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restando le conseguenze dovute all’inadempimento. Se non
ci fossero questi limiti al potere contrattuale delle parti, si
andrebbe al di là della semplice natura obbligatoria e, vista
l’appartenenza all’ordine pubblico del principio della
circolazione della ricchezza, non si sarebbe potuto derogare
nemmeno per brevissimi periodi di tempo; senza l’efficacia
inter partes, da solo non sarebbe bastato il semplice
interesse privato.
La formulazione della norma sui divieti contrattuali
ad alienare, ha senza dubbio seguito uno sviluppo storico-
ideologico che ha visto la libertà contrattuale andare, da una
forte restrizione con l’ammissione delle sole ipotesi legali,
fino al riconoscimento di una maggiore libertà, tipica delle
attuali società liberali. Ciò, non ci deve però portare a
credere che la transizione sia del tutto completata con il
riconoscimento di queste ampie forme di libertà negoziali,
in quanto, numerosi sono ancora i dubbi, in dottrina come in
giurisprudenza, sull’applicazioni delle presenti deroghe al
caso concreto; anche se, bisogna ammettere, che la maggior
parte dei dubbi non è tanto dovuta alla presunta
incompatibilità della norma con l’ordinamento generale,
quanto piuttosto al suo carattere generico che non sempre si
lega (senza dar luogo a delle incertezze) alla fattispecie
concreta.
Il dettato dell’art.1379 c.c., concretamente si presenta
il più delle volte come una clausola, contenuta in vari
contratti, con la quale i privati vanno a regolare i loro
rapporti, anche se, nulla esclude che si possa presentare
come un contratto a sé.
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I limiti alla libertà contrattuale previsti nella norma
sui divieti di alienazione, si possono individuare in
numerosissimi negozi disposti dalle parti, specie in quei
negozi atipici nei quali massima è la libertà dei privati:
possono sussistere dei limiti negativi che implicano il
divieto di contrarre con determinati soggetti, e questo può
essere il caso dei patti di esclusiva; possono essere presenti
dei limiti nei regolamenti di condominio o nei piani di
lottizzazione sotto forma di divieti (purché limitati nel
tempo) di vendere per frazioni, al fine di non aumentare il
numero dei partecipanti o di non vendere a parsone non
gradite ad altri (es. condòmini); o, presentarsi come limiti ad
alienare se non a determinate condizioni, e questo può
essere il caso del patto di prezzo imposto, o del patto di
prelazione, o di numerosissimi altri contratti (o clausole)
che possono andare dalla vendita, alla locazione e così via.
Infine, frequente è nel campo societario la prassi di
limitare l’alienazione delle azioni o di quote di
partecipazione facendo ricorso a forme di accordi
contrattuali tra alcuni o tutti i soci, o regolare attraverso
queste convenzioni tutta un’altra serie di diritti: è il caso dei
patti parasociali.
Naturalmente i casi menzionati non esauriscono la
fattispecie delle ipotesi soggette all’art.1379, visto il
carattere generale della norma che si lega ad un vasto
numero di diritti, dei quali i privati possono limitarne la loro
disposizione.
7
8
Capitolo 1: I divieti di alienare nei contratti.
1.1. La facoltà di disporre.
La facoltà giuridica, è una titolarità complementare ed
accessoria che, viene riconosciuta ai soggetti che sono
titolari di un determinato diritto soggettivo o, più in
generale, di una posizione giuridica attiva. Trattandosi
appunto di una facoltà giuridica e non di una facoltà
naturale, o di un potere di fatto, tale facoltà si accompagna
alla posizione giuridica alla quale è collegata per renderla
perfetta; ciò non implica che fra le due debba sussistere
necessariamente un vincolo di coesistenza, nel senso che la
presenza della posizione principale, non implica
necessariamente la presenza della relativa facoltà giuridica.
