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Introduzione
“Sun Tzu disse: (4) L’invincibilità sta nella difesa. La vulnerabilità nell’attacco.
Se ti difendi sei più forte. Se attacchi sei più debole. […]
(8) In breve, questo è il metodo per organizzare le operazioni militari.
In una zona di confine stringi alleanze.
In un zona crocevia non restare.
In un terreno chiuso elabora strategie.
In un terreno di morte combatti. […]
Un saggio generale deve prendere in considerazione nelle sue valutazioni sia i vantaggi sia i danni.
Considerare i vantaggi comporta la fiducia nel proprio servizio.
Considerare i danni serve a premunirsi dalle avversità. […]”
Da Sun Tzu, L’Arte della Guerra.
1
Questa breve citazione dall’opera del Sun Tzu, uno dei più antichi trattati di strategia militare,
è in grado di mostrarci come, fin da circa trecento anni prima della nascita di Cristo, in una
regione della Cina settentrionale, erano già stati individuati alcuni dei principi basilari per il
comportamento di un attore statale in una situazione conflittuale. Sebbene la valutazione di
questi generali, che misero sotto forma scritta la propria filosofia di guerra, si riferisca alle
regole precise per uscire vittoriosi dai combattimenti militari, il messaggio da cogliere è
indubbiamente a più ampio respiro e sottintende quella persistenza nei caratteri della politica
internazionale che, fin dall’epoca del Sun Tzu, sembra accompagnarci ancora oggi.
Il caos e l’anarchia che governano il sistema, da comprendere nella loro interezza, sono infatti
alla base della concezione di realtà di ogni Stato, il quale, come in una condizione di lotta
permanente per la propria sopravvivenza, deve erigere l’auto-difesa, il “self-help”, a principio
unico verso il quale rivolgere il resto delle proprie azioni. Fra queste, tuttavia, la saggezza del
“generale” è la reale virtù necessaria per riuscire nell’obiettivo primario di sicurezza: un
giusto equilibrio fra gli interessi da perseguire, con i vantaggi da essi ricavabili, e i costi, i
«danni» che ne deriverebbero, per calcolare la “funzione” più efficiente in vista dello scopo di
rafforzamento finale. Inoltre, come in un’operazione militare, vi sono diversi strumenti per
riuscire con successo nell’impresa, in relazione alle circostanze contingenti: dal più estremo,
1
Sun Tzu (2001), L’Arte della Guerra, The Denma Translation Group (ed.), trad. it. a cura di Rossi M., Milano,
Mondadori, cap. 4, 8.
4
come il combattimento, la guerra, al più accorto e studiato, come la formazione di alleanze,
fondamentali se, nelle proprie vicinanze, vi sono uno o più attori potenzialmente pericolosi.
Questi caratteri di base dell’azione statale hanno permeato l’intera letteratura filosofica e
politologica, sin dai suoi esordi, ad esempio con i filosofi greci, Machiavelli, Hobbes, Kant,
attraverso i vari adattamenti alle diverse contingenze storiche e in modo più o meno radicale
o pessimista, per arrivare sino alla nostra contemporaneità, in cui gli studiosi di relazioni
internazionali ancora dibattono su quali siano le soluzioni migliori, per uno stato, per
muoversi nel sistema, relazionarsi con gli altri attori e garantire la propria sopravvivenza.
