È doveroso ricordare sin d’ora come l’uso della forza contro lo Stato e, a volte,
contro la stessa società egiziana sia lontano dall’esaurire le manifestazioni in cui
l’opposizione islamista si articola. I Fratelli Musulmani, ad esempio, ne incarnano la
componente riformista, attiva nelle imprese islamiche, nelle associazioni professionali e
nella politica parlamentare, sebbene il governo egiziano abbia sempre negato loro uno status
legale e legittimo. Da questa posizione di illegalità, essi sono comunque in grado di
esercitare l’opposizione più credibile al governo ventennale del Partito Nazionale
Democratico.
Dalla fine degli anni Ottanta, il governo egiziano ha iniziato ad opporre una
repressione accanita e indiscriminata a tutte le manifestazioni dell’attivismo islamico. A
partire dal 1988, provvedimenti legislativi hanno colpito le imprese economiche islamiche e
le associazioni professionali, i cui consigli esecutivi sono saldamente nelle mani dei Fratelli
Musulmani e, in generale, della tendenza islamista moderata. Contemporaneamente, il
governo ha rifiutato qualsiasi richiesta – inoltrata tanto dagli islamisti moderati, quanto da
formazioni laiche della società civile egiziana – di riformare il sistema elettorale. Questo
atteggiamento ha portato i partiti di opposizione, laici e religiosi, a boicottare le elezioni
parlamentari del 1990. Nella seconda metà della presidenza Mubarak, gli episodi di arresti
di massa, torture e processi sommari si sono succeduti a danno sia dei Fratelli Musulmani
sia di esponenti dei gruppi radicali.
Nell’interpretazione di numerosi osservatori, il successo del movimento islamista
nella società egiziana degli ultimi venti anni – per alcuni, anche il ritorno della violenza
negli anni Novanta – è un fenomeno che non sorprende, poiché le cause che lo hanno posto
in essere sono ancora valide e nessuna forza di opposizione alternativa è apparsa sulla scena.
Si tratta semmai di comprendere la complessità di un fenomeno simile individuando, ad
esempio, quali logiche e quali meccanismi leghino la componente islamista moderata a
quella radicale, in un’arena politica in cui gli attori non sono soltanto il governo e i
movimenti islamisti. Infatti, la politica governativa di contenimento di questi gruppi e del
favore diffuso di cui gode il loro messaggio nella società ha affidato la sua efficacia, fra
l’altro, all’azione di un terzo attore, Al-Azhar. L’istituzione religiosa millenaria è stata
chiamata a legittimare, da un punto di vista islamico, le scelte politiche del governo contro
un’opposizione che proprio nella tradizione islamica ha preteso di trovare la sua radice e il
suo linguaggio. Secondo molti osservatori, questa strategia di Mubarak ha finito per favorire
il messaggio islamista – nella sua versione riformista soprattutto – più di quanto l’abbia
contenuto. Sicuramente, ha accordato ad Al-Azhar un ruolo chiave nella politica egiziana.
L’escalation di violenza e di ostilità che ha caratterizzato l’attivismo islamico dalla
prima metà degli anni Novanta indica che i militanti islamisti sono stati sufficientemente
potenti da sfidare l’organizzazione statale e di imporre la propria presenza nella società.
Causa di questa forza è anche l’inefficacia dell’azione del governo a fronte dei drammatici
bisogni di segmenti sempre più vasti della società e l’inadeguatezza della sua strategia di
repressione indiscriminata. Su questi fattori se ne sono innestati altri di tipo regionale e
internazionale, fra cui spiccano l’impulso alla rivendicazione islamista che la questione
arabo-israeliana è in grado di esercitare e le evoluzioni dei movimenti islamisti che riescono
ad operare a livello transnazionale.
Sul piano interno, il forte sentimento religioso della società egiziana agisce a volte
da sistema di supporto su cui l’islamismo può radicarsi e riprodursi. Ne consegue una netta
polarizzazione del discorso politico e sociale fra islamisti e secolaristi, che ha portato a un
numero crescente di scontri – violenti o verbali – fra il regime e i fautori dell’alternativa
islamica e fra islamisti e attori laici nella società. Conseguentemente, il numero di incidenti
ha raggiunto livelli sconosciuti prima degli anni Novanta.
