II
contadina ricostruendo le ambientazioni e i paesaggi fedelmente, e il museo-discorso
sul vero, rappresentazione sintetica del reale attraverso gli oggetti del mondo
contadino, posti in dialogo con pannelli, fotografie, fonti etnografiche e altri elementi
comunicativi, all’interno di un percorso allestitivo incentrato soprattutto sul lavoro
contadino.
In quegli stessi anni partivano le esperienze di museografia spontanea in
diverse zone dell’Italia: i ceti contadini si erano da poco affrancati dal contratto di
conduzione mezzadrile dei poderi e da più parti si sentiva l’esigenza di salvare il
salvabile e documentare il documentabile.
La urgent anthropology degli studiosi del folklore e la nostalgia dei
protagonisti dei tempi andati ebbero come esito parallele ricerche a tappeto,
produzione di documenti e raccolta di oggetti del mondo contadino che in alcuni casi
confluirono in allestimenti museali.
Il Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio, in provincia di
Bologna, è considerato paradigmatico del connubio tra museografia diffusa, enti
locali e consulenze universitarie, connubio che proprio negli anni settanta visse il suo
momento più felice ed entusiastico.
A due anni di distanza dalla sua inaugurazione il museo ospitò il convegno
nazionale di Museografia Agricola sul lavoro contadino, al quale convennero storici,
geografi, antropologi, linguisti, storici dell’arte, per discutere sia della novità di un
allestimento museale frutto della collaborazione tra museografia spontanea e
museografia scientifica, sia del destino generale degli studi demologici, della ricerca
e dei musei. Fu in quella occasione che ancora una volta Cirese espose la necessità di
considerare gli oggetti presenti nei musei demologici come documenti di sé stessi e
dunque il museo come un luogo di esposizione e produzione di documenti che
riguardano il lavoro contadino: un luogo all’interno del quale non si parli il
linguaggio della vita ma il linguaggio dei documenti, un metalinguaggio che non sia
rappresentazione della vita, ma riflessione su di essa.
L’attuale allestimento del museo di San Marino di Bentivoglio incarna la
museografia ciresiana: occorre verificare che peso questa ha realmente avuto sulla
prima versione dell’allestimento, se sono avvenute negli anni delle sostanziali
modifiche, quali sono state le premesse del museo, che influenza hanno avuto i
III
raccoglitori e gli informatori del Gruppo della Stadura ( il gruppo di ex contadini di
Castel Maggiore che avviò la raccolta di oggetti alla fine degli anni sessanta)
sull’esposizione e sulla denominazione del museo, quale è stato il ruolo degli storici
dell’agricoltura e dei demologi che vi hanno lavorato.
Allievo diretto di Cirese, il fautore in Italia della museografia razionalista e del
metalinguaggio nel museo, P. Clemente inizialmente seguì le orme del suo maestro
per poi gradualmente distaccarsene, operando quello che lui stesso definisce un
tradimento. Gli esiti del pensiero museografico di Clemente sono rintracciabili in
numerosi suoi scritti e in alcuni allestimenti museali, realizzati in collaborazione con
altri studiosi. Occorre premettere che per lunghi anni chi ha parlato e scritto di musei
difficilmente o quasi mai li ha realizzati ed è per questo che è difficile o impossibile
schematizzare e far corrispondere la teoria con la pratica: si può solo procedere a far
calzare questa o quella teoria a questo o quel museo e verificare quanto il museo
incarni la filosofia che c’è alle spalle, se c’è.
Non è certo questo il caso dell’opera intellettuale di Clemente, il cui percorso
di fedeltà-tradimento è ricostruibile a partire da due esperienze museali: la settima
mostra sulla condizione mezzadrile Il mestiere del contadino (bella e ciresiana, per
utilizzare una sua espressione), realizzata per il Comune di Buonconvento, in
provincia di Siena, e il Museo del Bosco di Orgia (Si).