In questa grande e consolidata tradizione di studi, un’importanza particolare è rivestita da un
aspetto specifico delle relazioni interstatali, ovvero la forma dell’aggregazione di due o più
attori in patti di mutua difesa, le alleanze, fondamentali in tempi di guerra perché funzionali a
unire le forze contro un nemico comune, ma anche in quelli di pace, per controllarlo, per avere
le garanzie future di «invincibilità nella difesa» e per mantenere il sistema in equilibrio. Lo
studio delle alleanze ha dunque occupato una parte rilevante della teoria delle relazioni
internazionali, appunto perché anch’esse sembrano essere riconducibili a fenomeni ricorrenti,
e per molti aspetti simili, nel tempo. Come fu facile per Atene ricorrere al loro utilizzo per
prepararsi all’attacco di Sparta e per accrescere la propria influenza nel Peloponneso, così
esse furono necessarie negli anni della Prima Guerra Mondiale, quando gli schieramenti
europei antecedenti il conflitto rispecchiarono da subito le fazioni che si sarebbero
combattute da lì a poco. Se da una parte l’aspetto conflittuale delle alleanze sembra essere
essenziale per la loro configurazione, non si può tuttavia tralasciarne un secondo, ugualmente
importante, ma maggiormente condizionato nel suo verificarsi: quello cooperativo. Due amici
infatti, nell’ufficializzare il loro patto aggregativo, decidono di unire le rispettive risorse e
perciò di cooperare, affinché ognuno riesca a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato
originariamente. La formazione delle alleanze e il conseguente risultato cooperativo che ne
deriva non rappresenterebbero allora lo strumento ideale, e quello più semplice, per ordinare
il caos e massimizzare la propria sicurezza?
A partire dal secolo scorso, gli stati hanno provato a dare un seguito ancora più studiato a
quest’idea, iniziando a creare una grande varietà di organizzazioni internazionali negli ambiti
più diversi, come versioni molto più estese, formalizzate e istituzionalizzate di alleanze. Ma in
poco tempo si è notato che un insieme di regole e principi comuni da seguire al loro interno,
insieme agli scopi precisi per la loro creazione, in molti casi non sono bastati per assicurare un
funzionamento efficace di tali strutture, perché gli attori più influenti al loro interno
tendevano a seguire primariamente il loro interesse, rispetto a quello generale della
“comunità”, con il rischio sempre costante di provocare la loro dissoluzione (ovviamente la
Lega delle Nazioni ne costituisce l’esempio principale). Aspetto competitivo e cooperativo
perciò si sovrappongono e, attorno ad essi, diverse altre variabili concorrono a definire il
funzionamento e la durata di un’alleanza o, nella sua versione formalizzata, di un’istituzione
internazionale, come l’utilità e l’interesse che ne derivano per i membri, i costi relativi per
mantenerla attiva e la possibilità di gestione dei comportamenti e delle preferenze altrui.
D’altronde, ogni istituzione, essendo uno strumento essenzialmente politico a disposizione
degli attori statali per muoversi nel sistema, può essere modificata, stravolta nella sua
5
composizione o abbandonata, nel momento in cui l’obiettivo, sempre legato al benessere della
nazione, viene raggiunto, o trasformato anch’esso.
Nella storia più recente, il modello di alleanza militare per eccellenza è rappresentato dalla
NATO, un patto aggregativo di potenza fra stati appartenenti ad una certa tradizione politica e
culturale, gli Stati Uniti e gli altri vincitori europei della Seconda Guerra Mondiale, che
decisero, nei primi anni Cinquanta del Novecento, di unirsi per difendere l’integrità del
proprio territorio dallo straordinario accrescimento di potere di un altro soggetto dell’ordine
internazionale, l’Unione Sovietica. Oltre ad essere un mezzo militare, il più “equipaggiato”
nella storia, essa ha costituito fin da subito un espediente politico speciale, attraverso il quale i
suoi Membri, i paesi dell’area euro-atlantica, risultavano legati reciprocamente da una serie di
vincoli, interessi e responsabilità intrecciati fra loro, e che scaturì in poco tempo in una forma
istituzionale progressiva, a partire dai suoi caratteri originari. Ed è esattamente il processo di
istituzionalizzazione graduale, accelerato soprattutto dal 1989 in poi, ad avere scatenato un
confronto letterario serrato sulle sorti dell’Alleanza Atlantica e sul ruolo generale delle
organizzazioni internazionali stesse, che caratterizza ancora oggi gran parte dei contributi
teorici delle relazioni internazionali, in particolare a causa della continua presenza ed
influenza della NATO nella politica contemporanea.