Tra le varie facoltà giuridiche riconosciute, una delle
più importanti, per il suo interesse teorico e pratico, è senza
dubbio la facoltà di disporre; questa, è una facoltà che
accompagna la titolarità di una posizione giuridica attiva e
concorre al mutamento giuridico di tale posizione, per
mezzo di un atto negoziale di disposizione derivante dalla
volontà del soggetto legittimato a tale facoltà. Con tale atto
di disposizione, è anche possibile separare la posizione
giuridica del titolare legandola o meno in capo ad un altro
soggetto. Oggetto di questo atto di disposizione può essere
qualsiasi posizione giuridica attiva di un determinato
soggetto che riconosciuta dall’ordinamento, anche se, questa
è una regola di carattere generale che può prevedere svariate
eccezioni. Ci si potrebbe così trovare, innanzi ad una
9
situazione nella quale, il soggetto titolare della posizione
giuridica, potrà alienare ad altri la sua titolarità come
elemento del suo patrimonio (alienazione vera e propria);
potrà alienarla ad altri, sulla base di una posizione
preesistente e alla prima collegata (alienazione costitutiva o
parziale) - può essere ad esempio il caso nel quale in un
bene graveranno contemporaneamente insieme al diritto di
proprietà, un diritto di usufrutto, di uso, di proprietà
temporanea, di abitazione, uso e così via; e infine, una
rinunzia senza alcun trasferimento di titolarità in capo ad un
altro soggetto (dismissione pura e semplice).
Questa facoltà di disporre, che viene concessa ad una
determinata posizione giuridica attiva, può essere
temporaneamente sospesa dalla volontà del privato (titolare)
che potrà, entro certi limiti, porre in essere dei divieti
negoziali di disposizione.
Nella pratica negoziale, specie in quella contrattuale,
vi sono numerosi casi concreti nei quali la volontà delle
parti tende a limitare questa facoltà di disposizione; questa
limitazione avviene generalmente in via accessoria rispetto
ad un determinato negozio principale. I divieti alla facoltà di
disporre, servono a chi li pone in essere, per tutelare suoi
interessi che potranno essere di varia specie, individuali
come collettivi; gli interessi, in concreto, si possono
ricondurre (ad esempio) all’interesse dei contitolari, che
nella comunione dei diritti, volessero escludere
dall’acquisto terzi non graditi, stabilendo all’uopo, la
necessità del consenso degli altri titolari in caso di
alienazione di singole quote; in un contratto di vendita, sarà
possibile proteggere una determinata merce, bloccandone il
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traffico per una determinata zona o per un certo periodo; nel
contratto di società sarà possibile scongiurare l’ipotesi che
dei concorrenti acquistino delle azioni al fine di ostacolare
gli interessi della società, bloccando appunto il
trasferimento delle stesse; in un contratto di locazione di
beni mobili, la volontà limitatrice delle parti, potrà impedire
che la cosa locata subisca un eventuale pregiudizio
economico a causa di ulteriori passaggi in godimento a
soggetti diversi dal conduttore; analoghi interessi, possono
inoltre, essere perseguiti attraverso l’imposizione di questi
divieti di disposizione in contratti di donazione, in
disposizioni testamentarie e in molti altri casi di negozi.
In definitiva, si potrebbero considerare i divieti di
disposizione come una categoria generale, all’interno della
quale, grande rilievo assumerebbero i divieti di alienare.
1.2. Il divieto di alienazione: Cenni storici.
Il divieto, è un precetto negativo (obbligo a non fare)
diretto a proibire un atto, che altrimenti sarebbe libero e
lecito. Tale precetto, normalmente è contenuto in una legge,
anche se le sue fonti possono essere diverse: può essere
posto in essere dall’autorità giudiziaria, oppure, dalla
volontà dei privati, nei limiti, ovviamente, riconosciuti
all’autonomia privata.
Le ragioni di un divieto possono essere di ordine
politico, economico, sociale, ma anche (appunto), di natura
privata; in quest’ultimo caso è posto a tutelare degli
interessi di determinati soggetti, o a favore di qualsivoglia
11
interesse privato. Dove l’autonomia privata è ampia, si è in
presenza di divieti posti in essere da negozi giuridici.
In questi tipi di precetti, rientra, il divieto contrattuale
di alienare; considerando tale divieto dal lato dalla sua
caratteristica principale, la limitazione alla libera
disponibilità e al potere di alienare, si può ben vedere come
questo incida fortemente sul diritto di proprietà.
Lo sviluppo storico del divieto ad alienare, è stato
molto articolato, in quanto, spesso, si andava a scontrare con
quelli che erano i principi cardine della società in un dato
periodo. Tale conseguenza è facile da intuirsi dal momento
che un divieto del genere, incidendo sul potere di
disposizione, va a toccare la sfera più intima dei diritti del
singolo individuo.