Nelle intenzioni del coordinatore museografico, G. Molteni, e nelle
teorizzazioni del consulente scientifico, P. Clemente, il Museo del Bosco di Orgia,
inaugurato nel 1993, doveva rappresentare la fase ultima di un iter dal museo-luogo
di contenimento al museo-luogo di comunicazione, specificando però che il tipo di
linguaggio auspicabile per un museo demologico non è quello della divulgazione
scientifica , ma è un linguaggio in cui si contempla anche la dissonanza di codici: la
comunicazione museale è contaminata dagli apporti delle arti, della poetica e
dell’estetica dell’allestimento, dal linguaggio non scientifico dei protagonisti della
cultura che si sta descrivendo, dalle suggestioni evocative. Il percorso del museo
deve essere programmato, non necessariamente diretto a finalità scientifico-
divulgative, ma inserito in un’offerta culturale, rivolta al pubblico e inserita nel
territorio: questo percorso Clemente lo nomina scenografia unitaria e lo considera
fondamentale per la costituzione e per la lettura di un museo.
IV
Effettivamente nel Museo del Bosco le opere degli artisti locali dialogano con
i pannelli esplicativi in cui sono utilizzate le testimonianze degli informatori, con le
mappe e le foto che documentano la trasformazione del bosco e dell’economia
mezzadrile legata al bosco, con gli audiovisivi sul bosco, con percorsi guidati nel
bosco e con pochissimi oggetti di cui sono segnalati il nome, l’uso e la funzione. La
scarsità degli oggetti è pienamente coerente con la comunicazione museale teorizzata
da Clemente, tuttavia è da verificare se l’allestimento di Orgia non nasce piuttosto da
necessità logistiche e se realmente la teoria e la pratica, ancora una volta, sono in
rapporto cronologico o se la teoria non è nata per giustificare una pratica. Il museo di
Orgia è veramente rappresentativo e paradigmatico di un pensiero museografico?
Il Museo della Mezzadria Senese, inaugurato a Buonconvento nel settembre
del 2002, è uno dei ventinove musei inseriti nel Sistema Museale Senese ed è
attualmente il più avanzato museo demologico in fatto di nuove tecnologie della
comunicazione.
Nasce alla fine di un decennio molto fecondo su tre piani: il piano del dibattito
scientifico sull’antropologia museale, il piano delle normative sui beni culturali e il
piano dell’evoluzione delle tecnologie della comunicazione. Nel primo ambito si è
giunti ad una determinazione del museo quale luogo di riflessione antropologica sul
comportamento dell’ “uomo-che-fa-musei”; nel secondo ambito la giurisprudenza
nazionale e quella locale hanno da una parte riconosciuto il patrimonio
demoetnoantropologico come patrimonio distinto da quello storico e artistico,
dall’altro hanno conferito al museo una autonomia gestionale che ha reso possibile la
sperimentazione di forme di gestione associata, come i sistemi e le reti museali; nel
terzo ambito la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione nella didattica,
nella cultura, nell’arte, ha agevolato l’ingresso della multimedialità nelle modalità
comunicative dei musei, inaugurando una nuova stagione della comunicazione
museale.
Un’analisi dell’allestimento multimediale del Museo della Mezzadria Senese di
Buonconvento apre una duplice riflessione sulla comunicazione del museo: che cosa
vuol dire multimedialità, cioè quali sono i molteplici media adoperati
nell’allestimento, da un lato, e che ricadute ha la multimedialità sull’allestimento
oggettuale.
V
Da questa riflessione si giunge ad una valutazione delle potenzialità della
multimedialità nel museo, espresse dal Progetto di Allestimento Multimediale curato
da Rai Educational per la Provincia di Siena, e della effettiva applicazione
nell’allestimento di Buonconvento: anche qui l’andamento della riflessione oscilla tra
i contributi teorici e la pratica museale, mirando, in ultima analisi, ad una
collocazione scientifica dei musei presi in esame e ad un tentativo di bilancio del
percorso compiuto dalla museografia demologica, dal metalinguaggio alla
multimedialità.
1
CAP. 1 IL MUSEO RAZIONALE: DAL PRIMO DOPOGUERRA
AGLI ANNI SETTANTA
1.1 IL “NUOVO CORSO” DELLA MUSEOGRAFIA DEMOLOGICA
Gli studi demologici in Italia hanno sicuramente risentito, oltre che del clima
ideologico in cui di volta in volta le riflessioni sul folklore si collocavano, degli
eventi socio-politici e culturali che caratterizzavano il paese nei vari momenti
storici.