Si tratta indubbiamente di una tipologia di alleanza militare inconsueta, specialmente per il
costante intreccio fra i diversi aspetti descritti precedentemente, in una forma organizzativa e
burocratica molto complessa e ormai difficile da sciogliere: la competizione, la cooperazione,
l’interesse, la gestione e il controllo si sovrappongono fra loro e caratterizzano i meccanismi
alla base del suo funzionamento. Inoltre, una parte aggiuntiva e peculiare della sua
evoluzione, avviata negli ultimi vent’anni della sua esistenza, contribuisce a conferirle un
carattere così “atipico”: la formazione di una serie di “micro-alleanze”, di rapporti bilaterali
formalizzati in strutture specifiche, con paesi ben al di fuori dei suoi originari “confini
geografici” e in via di continua espansione: i Partnership Frameworks.
L’architettura delle Partnerships, in un primo momento finalizzata a preparare una base
formale e collaborativa in vista delle future fasi di allargamento, si è costruita gradualmente
un proprio ruolo all’interno della struttura istituzionale atlantica, includendo sempre più
Partners in format regionali specifici, ognuno dei quali è stato orientato a stabilire con essi un
rapporto collaborativo essenzialmente pratico e tecnico, in vista di obiettivi di riforma in
senso democratico e d’interoperabilità all’interno delle loro istituzioni nazionali. La
peculiarità più rilevante di tale assetto è probabilmente costituita dalla crescita progressiva
del suo ruolo nella stessa strategia NATO, fino a rappresentare un principio-chiave per la
visione generale della nuova sicurezza euro-atlantica nei Concetti Strategici degli ultimi anni.
E nello specifico, se da un lato tali frameworks collaborativi sembrerebbero esaltare le
variabili migliori del funzionamento delle organizzazioni internazionali, come la condivisione
di valori liberali e democratici, la spinta naturale verso la cooperazione fra stati, maggiori
benefici e meno rischi per tutti o il mantenimento più facilitato di un ordine pacifico, dall’altro,
tuttavia, potrebbero ricondurre ad alcune forme più tradizionali delle relazioni interstatali, in
particolare per gli obiettivi che vi potrebbero essere sottesi e che ne giustificherebbero un
simile dispendio di risorse. Per quali motivi gli Alleati avrebbero deciso di estendere nel
6
tempo sempre più questi assetti di collaborazione, investendovi risorse, strutture, e un
aumento generale di commitment, in regioni geografiche distanti anche migliaia di chilometri
l’una dall’altra? Come potrebbero essere inquadrate e quale ruolo potrebbero giocare,
nell’ottica dell’evoluzione istituzionale stessa della NATO?
L’analisi che segue nelle prossime pagine rappresenta un modesto tentativo di rispondere a
tali quesiti e, in generale, di collocare una possibile valutazione della forma “anomala”
acquisita dall’Alleanza Atlantica, dalla fine della Guerra Fredda in poi, nel dibattito teorico
contemporaneo delle relazioni internazionali. Nello specifico, si è scelto di sviluppare un
confronto fra le due scuole di pensiero più rilevanti, l’istituzionalismo neoliberale e il
neorealismo, entrambe fondamentali per comprendere il peso della NATO all’interno di
questo discorso, soprattutto per la ricca letteratura conseguente alle discussioni, prodotte a
tale proposito, fra le due correnti teoriche. La mancanza di studi teorici specifici e significativi
sul sistema delle Partnerships, diversi cioè dai documenti ufficiali dell’Alleanza o dei report ad
essi legati, ha avuto come conseguenza un tentativo interpretativo aggiuntivo sulla loro
funzione, attraverso appunto i filtri di questi due indirizzi di pensiero, al fine di formularne
un’ipotetica valutazione teorica, potenzialmente valida anche per comprendere in maniera
più approfondita la funzione della NATO nel XXI° secolo.