Nel periodo romano, il diritto abiurava qualsiasi
forma di divieto di disposizione, in quanto, qualunque
limitazione di questa, ne avrebbe snaturato il contenuto. I
primi divieti, iniziano a nascere nel periodo della crisi
repubblicana, stimolati dalle idee di giustizia sociale che
circolavano nella società dell’epoca. Il fenomeno riguardò
per prima la legislazione agraria, con l’imposizione dei
vincoli all’alienazione rispetto ai lotti di terreno assegnati.
Lo scopo della riforma agraria dell’epoca, mirava a
prevenire il pericolo di alienazioni che avrebbero frustrato il
significato stesso della riforma. Tale pericolo era tutt’altro
che ipotetico; notevoli erano i rischi che i nuovi proprietari
divenissero preda di ricchi latifondisti, all’epoca i soli a
possedere i capitali che necessitavano alla coltivazione dei
fondi; c’era inoltre il rischio che questi nuovi proprietari,
tentati dall’immediato guadagno, avrebbero venduto subito i
12
fondi assegnati, continuando così a rimanere nella loro
condizione di proletari in città.
La tendenza storica nel nostro ordinamento, con
riferimento al negozio giuridico, è stata quella di accrescere
sempre di più la sfera dell’autonomia privata.
Ai singoli è riconosciuta la possibilità di regolare i
propri interessi stringendo rapporti contrattuali, nei quali è
possibile definire totalmente il contenuto, mettendo a
disposizione degli stessi, un numero di schemi formali
sempre più numeroso. Tale sviluppo del diritto verso una
maggiore libertà contrattuale, è stato caratterizzato da una
diminuzione dei vincoli e dall’aumento della libertà
individualistica.
Con la tendenza ad un riconoscimento sempre
maggiore dell’autonomia privata, si è andati verso la
regolamentazione di istituti che, di tale autonomia, ne
facevano una ragion d’essere.
Si è giunti così, a disciplinare espressamente il divieto
contrattuale ad alienare, non contenuto nel vecchio codice
civile. All’inserimento nel nuovo codice di tale
disposizione, naturalmente, non ci si è arrivato
all’improvviso, ma già da tempo, si era riconosciuta la
validità di una simile pattuizione; infatti, fino ad allora,
trovandosi difronte a casi di inalienabilità pattizia, si era
sempre fatto riferimento alla disciplina sulla intrasferibilità
di alcuni titoli di credito
1
, giustificando tale lacuna
normativa in via analogica.
1
Dalle disposizioni dell'art. 21 L. ass. banc., e l’art. 19 L. camb. sugli assegni e altri
titoli di credito trasferibili.
13
A tale applicazione analogica, parte della dottrina
(cfr. Ascarelli)
2
, reagì definendola del tutto azzardata; venne
sostenuta l’impossibilità a fare, di una eventualità specifica,
quale quella della intrasferibilità di alcuni titoli di credito,
un principio che avesse carattere generale. Del resto, i titoli
non sono beni esistenti in natura e come tali liberamente
trasferibili, ma sono beni artificiali la cui circolazione è
regolata da una legge formale; inoltre, nel caso del divieto
ad alienare contenuto in un titolo di credito, ci si trova
difronte ad un negozio unilaterale.
Si ebbe maggiore aderenza alla realtà, quando si
abbandonò l’applicazione analogica della legge cambiaria e
della legge sugli assegni bancari e ci si rivolse allo sviluppo
del principio dell’autonomia negoziale.
Comunque, il motivo principale che portò
all’introduzione di tale norma nel codice civile vigente, fu in
particolare l’intenzione di dirimere la controversa questione
sull’efficacia reale o obbligatoria delle clausole di
inalienabilità.
1.3. Nozione.
Come accennato, i limiti alla libertà di contrarre,
possono essere legali o convenzionali, questi ultimi trovano
la loro fonte nella volontà delle parti. La fonte di questi
limiti, contribuisce a definire l’estensione della libertà
contrattuale; la libertà è massima nel caso di negozi, specie
in quelli innovativi o atipici, mentre è fortemente ridotta nel
2
cfr. Ascarelli, nota a Cass. 31 genn. 1931 e 28 febb. 1931, in Foro it., 1931, I, 635.