1
Nell’aprire una riflessione sugli orientamenti della museografia demologica
in Italia nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, a
partire dal seminario interdisciplinare sul tema Museografia e folklore, svoltosi a
Palermo nel novembre del 1967 e considerato inauguratore di un nuovo corso
museografico, è necessario inquadrare le vicende del dibattito sul folklore nel quadro
generale degli avvenimenti storici. Inoltre occorre tenere presente che gli intellettuali
del dopoguerra ereditarono come background culturale anche il clima ideologico che
si era instaurato durante il ventennio fascista e la guerra mondiale, e sicuramente
risentirono di un silenzio o, se vogliamo, di un monologo, al quale si era assistito in
quegli anni in cui, da un lato il regime, dall’altro il crocianesimo, avevano dato
un’impronta determinante al corso del dibattito, degli studi demologici e del
linguaggio museografico.
1.1.1 Fascismo, folklore, museografia.
La dittatura fascista si era insediata in una nazione a prevalente economia
agricola, a fronte dell’ostacolo fisiologico ai progetti futuristi e progressisti del
fascismo, determinato dalle masse contadine, cercando e trovando dietro il ripristino
di antichi privilegi feudali il consenso da parte dell’aristocrazia fondiaria, cosa che
inevitabilmente non creava un clima di fiducia da parte delle masse. Tra gli anni
venti e gli anni trenta le tradizioni popolari e il folklore furono spudoratamente
utilizzati dalla retorica fascista allo scopo di ammiccare al mondo rurale in un
1
A. M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1980, p. 123.
2
momento di crisi dell’agricoltura, di richiesta di tutela delle rendite da parte dei
possidenti terrieri, di sfilacciamento dei rapporti con le masse contadine, in aperta
contraddizione con ciò che animava l’auspicato progresso civile e che era stato alla
base della propaganda fascista. Nel 1925 il fascismo, con l’intento di confermare
l’immagine di stato efficiente e attento ai disagi della popolazione, specie di quella
rurale, fondò una associazione che svolgeva sia attività assistenzialistiche contro il
fenomeno dilagante della disoccupazione, sia attività ricreative e di organizzazione
del tempo libero: l’Opera nazionale dopolavoro.
2
All’interno di un programma di controllo totale e di coordinamento delle
attività del tempo libero, sia maschili che femminili, il direttore dell’Ond, Enrico
Beretta, nel 1929, nel pieno di una crisi economica e occupazionale che travolgeva
soprattutto il lavoro nelle campagne, lanciò un progetto di ritorno alle tradizioni.
Nel primo numero dell’organo ufficiale dell’Ond si legge: «L’Ond ha incluso il
folklore nel suo programma educativo, ben sapendo che da esso si possono trarre
dei grandissimi benefici per l’educazione delle masse».
3
L’obiettivo dell’Ond era
chiaro: costruire ad arte l’identità delle masse rurali, appoggiandosi alle tradizioni
locali che avevano nel passato rappresentato le differenze tra gruppi appartenenti ad
aree geografiche e culturali distanti, rivalutando e sottolineando quella che era
ritenuta la vera indole del popolo delle campagne, con tutte le caratteristiche di
ordine, dedizione al lavoro, disciplina, desiderio di sano svago, che, avvicinando il
contadino al borghese, costituivano nei suoi aspetti più peculiari l’orgoglio di
appartenere alla razza italiana. E proprio sul sano svago, non più aspetto ad
appannaggio della sola classe cittadina, l’Ond fondò il suo programma di attività
ricreative ed educative incentrate sul folklore. Attuando un processo di riesumazione
delle tradizioni contadine, da qualche anno estinte grazie ai sempre più frequenti
contatti tra città e campagna,
4
in particolar modo recuperando gli aspetti del folklore
rurale che riguardavano il tempo libero e le feste, l’Ond affidò ai consigli provinciali
il compito di organizzare attività di vario tipo, in collaborazione con gli appassionati
e gli studiosi di folklore locali e sotto il patrocinio e la direzione scientifica del
Comitato nazionale italiano per le tradizioni popolari (CNITP), fondato a Firenze nel
2
M. Tozzi Fontana, I musei della cultura materiale, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1984, p. 29.
3
«Bollettino mensile dell’Ond», novembre-dicembre 1927, n. 1, p. 5.