Il primo capitolo sarà dedicato ad un’introduzione generale sulle trasformazioni abbracciate
da quest’ultima a partire dal 1989, considerandone l’aspetto prettamente militare, riferito
cioè alla nuova tipologia di missioni internazionali intraprese, e quello relativo al gioco di
interessi e responsabilità, soprattutto statunitensi, che si sono sovrapposti negli anni. Accanto
ad essi, un ruolo primario è rivestito dalla forma stessa della NATO e dai cambiamenti
istituzionali che ha subìto, evolvendosi da alleanza militare pura a organizzazione
internazionale complessa. Ed è in questa evoluzione che si può individuare l’utilizzo di due
strumenti politici particolari, per l’appunto, il processo di enlargement e l’architettura delle
Partnerships. Seguirà poi una descrizione di queste ultime, rispettivamente alla loro variegata
composizione, ai principi fondanti e all’insieme delle numerose attività, sviluppate grazie ad
esse, che contraddistinguono la collaborazione pratica fra Alleati e Partners.
Nel secondo capitolo verrà invece presentata l’interpretazione istituzionalista: partendo da
un’analisi dei suoi assunti di base, si potrà osservare come, attraverso il contributo di autori
come Keohane e Wallander, la NATO contemporanea sia considerata una delle istituzioni di
maggior successo, grazie anche alla presenza di certe caratteristiche istituzionali originarie,
che le hanno consentito di divenire realmente importante per una gestione globale della
sicurezza, oltre che durare e rafforzarsi nel tempo. Accanto quindi alle garanzie permanenti di
collaborazione che da essa derivano, il sistema delle Partnerships potrebbe rappresentare
un’ulteriore conferma del valore unico prodotto dalle organizzazioni per la sicurezza
interstatale, grazie ai benefici economici e politici generali conseguenti ad una simile
collaborazione pratica, alla spinta per le riforme democratiche e militari e, da non
sottovalutare, al possibile sviluppo di una sorta di “comunità pluralistica di sicurezza” fra gli
Alleati e i Partners, paesi cioè per la maggior parte in fase di transizione o con carenze nelle
istituzioni democratiche nazionali: la formalizzazione di queste relazioni bilaterali è infatti
accompagnata dalla diffusione di quell’insieme di valori e norme della tradizione liberale
7
occidentale, che sembrerebbero produrre una progressiva socializzazione e
“standardizzazione”, al punto da raggiungere una piena integrazione nella cultura politica fra i
vari paesi partecipanti alle Partnerships e i rappresentanti dell’area euro-atlantica.
Successivamente, l’analisi della corrente neorealista, nelle sue diverse varianti, sarà al centro
del terzo capitolo: attraverso questa prospettiva, la continua sopravvivenza della NATO viene
vista invece come un’ennesima conferma dello sfruttamento delle istituzioni internazionali, da
parte degli attori statali e, in particolare, dei più influenti nel sistema, come gli Stati Uniti, per
soddisfare i propri interessi, di sicurezza e di massimizzazione dei guadagni relativi. Lo stesso
sviluppo delle Partnerships, implicante un’estensione notevole delle responsabilità e dei costi
da sostenere da parte degli Alleati, potrebbe essere giustificato solo perché rispondente ad
una precisa utilità strategica per tutti gli attori coinvolti, sia Membri, sia Non-Membri, i quali,
rispetto ai primi, avrebbero tutti i benefici per partecipare attivamente ad una simile struttura
collaborativa pratica, soprattutto perché non richiede l’osservanza di requisiti rigidi e ne
garantisce perciò una sostanziale autonomia nelle scelte di politica estera. La visione realista
più strutturale, tipicamente Waltziana, viene così accompagnata da una a più livelli, in cui
terza e seconda dimensione si intrecciano fra loro, per arrivare a comprendere in maniera più
approfondita come gli attori e, in particolare i Partners, valutano la NATO e i suoi frameworks
collaborativi, in linea con il loro contesto situazionale e le strategie a loro disposizione per
raggiungere i propri core interests.
Infine, nell’ultimo capitolo verrà sviluppata una sintesi delle due interpretazioni, attraverso
un confronto fra gli assunti su cui tendono maggiormente a distanziarsi l’una dall’altra e i loro
rispettivi punti di forza, non solo secondo una prospettiva teorica generale, ma anche
rispettivamente alle ipotesi esplicative del fenomeno in esame. Si concluderà l’analisi invece
con una valutazione della spiegazione più convincente in proposito, quella cioè che, a parer
mio, attraverso un’ulteriore indagine, sia teorica sia empirica, potrebbe essere effettivamente
confermata.
