
sottoscrizione di azioni, da esercitarsi successivamente alla attribuzione del diritto stesso
(i.e. i piani di Stock Option).
Tale differenza assume particolare significato in relazione, non solo alle finalità del
piano, ma anche all’individuazione dello strumento tecnico-giuridico da utilizzare per la
realizzazione del piano ed ai risvolti fiscali connessi.
1
Nella pratica USA, accanto ai piani azionari, esistono anche piani di incentivazione che non prevedono
l’attribuzione di opzioni o di azioni. Ci riferiamo ai c.d. “Phantom Stock Plans”, in base ai quali il dipendente
riceve un premio commisurato all’andamento del titolo.
1.2. Finalità
• Come già detto, i piani di Stock Option costituiscono lo strumento sempre più
utilizzato per realizzare l’incentivazione a lungo termine (L.T.I.), a sua volta
fondamentalmente intesa a perseguire la creazione di valore per gli azionisti.
L’incentivazione a lungo termine è una pratica relativamente recente in Italia, ma
non così negli USA. Una ricerca di Coopers & Lybrand
2
, indica che, se nel 1982 gli
importi corrisposti nell’ambito di piani di “Long-term incentive executive
compensation” rappresentavano il 20% del monte retributivo delle imprese americane,
l’incidenza era già salita al 31% nel 1992.
Nella grande maggioranza dei casi, l’incentivazione a lungo termine si aggiunge alla
pratica dei bonus e degli incentivi annuali, che viene mantenuta, sia pure spesso
diminuita di importanza.
Ne risulta il progressivo aumento della parte variabile della retribuzione (bonus,
incentivi B.T., incentivi L.T.) rispetto a quella fissa, garantita.
Il fenomeno, come da attendersi, si fa sempre più apprezzabile man mano che si sale
verso le posizioni più alte della gerarchia aziendale.
2
Cfr. Coopers & Lybrand, “Stock Options. Accounting, Valuation and Management Issues”, New York
(1993)
Si vedano al riguardo le Tab 1 e 2 che riportano, per l’anno 2000 in confronto con
l’anno 1996, l’incidenza in alcuni Paesi della parte variabile (Bonus, Incentivi B.T.,
Incentivi L.T.) sulla retribuzione fissa, rispettivamente dei C.E.O. e degli altri dirigenti
3
.
Secondo stime del Gruppo HAY (multinazionale della consulenza sulle risorse
umane), negli Stati Uniti oggi la “busta paga” dei C.E.O., intesa come retribuzione fissa,
costituisce mediamente appena il 20% degli emolumenti complessivi percepiti. Un altro
20% è rappresentato dagli incentivi a breve termine, mentre il restante 60% è fatto di
Stock Options.
4
3
Fonte: Towers Perrin “2000 Worldwide Total Remuneration”.
I dati, riferibili all’aprile 2000, costituiscono stime di Towers Perrin, analizzando le imprese industriali
con più di 500 milioni di dollari di fatturato.
4
Vedi “Il sole 24 Ore” del 26/02/2001.