Lucia Compare
I parti con taglio cesareo: alla ricerca delle determinanti territoriali e sociali
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Introduzione
Il quadro dell’andamento delle nascite e del parto in Italia è
abbastanza complesso. Al di là della drastica riduzione della
natalità, che è diminuita quasi del 50 % dagli anni ’60 ad
oggi, è aumentata l’età media delle donne alla nascita del
primo figlio e le gravidanze delle ultratrentacinquenni.
L’età e l’istruzione sono fattori che incidono notevolmente
sulle scelte fatte nel corso della gravidanza e al momento del
parto, ma un altro importante fattore è la provenienza
geografica. Secondo i dati del Ministero della Salute, con
l’aumentare dell’età alla nascita del primo figlio si registra
una maggiore informazione e determinazione sulle scelte da
prendere, ma d’altra parte anche una maggiore
medicalizzazione. Nel biennio 2004-2005 il numero medio di
ecografie effettuato dalle donne in gravidanza è stato di 5,5,
e il 29% ne ha effettuate 7, contro la raccomandazione di 3
del Ministero della Salute.
Un dato molto importante è quello relativo ai tagli cesarei
che registrano un costante aumento nel corso degli ultimi
anni, raggiungendo il picco nelle regioni meridionali, in
particolare in Campania dove una donna si tre partorisce in
sala operatoria. Questa è la percentuale piø alta fra tutti i
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Paesi dell’Unione Europea, superando abbondantemente
quella raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità (il 15-20%). E’ necessario valutare con attenzione
l’eccessivo ricorso al taglio cesareo. Tutto parte da un falso
luogo comune: che il cesareo preservi il nascituro da
eventuali rischi legati al parto. Bisogna sfatare questa
convinzione. Un parto non spontaneo, se non ce ne sono i
presupposti medici, è un rischio per la mamma e per il
bambino. La maggioranza degli studi convergono
nell’associare al taglio cesareo un rischio di mortalità
materna pari a 2-4 volte il rischio medio, un aumento di
complicazioni per la salute della madre e un piø alto rischio
di mortalità perinatale.
Inoltre, sempre piø l’età della madre viene indicata come un
fattore per ricorrere al cesareo. E’ vero che in Italia le donne
diventano madri intorno agli “anta” ed è indiscutibile, dal
punto di vista medico, che le donne dovrebbero
riappropriarsi di una maternità quando sono piø giovani. Per
quanto riguarda il cesareo, è vero che interessa le donne
avanti con gli anni. Oltre la metà delle donne quarantenni
partorisce con il taglio cesareo. Ma la recente indagine Istat
sul pianeta parto in Italia ha altresì messo in evidenza come
un terzo delle donne con meno di 25 anni mette al mondo un
bimbo con l’aiuto del bisturi. Ancora una volta ci si
nasconde dietro un alibi per mascherare un comportamento
sbagliato. Considerando le donne, invece, si dice che siano
loro a chiedere sempre piø di partorire con il cesareo, per
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tutelare il bimbo ma anche per non soffrire. Altro luogo
comune da sfatare. Sempre l’indagine Istat dimostra come su
100 donne sono ben 88 quelle che preferiscono il parto
vaginale a quello spontaneo. E non solo quelle che non
hanno mai partorito e che quindi non sanno a cosa vanno
incontro. Tra quante hanno avuto un parto spontaneo con o
senza anestesia, solo il 5 per cento avrebbe preferito un
cesareo se avesse potuto scegliere. Netta la preferenza per il
parto naturale anche fra le donne che hanno avuto un cesareo
(75%). Ma cos’è il parto cesareo? Esso identifica una
modalità di parto che prevede l’estrazione del feto
direttamente dall’addome della mamma, attraverso
un’incisione delle pareti addominale ed uterina. A differenza
del parto fisiologico, il parto con cesareo viene generalmente
programmato (nel caso, ad esempio, di gravidanze
gemellari), ma può anche inaspettatamente seguire
un’induzione oppure essere effettuato d’urgenza, qualora
insorgano complicazioni per la vita della mamma o del
nascituro. Tecnicamente l’operazione prevede la
somministrazione di un anestetico locale, la cosiddetta
anestesia peridurale (o epidurale) che addormenta la donna
dalla vita in giø. In alcuni casi l’anestesia può anche essere
generale. Tale parto, rende meno naturale l’evento della
nascita, e, ancora, piø difficile e lento il contatto tra madre e
bambino.
L’obiettivo di questo lavoro è analizzare tendenze e
determinanti dell’eccessivo ricorso al taglio cesareo in Italia
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e di valutare la capacità delle donne di contrastare questa
tendenza. A tal fine, in primo luogo, sarà effettuato uno
studio sull’andamento della fecondità approfondendo la
tematica del parto cesareo; esso si conclude con un tentativo
di sintesi del quadro presentato attraverso l’analisi in
componenti principali. Nel secondo capitolo saranno studiate
le determinanti territoriali e sociali del taglio cesareo a
livello nazionale attraverso un’analisi statistica descrittiva
cui farà seguito un modello di regressione logistica binaria
per evidenziare l’incidenza di ciascun fattore di rischio
controllando gli altri. Infine, nel terzo capitolo, saranno
effettuate dapprima confronti a livello regionale tra due
realtà estreme, la prima con la maggiore frequenza di cesarei
(Campania), l’altra con la minore (Friuli V. G.). Di seguito il
discorso sarà approfondito confrontando il comportamento
della regione Campania con la prima regione, tra quelle di
dimensione demografica adeguata, che presenta il minor
ricorso al cesareo: la Lombardia. Il metodo utilizzato anche
in questo caso è il modello di regressione logistica binaria.