L’articolato e variegato sistema delle Partnerships sviluppato dall’Alleanza Atlantica, sebbene
possa essere considerato un fenomeno comunque contenuto rispetto all’estrema complessità
della politica internazionale contemporanea, può rappresentare tuttavia un elemento
interessante per indagare se, nella formazione dei rapporti collaborativi fra stati, sia
attraverso la costituzione di alleanze sia di assetti istituzionali, ancora oggi tornerebbero a
ripetersi certe tendenze costanti nella storia delle relazioni internazionali, come quelle che, ad
esempio, secondo il Sun Tzu rappresenterebbero singole parti dell’ordine generale delle cose,
o il primo fattore da considerare per la propria sopravvivenza, il Tao, e il suo risultato
immediato, il caos, o anarchia.
8
Capitolo Primo
L’istituzionalizzazione della NATO nel dopo Guerra Fredda
Un’Alleanza in evoluzione: la NATO fra sicurezza europea e strategia americana
Un insieme limitato, ma vincente, di paesi occidentali, all’indomani del secondo conflitto
mondiale, decise di unirsi in un patto collaborativo di mutua difesa reciproca, una classica
alleanza militare, ma già dall’origine avente caratteristiche atipiche, come una struttura
militare integrata, funzioni e meccanismi organizzativi embrionali e una sede “istituzionale”
ufficiale.
Come i modelli delle alleanze storiche, ovvero forme cooperative di aggregazione di potenza,
dal carattere formale, fra singoli stati, uniti da obiettivi di sicurezza di natura militare e spesso
da ideologie in comune
2
, la costituzione della NATO prevedeva infatti la convergenza degli
interessi degli alleati verso una finalità comune, rappresentata dalla difesa da un nemico forte
e riconoscibile, e la guida da parte di un alleato più influente, il leader dell’alleanza. Il
raggiungimento di tale fine implicava però la necessità di un compromesso fra i diversi
partners strategici: una parte della propria libertà d’azione e della propria sovranità dovevano
essere riposte nella difesa della causa comune e dell’alleato, in particolare se più forte, poiché
era l’unico modo per garantirsi la sopravvivenza e per riportare il sistema in equilibrio, come
infatti furono costretti a fare i paesi europei, a causa dell’estrema debolezza e della
distruzione conseguenti al secondo conflitto mondiale, con il tipico atteggiamento di
“bandwagoning” dei più deboli, nei confronti del partner con maggiori risorse, capacità,
influenza e potere, estremizzandone la visione teorica.
La formazione della Lega Ateniese nel V-IV secolo a.C. ne è un primo esempio storico ed ideal-
tipico, ma sempre efficace: la presenza di un nemico forte e aggressivo, come Sparta, nelle
vicinanze di diverse colonie, più orientate a concedere la loro fiducia alla città-stato di Atene,
determinò la loro convergenza forzata sotto l’ala “protettiva” di quest’ultima, permettendo
l’estensione del suo stesso impero, però anche al fine di mantenere l’equilibrio fra gli “amici” e
un conseguente controllo sul “tiranno”. L’obiettivo restava quindi primariamente difensivo:
ricercare la salvaguardia comune dalla minaccia, anche se imposta e dominata dal più forte,
Atene, che riuscì comunque a costruire gradualmente la sua egemonia a partire proprio da
questa esigenza di sopravvivenza
3
.
2
Cesa M. (2007), Alleati ma Rivali. Teoria delle Alleanze e Politica Estera Settecentesca, Bologna, Il Mulino, pp. 21-
47.
3
Tucidide (2005), Le Storie, Torino, UTET.