4
V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1981, p. 236.
3
1930, che si esprimeva attraverso la rivista «Lares», diretta da Paolo Toschi. Le
attività erano di vario tipo: dal ripristino delle più importanti feste tradizionali, ma
anche di balli, canti, gare, cerimonie rurali, alla diffusione della conoscenza di alcuni
aspetti della cultura contadina, con aperture di mostre di arte e costumi contadini,
bandi di concorsi di saggistica a tematica folklorica, produzione di filmati sulle
feste popolari, incisioni di musica popolare. Una delle finalità del ritorno alle
tradizioni era poi quella di creare occupazione, attingendo dalla manodopera
disoccupata e commissionando lavoro a domicilio legato all’artigianato popolare.
In questo clima di rinnovato interesse per le tradizioni popolari, non fu difficile
per il CNITP, che dal 1932 mutò il nome in CNIAP (Comitato nazionale italiano arti
popolari), emanciparsi dall’iniziale approccio dopolavoristico alla cultura contadina
che caratterizzava l’ideologia fascista, affrancarsi dalle finalità di educazione delle
masse e di creazione di un’identità nazionale e impegnarsi, sin dal 1929, con
l’apertura del Primo congresso nazionale delle Tradizioni popolari, nel delineare i
contenuti scientifici che avrebbero rafforzato l’attività dell’Ond. In questo Primo
Congresso, presieduto da R. Pettazzoni, studioso di storia delle religioni, furono
toccate anche tematiche museografiche, oltre a quelle che riguardavano la
formazione scientifica degli studiosi di folklore e la creazione di figure professionali
idonee a coordinare le attività dell’Ond: ritornò il tema dibattuto già nel 1911, in
occasione del Primo Congresso della Società di etnografia italiana, riguardante la
necessità di costituire e rafforzare musei etnografici regionali, come quadri analitici,
riassuntivi della situazione nazionale.
5
I Congressi si susseguirono con cadenza più o meno regolare e rappresentarono
sempre più per gli studiosi di folklore un’occasione per approfondire la materia di
studio, per lanciare campagne di raccolta di manufatti, capillarmente diffuse a livello
locale, in perfetta sintonia con l’impeccabile spirito organizzativo fascista, e
coordinate dall’Ond, per definire le linee scientifiche del Comitato, sempre
ribadendo il distacco dalle ricadute politiche ed educative e dall’uso che faceva
l’Ond della cultura popolare e sottolineando l’attenzione rivolta agli aspetti storici ed
estetici della materia popolare. Si creò, a livello degli intellettuali e degli studiosi di
folklore, una coscienza regionalistica, fondata sull’esaltazione delle differenze e sulla
5
M. Tozzi Fontana, I musei della … , op. cit. , p. 31.
4
valorizzazione delle tradizioni locali, che, in apparente contraddizione con le mire
accentratrici di Roma, in realtà ben si conciliava con le logiche nazionaliste del
regime, approdando ad una fedeltà nazionale delle masse, che si identificavano
nell’appartenenza alla propria regione, condividendo i contenuti storici ed estetici
delineati dagli studiosi: ciò, insieme ad un mancato approccio critico delle culture
locali, neutralizzava agli occhi del regime lo spauracchio dell’appartenenza di classe.
L’idea unificatrice e anticlassista del popolo italiano produttivo, dedito al
lavoro, divenne tematica trainante delle mostre etnografiche regionali che si
susseguirono dal 1936 in avanti, sull’onda entusiastica e mistificatoria dell’impresa
colonizzatrice etiopica. Tuttavia gli aspetti del lavoro che vennero trattati erano
quelli legati alla celebrazione delle feste contadine dei cicli agrari, agli eventi
straordinari, all’arte popolare, tacendo volontariamente sulle tematiche imbarazzanti
della realtà misera e difficile della vita lavorativa contadina. Lo stile museografico di
tali mostre, che venivano inaugurate a catena, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta, si
caratterizzava per la predilezione delle ricostruzioni degli ambienti e dei costumi del
dì di festa, e tralasciava gli spaccati della vita quotidiana.