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Capitolo 1
Il percorso della nascita:
presentazione ed evoluzione temporale degli indicatori che lo influenzano
I Parte : evoluzione recente della fecondità
1.1 Il declino della fecondità
Il drastico calo delle nascite che ha interessato per 30 anni
(dal 1965 al 1995) l’Italia, la recente ripresa della natalità e
della fecondità rappresentano temi di grande interesse, non
solo per ragioni demografiche, ma anche per le loro
ripercussioni sociali ed economiche poichØ il fenomeno ha
importanti conseguenze sul “sistema popolazione” del nostro
Paese. Dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni
settanta la fecondità italiana si era sempre mantenuta sopra il
livello-soglia di due figli per donna: senza raggiungere valori
particolarmente elevati aveva comunque assicurato il pieno
ricambio delle generazioni. Solo nel corso di una breve
stagione (1963-69), ricordata in seguito come l’epoca del
babyboom, si superarono i 2,5 figli per coppia. Poi, per
quindici anni, una sistematica diminuzione: nel 1977 la
fecondità italiana scese sotto la soglia dei 2 figli per donna,
senza accennare a fermarsi negli anni successivi. Nel 1995 si
è toccato il minimo storico di 1,19 figli per donna, mentre a
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partire dalla seconda metà degli anni novanta è in atto una
lieve ripresa, che per quanto timida, merita comunque grande
attenzione. ( Stefano Molina, 2004 ).
Grafico 1.1 - Evoluzione della fecondità in Italia
1000
1100
1200
1300
1400
1500
1600
1700
1800
1980
1982
1984
1986
1988
1990
1992
1994
1996
1998
2000
2002
2004
Di seguito sono riportati i valori della fecondità per
ripartizione e per singola regione in diversi anni. Sia la
tabella ( tab. 1.1 ) che il grafico ( graf. 1.2 ) evidenziano
quello che gli osservatori meno premurosi sembrano
ignorare, ovvero la tendenza delle regioni italiane alla
convergenza verso bassi valori del tasso di fecondità. Si può
notare il leggero incremento dei tassi di fecondità al Centro-
Nord ed in particolare come in alcune regioni, quali la
Liguria e l’Emilia Romagna, si sia passato da valori inferiori
all’unità a valori che addirittura superano il tasso di fecondità
degli anni ottanta. Dal 1995 al 2005 il TFT è passato al Nord
da 1,04 a 1,31, al Centro da 1,07 a 1,26. A tale incremento si
contrappone il continuo declino della fecondità nelle regioni
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del Sud, dove il TFT è sceso da 1,38 a 1,31, evidenziando
come queste non siano piø in grado di ricoprire il ruolo di
riserva compensatoria del saldo riproduttivo nazionale. In
relazione a questi cambiamenti il tasso nazionale è salito da
1,18 a 1,31. Negli stessi anni in Campania il TFT è sceso da
1,52 a 1,44, rimanendo comunque ancora tra i piø alti delle
regioni italiane, escluso il Trentino Alto Adige.
Grafico 1.2 – Evoluzione della fecondità per ripartizione
Tabella 1.1 – Evoluzione della fecondità per regione
Regione 1980 1986 1995 2005
Piemonte 1340 1090 1046,3 1257,8
Valle d'Aosta
1370
1132 1096,3 1203,4
Lombardia
1400
1134 1068,3 1323,6
Trentino A.A. 1666 1391 1346,0 1527,2
Veneto 1453 1158 1068,7 1333,2
Friuli V.G.
1250
1019 957,9 1217,8
Liguria 1110 962 932,2 1170,2
Emilia
Romagna 1179
951 968,2 1344,5
Toscana 1320 1062 986,5 1261,7
0
0,5
1
1,5
2
2,5
nordovest nordest centro sud isole
1980
1986
1995
2005
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Umbria 1491 1230 1066,9 1313,3
Marche 1518 1246 1105,0 1276,7
Lazio 1594 1273 1119,7 1258,1
Abruzzo 1738 1438 1158,6 1208,8
Molise 1824 1530 1198,4 1124,3
Campania
2350
1925 1516,5 1425,1
Puglia 2244 1710 1343,7 1272,5
Basilicata 2040 1683 1251,8 1149,0
Calabria 2250 1828 1311,8 1233,6
Sicilia 2220 1845 1473,8 1405,9
Sardegna 1995 1480 1084,4 1047,1
ITALIA 1680 1370 1184,4 1310,5
Quasi sempre in Italia il dato medio nazionale è il risultato di
una combinazione di valori regionali piuttosto diversi tra
loro. Così anche per la fecondità: si possono individuare
regioni in cui essa si presenta in misura ancora piø ridotta. Il
valore relativo a Liguria, Emilia Romagna e Friuli Venezia
Giulia è piø volte sceso sotto il livello di un figlio per coppia,
cui corrisponde un teorico dimezzamento delle generazioni.
Negli ultimissimi anni, però, diverse regioni settentrionali,
tra cui anche quelle prima citate, stanno mostrando timidi
segni di ripresa: è ancora prematuro per capire se si tratti di
movimenti oscillatori o di una vera e propria inversione di
tendenza. In compenso nelle regioni meridionali continua
ininterrotto il declino: anche quelle tradizionalmente piø
feconde (come Campania e Sicilia) si collocano ormai al di
sotto della media di 1,5-1,6 figli per coppia che attualmente
contraddistingue le popolazioni dell’Europa occidentale.
(tabella 1.1).