9
Oltre ad essere perciò strumenti di potere
4
, le alleanze storiche possono essere identificate
come «tools of management» e di condizionamento reciproco
5
, basate sullo squilibrio della
minaccia e dunque sulla costituzione di un balancing strutturale
6
, oppure sul bisogno di
ottenere profitti aggiuntivi
7
. Ed esse inoltre, dai tempi dell’antica Grecia a quelle Medievali e
Napoleoniche fino ai due conflitti mondiali, sono sempre state caratterizzate da un’ulteriore
particolarità, quella della flessibilità nella scelta degli alleati: una volta esaurita la minaccia
che aveva contribuito alla formazione di un patto o di un trattato fra due o più partners
strategici, questi ultimi si allontanavano reciprocamente, alla ricerca di nuovi alleati più utili
nel contrastare un nuovo pericolo: i “soci” venivano perciò scelti non tanto in base ad affinità
ideologiche o costitutive, bensì al loro immediato valore strategico e geopolitico e alle capacità
che potevano apportare nella lotta contro un nemico ritenuto pericoloso da entrambe le parti.
La “forma” della NATO ricalcava dunque, sin dalle sue origini, quella delle alleanze militari
storiche più solide che si sono succedute nei secoli, con una base formale costitutiva, la Carta
Atlantica; un obiettivo in comune fra tutti gli alleati, la sicurezza del continente europeo e, in
generale, dell’area euro-atlantica; un nemico definito contro cui salvaguardare questo
obiettivo, l’Unione Sovietica; infine, uno stato-guida che ne ha promosso la creazione, dotato
di influenza, capacità militari maggiori, in grado cioè di far funzionare l’alleanza in vista dello
scopo in comune, ovvero gli Stati Uniti.
Con l’obiettivo primario di difendere la sicurezza atlantica, ed in particolare quella europea, in
un momento di forte instabilità economica, politica e sociale, soprattutto per gli alleati del
Vecchio Continente, attraverso la NATO venivano posti perciò i principi, dal punto di vista
formale, per una sicurezza “cooperativa” e “condivisa”, sebbene una collaborazione militare
credibile fra i diversi Alleati sarebbe stata possibile solo nel momento in cui tutti avessero
raggiunto gli stessi standard militari (dal punto di vista degli equipaggiamenti, degli apparati
di sicurezza, del grado di tecnologia e delle risorse disponibili), fattori che resero gli Stati Uniti
i leader incontrastati dell’Alleanza per diversi decenni, grazie anche al possesso dell’arma per
eccellenza, quella atomica. Ecco allora delinearsi il ruolo storico della potenza statunitense: gli
stessi paesi europei erano consapevoli, infatti, della necessità di mantenerla engaged e
committed sul continente, la sola con le capacità e gli strumenti essenziali per provvedere ad
un ordine “imparziale” sul suolo europeo e per difenderlo da eventuali derive di potere o
attacchi esterni, vista comunque la schiacciante superiorità convenzionale sovietica.
La consapevolezza di questo ruolo di principale “balancer” del continente europeo ha
consentito inoltre agli Stati Uniti di essere accettati come potenza “legittima”, definita anche
come “benevola” da gran parte della letteratura negli anni successivi, per di più grazie alla
portata dei programmi di assistenza per l’Europa inaugurati dal 1946-47 in poi, e di potere
porre le fondamenta di una struttura di influenza e di autorità sempre più consolidata nel
tempo: un impero meno globale nelle prime fasi, ma più impegnativo ed influente, votato a
4
Morgenthau H. (1973), Politics among Nations: the Struggle for Power and Peace, New York, Knopf, pp. 173-228.
5
Schroeder P., Alliances, 1815-1945: Weapons of Power and Tools of Management, in Knorr K. (ed.) (1976),
Historical Dimensions of National Security Problems, Kansas University Press, pp. 227-262.
6
Walt S. (1987), The Origins of Alliances, Cornell University Press, pp. 1-49; 147-180; 262-285.
7
Schweller R., Bandwagoning for Profit: Bringing the Revisionist State Back In, «International Security», Vol. 19, I,
1994, pp. 72-107.