6
Anche la scelta degli
oggetti da esporre era mirata ed evitava accuratamente di prendere in considerazione
gli attrezzi del lavoro contadino, soffermandosi piuttosto sui manufatti dell’arte
popolare, più innocui rispetto al potere evocativo che potevano esercitare gli
strumenti della fatica quotidiana. Dietro queste scelte museografiche, sia nella
raccolta che nell’esposizione degli oggetti, si nota comunque la perfetta
consapevolezza e l’intenzionalità, da parte della direzione scientifica, di rivolgersi
alle forme di espressione dell’arte popolare, piuttosto che ad altri aspetti del
panorama folklorico: il CNIAP nel suo Statuto sottolineava la necessità di tutelare,
difendere e incrementare lo studio dell’arte popolare, «distinta dalle altre
manifestazioni del folklore».
7
D’altra parte era già da qualche anno matura tra gli
studiosi di folklore la posizione che voleva che gli oggetti del mondo popolare
ricevessero il medesimo trattamento degli oggetti dell’arte colta; nel 1933 C. Arù
affermava, in un saggio apparso su «Lares»:
6
Idem , p. 34.
7
L. Mariotti, Antropologia museale. I luoghi del dibattito, della formazione, del mestiere, in «La
Ricerca Folklorica» n. 39, Brescia, Grafo, 1999, p. 105.
5
Resta dunque accertato che anche gli oggetti di fabbricazione e di uso
popolare vanno considerati e valutati con criteri artistici.
8
Infatti gli anni trenta furono gli anni in cui l’oggetto popolare iniziò ad essere
percepito come artistico: una sorta di tentativo di riscattarsi dal piano di subordine in
cui le discipline demologiche, e i musei demologici, erano da sempre stati posti,
rispetto all’«arte illustre» dell’«alta civiltà», per utilizzare espressioni di Toschi.
9
Come se, non potendo l’oggetto popolare affrancarsi dal complesso di inferiorità
rispetto ai prodotti dell’arte e ai reperti dell’archeologia, che in Italia hanno sempre
monopolizzato le attenzioni, avesse deciso di equipararsi in qualche modo ai suoi
antagonisti. Fu un atteggiamento questo che sicuramente ebbe ripercussioni anche
negli anni a venire, e che tuttora contribuisce alla non perfetta autonomia del
patrimonio demoetnoantropologico, sia sul piano interpretativo, che di tutela e
valorizzazione. Negli anni quaranta emerse una intuizione che conduceva nella
direzione di trattare gli oggetti della cultura popolare, sia sul piano concettuale che su
quello legislativo, in maniera distinta dagli oggetti d’arte colta: ai fini della tutela, i
manufatti popolari dovevano essere considerati non sulla base di meri criteri estetici,
ma alla luce della loro funzione e del ruolo di risposta ai bisogni dell’uomo. Fu
tuttavia una eccezione rispetto al sentire generale.
10
L’alba dell’entrata in guerra dell’Italia incrementò le attività di esposizione, e
le mostre assunsero sempre più palesemente toni propagandistici, ritenendo il
governo fascista di poter risollevare gli animi e mantenere alta la fiducia degli
italiani, attraverso la pantomima della mostra etnografica. Sin dal loro abbrivio le
mostre etnografiche organizzate dall’Ond avevano come obiettivo la unificazione di
tutti i materiali in un Museo del popolo italiano, che sarebbe dovuto sorgere a Roma,
alla fine della guerra al fianco della Germania. Questi auspici furono ribaditi nel
1940, nel corso del Quarto Congresso nazionale di tradizioni popolari.