14
caso di limiti imposti dalla legge. Tale riduzione, nel caso
dei limiti legali, trova un freno nell’impossibilità concreta di
predeterminare tutti i punti di un contratto.
L’autonomia dei privati ha valore costituzionale
(art.41), anche se ciò non ci può indurre a pensare che tale
campo di autonomia sia illimitato. Al riconoscimento
costituzionale, segue quello in forza di legge, secondi
l’art.1372 che definisce l’efficacia delle norme private. Tale
interesse, in quanto interesse individuale, deve essere
contenuto da una opposta esigenza, quella dell’interesse
generale. E’ all’interno di questi due ordini di interessi che
si muovono i divieti negoziali al potere di alienare. Queste
limitazioni, si presentano concretamente come delle clausole
d’inalienabilità che vengono contenute in un contratto, il
cosiddetto patto di non alienazione.
Questa forma d’inalienabilità stabilita per contratto,
non era prevista in passato ed espressamente inserita
nell’attuale codice civile (art.1379), anche se in merito alla
sua ammissibilità, non ci sono mai stati dubbi in dottrina
come in giurisprudenza, facendo spesso ricorso ad
applicazioni analogiche.
Il pactum de non alienando trova la sua fonte
giustificativa nella norma del codice civile che parla di
“divieto di alienare”. La norma recita : «Il divieto di alienare
stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti, e non è
valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo
e se non risponde ad un apprezzabile interesse di una delle
parti» (art.1379 c.c.).
Questo divieto opera direttamente sul potere di
disporre di un diritto, escludendolo o limitandolo; questo
15
potere è l’elemento soggettivo, ossia la capacità di agire del
soggetto, che insieme all’elemento oggettivo (il diritto di cui
si dispone), va a formare quella che è la facoltà di disporre.
Le clausole di inalienabilità non vincolano la facoltà
di disporre, ma danno vita semplicemente ad
un’obbligazione personale di natura autonoma; è da
sottolineare, come l’accezione “disporre” sia più ampia del
termine “alienare”.
Quindi, non ci si trova difronte ad una rinuncia del
potere di disposizione, ma ad un semplice obbligo (assunto
contrattualmente) a non disporne per un periodo di tempo,
comunque limitato. Si può ben vedere come tale situazione
non contrasti affatto con il principio generale secondo il
quale non è possibile in via anticipata rinunciare
all’esercizio di un diritto o di un potere legato naturalmente
al diritto stesso (è il caso della disposizione). E’ ammesso
invece, che tale diritto o potere non siano esercitati entro
certi limiti e in via eccezionale a favore di un interesse
rilevante e non illecito.
Facendo riferimento alla natura giuridica di tale
impedimento, essa si ripercuote su una diversità della norma
che la contiene, in quanto, tali divieti sono contenuti sia in
leggi, sia in negozi giuridici; per i primi è il caso dei divieti
legali mentre per gli ultimi, dei divieti disposti
contrattualmente, ai quali, del resto si riferisce l’art.1379.
Differente è l’efficacia nei due casi: efficacia reale nel
divieto posto dalla legge, mentre efficacia obbligatoria in
quello contrattuale.
Il divieto al quale fa riferimento la vasta categoria dei
patti (all’interno della quale vi è anche il patto di non
16
alienare), è il divieto negoziale. Per l’esattezza è proprio con
tali patti che questi divieti vengono posti in essere.
La disciplina dell’art.1379c.c., trova applicazione non
soltanto nel caso di divieto assoluto di alienare, ma anche
nel caso in cui, tale potere di alienare sia limitato in modo
da incidere fortemente sulla disponibilità del bene, come del
resto stabilito dalla Suprema Corte
3
; è ad esempio, il caso
del patto tra produttore e rivenditore, a non cedere prodotti a
dettaglianti non autorizzati.
Quindi, il riguardo è nei confronti dell’inalienabilità
totale e parziale, traslativa e costitutiva, onerosa e gratuita.