10
costruire un vero «ordine liberale occidentale»
8
. Un assetto molto complesso da gestire, ma
allo stesso tempo “gestibile” in diversi suoi aspetti, da parte di un solo leader nella fase della
propria massima espansione, politica, economica e militare. Nella governance della NATO,
infatti, si tendeva ad adattare i principi alla base della propria strategia fondamentalmente a
seconda dei cambi alla presidenza e delle conseguenti variazioni nella dottrina di sicurezza
statunitense
9
, appunto perché erano gli unici, fra gli Alleati, in grado di affrontare
direttamente il nemico sovietico. Bisogna ricordare, tuttavia, che la storia dell’Alleanza
Atlantica risulta essere contraddistinta ciclicamente da diversi momenti di crisi e di divisione
acuta fra gli interessi strategici degli Alleati, corrispondenti in larga parte ai momenti di
massima tensione fra i due avversari della Guerra Fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica, i
quali non esitarono a confrontarsi sul piano militare, oltre che su quello politico, mantenendo
la possibilità estrema e sempre costante dell’utilizzo dell’arma atomica da parte di uno dei due
o di entrambi, secondo un vero e proprio “equilibrio del terrore”
10
.
A questo punto, occorre sottolineare i punti-chiave del Trattato Atlantico, il simbolo del
compromesso formale fra gli Alleati, che permise in primo luogo la formalizzazione della
struttura militare integrata negli anni Cinquanta, malgrado appunto le forti tensioni fra le
diverse posizioni ed interessi dei Membri sulla strutturazione della propria sicurezza.
L’Articolo 3, ad esempio, ha permesso la convergenza delle visioni contrapposte sulle
responsabilità alleate in riferimento al funzionamento stesso dell’Alleanza, con gli Stati Uniti
legati al concetto di “self-help”, mentre gli Europei a quello di “mutual aid”. La natura
“collettiva” della preservazione della sicurezza e dell’integrità del territorio nazionale, invece,
trova spazio nel pilastro costitutivo della NATO, l’Articolo 5, attorno al quale ogni sua attività
deve convergere ed equipaggiarsi: la difesa reciproca e concordata, con ogni mezzo possibile,
incluso quello militare, del territorio dei Membri, in caso di attacco da parte di un attore
esterno, o interno, ad essa; quest’articolo ha sancito inoltre la nascita degli organi principali
dell’Alleanza, il North Atlantic Council, al livello più alto e con potere decisionale finale, e il
Defence Committee. Fondamentale risulta inoltre l’Articolo 9, il quale determina il potere del
NAC di creare tutti gli ulteriori comitati e organi necessari per l’implementazione del Trattato,
configurandone così un cambiamento open-ended in durata e permanente. L’origine della
cosiddetta “Open-door Policy”, invece, si trova enunciata nell’Articolo 10, il quale invita gli
Alleati ad aprire le porte della membership ad un qualsiasi altro paese lo desideri e che risulti
essere potenzialmente utile in vista dell’obiettivo di difesa dell’area euro-atlantica
11
.
8
Del Pero M. (2011), Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il Mondo, 1776-2011, Bari, Editori Laterza, , pp. 290-292.
9
Successivamente alle prime forme del containment del Presidente Truman, la NATO adottò infatti il “New Look
“di Eisenhower, e la relativa strategia di “Massive Retaliation”; l’accettazione dello status-quo bipolare fra i due
blocchi avvenne invece con l’utilizzo della “Flexible Response” di Kennedy, e l’avvio della lunga fase di “détente”,
dopo il picco di massima pericolosità del conflitto raggiunto con la crisi missilistica di Cuba. La deterrenza
proseguì fino all’Amministrazione Reagan, con il quale si passò quasi ad una “seconda Guerra Fredda”, e
l’inasprirsi della tensione in molti ambiti. Con l’arrivo di Gorbačëv alla guida del Partito Comunista sovietico, e il
conseguente “Reagan reversal”, si concluse invece definitivamente il conflitto bipolare, con il crollo del Muro di
Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’URSS nel 1992. Si vedano: Thies W. J. (2009), Why NATO Endures, New
York, Cambridge University Press, e Del Pero, op. cit.
10
Thies, op. cit.
11
NATO Official Text: The North Atlantic Treaty, Washington, April 4
th
1949:
http://www.nato.int/nato_static/assets/pdf/stock_publications/20120822_nato_treaty_en_light_2009.pdf