Il progetto del Museo del popolo italiano, non decadde insieme al regime
fascista: pur modificata nelle finalità propagandistiche, l’idea di accorpare i materiali
nazionali più rilevanti, si concretizzò nel dopoguerra, quando a Roma vide la luce il
8
C. Arù, Un’arte che muore, un Museo che nasce, in «Lares», A. IV (1933), n. 1-2, p. 7-18.
9
P. Toschi, Il folklore, Roma, Univ. Studium, 1960, p. 165.
10
M. Tozzi Fontana, I musei della … , op. cit. , p. 38.
6
Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari, culmine di una attività di
ripresa delle attività espositive dei materiali della cultura popolare dopo la guerra.
M. Tozzi Fontana vede una certa continuità tra le attività ostensive temporanee
dell’Ond e alcune mostre etnografiche che furono inaugurate in Italia nell’immediato
dopoguerra:
... una marcata analogia nel tono propagandistico con la stagione
espositiva degli anni trenta è riscontrabile nella Mostra del lavoro italiano
nel mondo, svoltasi a Napoli nel 1952, e nella Mostra dell’arte nella vita
del Mezzogiorno d’Italia, tenuta a Roma l’anno successivo, che costituì
l’occasione per esporre parte delle collezioni del Museo nazionale, ancora
privo di sede. Ancora una volta, pur nel nuovo contesto democratico e
repubblicano, le mostre di carattere etnografico rappresentano un
collaudato veicolo per acquisire consensi, enfatizzando, con un briciolo
di retorica, le virtù del lavoratore italiano che, ottimista e tenace, si
rimbocca le maniche e si fa onore in patria e all’estero, in perfetto
accordo con gli indirizzi perseguiti responsabilmente dai governanti.
11
Perfettamente in linea con le esigenze della ricostruzione, aggiungerei.
Per ciò che riguarda gli studi sul folklore, in particolar modo se si considerano
le ricerche condotte in ambito strettamente accademico, non è difficile rilevare che
poco si era modificato nell’immediato dopoguerra, nonostante il cambio di regime
governativo: i protagonisti dei dibattiti scientifici erano i medesimi del periodo
bellico e prebellico e anche le tematiche non avevano subito considerevoli
modifiche.
1.1.2 Crocianesimo, storicismo, marxismo, folklore.
Nel 1935 A. Gramsci sosteneva che gli studi del folklore si mantenevano ad
un livello di approfondimento che non usciva dagli aspetti pittoreschi e consisteva
quasi esclusivamente nel dibattito sulla metodologia di raccolta, classificazione ed
11
Idem, p. 39.
7
esposizione del materiale della cultura popolare, «né con ciò si misconosce
l’importanza e il significato storico di alcuni grandi studiosi del folklore».
12
Negli anni in cui scriveva Gramsci, la cultura italiana era dominata
dall’idealismo di Benedetto Croce, che dal 1938 in poi, con la pubblicazione di La
storia come pensiero e come azione, ebbe delle ricadute considerevoli sulle
discipline demologiche, come spiega P. Clemente:
La critica crociana alle storicità, storicismi e approcci sociali non
idealistici, si concentra intorno ai temi della filologia e della sociologia,
considerate modalità del sapere diverse dalla conoscenza, dalla ragione e
dal concetto, in quanto essenzialmente pratiche ordinative, classificatorie,
estrinseche alla comprensione e semmai ad essa strumentalmente utili .
13
Dunque, secondo Clemente, mentre in Europa fiorivano le scuole di
antropologia, in Italia il settore demologico, tradizionalmente in secondo piano
rispetto ad altri settori della cultura, subiva le influenze da un lato della filosofia
idealistica crociana, dall’altro dei retaggi positivisti tardo ottocenteschi. Questo
determinava una «coesistenza tra idealismo filosofico e documentarismo
positivista»
14
che tradotto nei fatti significava una grossa vivacità, un rilancio degli
studi demologici, ma finalizzato alla documentazione, con un impianto critico fermo
al positivismo, al diffusionismo, all’evoluzionismo della seconda metà
dell’Ottocento e con una metodologia che si rifaceva alla filologia. Infatti negli anni
trenta l’attenzione dei folkloristi e degli studiosi appassionati alle tematiche
demologiche si concentrava soprattutto sui canti popolari, sulla poesia popolare, sulla
raccolta di proverbi, superstizioni, usanze, in una sola efficace parola, sulle
sopravvivenze. Anche G. Angioni, in una retrospettiva datata 1970 sugli studi
demologici in Italia, parla di «esiguità» e di «irrilevanza scientifica di gran parte
delle ricerche» condotte nel periodo tra le due guerre, sotto l’influenza crociano-
12
A. Gramsci, Osservazioni sul folklore, in Quaderni dal carcere, vol. 3, Einaudi, Torino 1975,
p. 2311.