Il riferimento di tale articolo, riguarda, anche gli
obblighi di contrarre o di non contrarre con determinate
persone (patti di preferenza e patti di boicottaggio). Deve
quindi considerarsi valida, anche la clausola che vieta di
alienare ad una determinata persona, come quella che
prevede che l’alienazione possa avvenire a favore solo di
una certa persona; ciò, partendo dal presupposto della
validità dell’ipotesi generale, ossia dell’inalienabilità ad
alcuno.
La portata dell'art.1379 è valida inoltre, anche per il
caso di divieto di alienare salvo che a determinate
condizioni (clausola con imposizione di prezzo per la
rivendita).
Il divieto di alienare è valido anche se vi è un vincolo
di destinazione posto dal proprietario, circostanza che è stata
ribadita anche dalla Suprema Corte in una sua recente
sentenza (Cass. n.3082/90)
4
nella quale riconosceva
3
Cass. 11 aprile 1990, n.3082, in Riv. Dir. Comm., 1992, II, 485.
4
Cass. civ., 11 aprile 1990, n. 3082, in Mass., 1990: La norma dell'art. 1379 c.c. con
riguardo alle condizioni di validità - limite temporale di durata, rispondenza ad un
17
l’art.1379 c.c. come un articolo di carattere generale che,
come tale poteva trovare applicazione anche alle pattuizione
che non rispondevano interamente al divieto di alienare, ma
che avessero il medesimo risultato da un punto di vista
generale. La precedente sentenza
5
, ha avuto come oggetto
un contratto di compravendita di un lotto di terreno tra un
privato e un Ente Pubblico; il contratto poneva come
vincolo a carico del futuro acquirente (nel caso in
questione), l’obbligo di edificare sul terreno un edificio da
destinarsi in parte a stazione di servizio, e in parte ad
abitazione del gestore della suddetta attività.
In conclusione, si può sostenere che la regola sancita
all’art.1379 cod. civ. abbia nel nostro ordinamento una
portata generale, accostandola così, alle altre norme che
nell’ambito contrattuale costituiscono principi guida
generali (artt.1322 e 1372, sull’autonomia ed efficacia nei
contratti), riservando alla legge la facoltà di disciplinare
determinate situazioni che si presentano come casi specifici;
salvo i «casi previsti dalla legge» (art.1372c.c.).
1.3.1. Fondamento dell’art. 1379 c.c.
Il nostro ordinamento, riconosce la possibilità
negoziale a costituire dei divieti di alienazione, concessa
alle parti, anche se bisogna ammettere, che questa vi si pone
apprezzabile interesse di una parte - del divieto convenzionale di alienare, si applica,
essendo espressione di un principio di portata generale, anche a pattuizioni che,
come quelle contenenti un vincolo di destinazione, seppur non puntualmente
riconducibili al paradigma del divieto di alienazione, comportino, comunque,
limitazioni altrettanto incisive del diritto di proprietà.
5
Cass. Civ., 11 aprile 1990, n.3082, la sentenza è quella citata alla nota precedente
che si trova anche, formulata in modo differente, in Riv. Dir. Comm.,1992, II, 485.
18
come una sorta di eccezione. Infatti, qui, un principio guida
è quello della “libera circolazione dei beni”. Tale principio è
ispirato dalla convinzione che vi è nel mondo economico, ed
incorporata poi nell’attuale sistema del diritto, che i beni
oggetto di diritti dei privati producano una utilità in quanto
considerati nella loro fase dinamica, quindi nei trasferimenti
o spostamenti da un patrimonio ad un altro. L’alienazione
non è altro che il mezzo mediante il quale tale principio si
concretizza e quindi, è agevole notare, come il divieto di
alienare rappresenti un freno al principio della libera
circolazione della ricchezza.
Questo della libera circolazione è un principio non
formulato giuridicamente, originato dalla scienza
economica.
Tale freno, ha fatto si che nel passato nascesse la
convinzione che i patti di inalienabilità fossero contrari
all’ordine pubblico. Oggi questa ragioni sulla contrarietà
all’ordine pubblico di tali divieti, in quanto limitativi della
libertà di scambio, sono rimaste giusto ragioni di carattere
storico che nella pratica non vengono più riconosciute.
Infatti, i danni provocati dai limiti contrattuali alla
trasferibilità dei beni non sono tali da creare pregiudizi
all’economia nazionale.