13
P.Clemente, Alcuni momenti della demologia storicistica in Italia, in P. Clemente, A. R. Leone, S.
Puccini, C. Rossetti, P. Solinas, L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Bari, Laterza, 1985, p. 5.
14
Idem, p. 20.
8
idealistica, pur riconoscendo una forte ripresa degli studi nell’immediato
dopoguerra.
15
Infatti fu nei primi anni quaranta che il crocianesimo in difficoltà rese possibile
una critica dal suo interno e una formulazione nuova dello storicismo applicato alla
etnologia e alla demologia, grazie soprattutto ad E. De Martino e a G. Cocchiara,
che tra il 1941 e il 1948 pubblicarono dei testi considerati classici dello storicismo
etno-antropologico italiano.
16
La crisi del crocianesimo determinerà in seguito un
ulteriore sviluppo del dibattito sul folklore:
Negli anni successivi lo storicismo si coniugherà più strettamente con
l’opera di Gramsci, e sarà poi fortemente ridiscusso negli anni Sessanta;
anni in cui lo stesso sviluppo del pensiero di De Martino e Cocchiara si
era orientato verso soluzioni più distanti dal confronto sistematico con
quell’indirizzo di pensiero.
17
Vale forse la pena di approfondire questa affermazione di P. Clemente,
seguendo le linee guida tracciate da A. M. Cirese che in Cultura egemonica e culture
subalterne affronta il percorso che hanno seguito gli studi di demologia dagli anni
trenta agli anni sessanta.
18
Cirese opera un distinguo tra due rami degli studi
demologici, indicando momenti di sviluppo differente per ciascun ramo; in
particolare, tra le due guerre gli studi sulla poesia popolare e gli studi sulla musica
popolare si differenziarono molto tra di loro, sia per metodologia che per
orientamento teorico. Gli studi sulla poesia popolare furono portati ad un grosso
sviluppo grazie agli studiosi della scuola storico-filologica, che rielaborando le
intuizioni e i materiali raccolti nell’ottocento aprirono un filone di studio filologico
della poesia popolare; la produzione di questo filone risulta molto vasta, si pone su
15
G. Angioni, Alcuni aspetti della ricerca demologica in Italia nell’ultimo decennio, in A. M. Cirese,
G. Angioni, C. Bermani, G. L. Bravo, P. G. Solinas, Folklore e antropologia tra storicismo e
marxismo, Palermo, Palumbo 1972, p. 171.
16
E. De Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, 1941; G. Cocchiara, Storia degli studi delle
tradizioni popolari in Italia, 1947; E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni ad una storia del
magismo, 1948; G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio. Introduzione alla storia delle teorie
etnologiche, 1948.
17
P. Clemente, Alcuni momenti della demologia storicistica in Italia, in P. Clemente, A. R. Leone, S.
Puccini, C. Rossetti, P. Solinas, L’antropologia italiana … , op. cit. , p. 22.
18
A. M. Cirese, Cultura egemonica e … , op. cit. , p. 190-223.
9
un piano critico storico, nel senso che considera la produzione poetica popolare come
fatto storico, elaborato o rielaborato dal popolo. All’opposto, gli studi sulla musica
popolare consideravano la produzione popolare come dato astorico, immobile,
atavico, appartenente all’ethnos, al di là della storia, non entrando in questo modo in
dibattito critico con lo storicismo idealistico, al quale invece gli studi di poesia
popolare si opponevano, implicitamente; tuttavia sul piano metodologico,
l’etnomusicologia compì un passo in avanti importante, lasciando il tavolino della
ricerca ottocentesca e scendendo sul campo. Sicuramente la differenza di
atteggiamento nei confronti della metodologia vede le sue motivazioni anche
nell’oggetto stesso degli studi, ma ciò che preme di più a Cirese di dimostrare è il
rapporto che questi studiosi hanno avuto con lo storicismo idealistico di Croce,
«punto di riferimento essenziale ed obbligato per la cultura italiana tra le due
guerre ed oltre».
19
La critica crociana alle discipline generalizzanti e comparative,
discipline prive del carattere individuante che solo la storia possiede, e quindi
pseudo-scienze, investì ovviamente anche il folklore e in particolare quel folklore
che utilizzava le eredità comparative del positivismo; d’altra parte,
una risposta pertinente alle sue impostazioni poteva venire solo da
posizioni che si fossero liberate dei residui romantici e positivistici, e
inoltre doveva uscire dal terreno estetico su cui Croce si poneva .
20
Questo genere di risposta, tra gli anni venti e gli anni quaranta, venne da due
voci: quella della scuola storico-filologica che, come anticipato, si poneva in netta
contrapposizione allo storicismo idealistico, affrontando la poesia non sul piano
estetico, ma su quello filologico, e da Antonio Gramsci che nel 1935 delineò una
visione del folklore che per la prima volta faceva i conti con le dinamiche sociali e
politiche, e che, inascoltata per quindici anni, inciderà in maniera decisiva sulla
ideologia del dopoguerra.
Il dopoguerra significò in Italia non solo la fine del conflitto mondiale, ma
anche la caduta del regime totalitario che, come abbiamo visto, aveva determinato e
strumentalizzato per un ventennio l’andamento degli studi di demologia; significò
19
Idem, p. 195.
20
Idem, p. 202.
10
anche un nuovo approccio al folklore, un rilancio degli studi in termini del tutto
nuovi rispetto ai venti anni appena trascorsi, pur in pacifica convivenza con approcci
più legati al passato.
Accanto alla prosecuzione delle indagini di tipo tradizionale, si ha
l’imporsi di nuovi interessi che nascono da una diretta e precisa
consapevolezza delle contraddizioni sociali di cui i fatti demologici sono
indizio o prodotto.
21
Cirese individua nell’immediato dopoguerra due filoni di studi: uno legato alle
indagini di tipo filologico, che si esprimeva attraverso l’opera scientifica di studiosi
del calibro di Toschi, Pettazzoni, Vidossi, Santoli, nomi che riempivano le riviste
scientifiche già prima della guerra, ma anche di Cocchiara, che sicuramente è tra i
demologi quello che più di altri rimase legato e per un certo periodo anche fedele
all’impianto storico-idealista, pur operando un tentativo di riformulazione e di
adattamento dello storicismo; l’altro filone di studi, invece, riguardava più da vicino
la realtà sociale e tutte le problematiche legate al fermento politico e culturale che
interessava l’Italia del dopoguerra. All’interno di questo filone si inserisce
sicuramente la figura di E. De Martino, etnologo il cui percorso intellettuale è
facilmente rintracciabile in scritti che, partendo da una fedeltà alla tradizione
storicistica crociana, approdano ad una etnologia storicista, in un quadro concettuale
«che vuole tenere uniti Croce e Gramsci».
22
Il filone delle nuove ricerche, impegnate
sul piano sociale e politico, vide protagonisti anche altri ricercatori, e più in generale,
un infittirsi delle ricerche demologiche, soprattutto in ambito non accademico, e un
infervorarsi del dibattito scientifico. Sicuramente a dare l’abbrivio all’interesse per
quella che allora era definita l’altra Italia, fu la pubblicazione di opere letterarie che
vedevano portati agli onori delle cronache personaggi e scenari del mondo contadino
meridionale da molto tempo occultati e dimenticati, ma anche la necessità degli
intellettuali di sinistra di schierarsi politicamente, accanto alle masse svantaggiate
che sin dalla fine della guerra facevano sentire la loro voce nelle lotte contadine e
operaie.
21
Idem, p. 124.
22
Idem, p. 220.