Il lavoro richiesto da questa ricerca è stato organizzato in modo da rendere, almeno in
parte, la complessità del fenomeno analizzato. Necessariamente, una prima parte della tesi è
stata dedicata ad introdurre, storicamente e concettualmente, il fenomeno islamista. Nel
Capitolo 1, si analizzano i prodromi dell’attivismo islamico contemporaneo così come esso
si è prodotto nel mondo musulmano. Vi si riportano gli assunti dell’ideologia islamista e le
fasi del suo avvento. Ancora, vi si considerano le diverse e, a volte, contrastanti teorie che
osservatori arabi e occidentali hanno approntato per spiegare le cause del successo di questa
ideologia a livello mondiale. L’ultimo paragrafo del Capitolo 1 introduce l’Associazione dei
Fratelli Musulmani, l’attuale ala riformista dell’islamismo egiziano. Se ne ripercorrono le
vicende a partire dal 1928, anno in cui venne fondata da Hassan al-Banna, e ne vengono
riportati i caratteri ideologici e politici. Il Capitolo 2 è dedicato al lungo e importantissimo
periodo storico che va dall’epoca di Nasser alla presidenza Sadat. Viene qui analizzato il
pensiero di Sayyid Qutb, l’ideologo più importante del movimento islamista egiziano della
seconda metà del XX secolo. Durante il regime di Nasser, da cui venne condannato a morte,
sistematizzò il pensiero radicale su cui i militanti estremisti avrebbero fondato la propria
azione a partire dagli anni Settanta. Fu Qutb che, rompendo con la tradizione
dell’Associazione dei Fratelli Musulmani – cui per altro aderì – dotò il movimento islamista
egiziano di un’ideologia compiutamente rivoluzionaria. Nello stesso capitolo, si dà un certo
spazio all’analisi del periodo della presidenza Sadat e in particolare delle sue politiche
innovative. Vengono prese in considerazione le scelte del presidente: dal nuovo corso di
politica economica (Infitah), all’avvicinamento all’orbita statunitense, alla tiepida
liberalizzazione, fino alla pace con Israele. Con la frustrazione per la sconfitta nella Guerra
dei Sei Giorni del 1967 mai risolta, queste politiche provocarono importanti dinamiche nella
società egiziana, con risvolti decisivi per l’affermazione di nuove tendenze islamiste. Il
capitolo si conclude con l’analisi di nuovi gruppi radicali attivi negli anni Settanta, la cui
ideologia è fortemente debitrice del pensiero di Sayyid Qutb.
Nel Capitolo 3 consideriamo il ruolo decisivo dei Fratelli Musulmani
nell’opposizione islamista dell’Egitto di oggi. Ne viene analizzato l’impegno nel tentativo di
cambiare lo status quo dell’ordinamento politico egiziano a partire da un’ideologia
pragmatica e riformista. In questo senso, se ne ripercorrono le fasi che hanno condotto
all’abbandono definitivo di ogni velleità rivoluzionaria in favore di un’azione di educazione
diffusa nella società e di impegno a livello parlamentare. Gli obiettivi specifici
dell’Associazione vengono altresì presi in considerazione così come i dubbi sulla credibilità
del suo approccio moderato avanzati da diversi autori. Anche il Capitolo 4 è dedicato ai
Fratelli Musulmani. Innanzitutto, vi è considerato l’impegno che l’Associazione ha portato
avanti negli anni Ottanta a livello parlamentare. Le elezioni del 1984 e del 1987 hanno
infatti consentito l’ingresso in Parlamento di candidati dei Fratelli Musulmani.
Contestualmente, si mettono a fuoco le alleanze politiche che durante quel decennio essi
sono stati costretti a stringere, stante il rifiuto di Mubarak di riconoscere loro uno status
politico legale. Consideriamo quindi come essi abbiano partecipato alle elezioni
presentandosi come candidati nelle liste di partiti laici. L’ostracismo imposto ai Fratelli
Musulmani nelle elezioni parlamentari non ha trovato corrispettivo in quelle delle
associazioni professionali. Nei consigli direttivi di queste ultime, l’Associazione detiene
maggioranze nette a partire dalla fine degli anni Ottanta. Nel secondo decennio della
presidenza di Mubarak, il governo ha imposto un giro di vite alla tolleranza accordata ai
Fratelli Musulmani, tanto a livello della loro politica parlamentare quanto nella loro opera di
radicamento nella società. Anche questo viene spiegato nel Capitolo 4.
La tendenza radicale e violenta dell’attivismo islamico in Egitto è introdotta nel
Capitolo 5. Il primo paragrafo è dedicato a chiarire il valore che il concetto di jihad assume
nell’Islam e vi si specifica la particolare ed estrema forma di jihad armato che i gruppi
radicali fanno propria. Segue un’analisi delle nuove tendenze che si sono prodotte in seno ai
diversi gruppi islamisti che perseguono la lotta allo Stato laico attraverso la violenza: i
mutamenti nelle strategie, le tecniche di reclutamento e il retroterra sociale dei militanti
hanno subìto alcune significative variazioni dagli anni Settanta. Si può registrare inoltre una
nuova tendenza all’internazionalizzazione dei gruppi radicali. Nello stesso capitolo,
vengono riportate una breve cronaca e un’analisi di alcuni fatti di sangue indicativi della
strategia e della tattica delle diverse formazioni radicali. Ancora, si procede a un’analisi di
al-Jihad, il gruppo che organizzò ed eseguì l’attentato a Sadat e che, dopo un periodo di
relativa debolezza, si è oggi riaffermato sulla scena egiziana e internazionale. Il Capitolo 6 è
dedicato al gruppo radicale attualmente più potente: la Gama’at al-Islamiyya. Nata
dall’unione di diverse formazioni che negli anni Settanta operavano esclusivamente
all’interno delle università, la Gama’at è oggi attiva a diversi livelli della società, tanto al
Cairo quanto in Alto Egitto. Ne analizziamo l’ideologia, la struttura organizzativa e le
tecniche di azione, anche in riferimento alle differenze con quelle di al-Jihad. Nel medesimo
capitolo viene infine proposto un excursus sui gruppi islamisti minori che, spesso, si sono
prodotti da fratture interne alla leadership di al-Jihad o della Gama’at al-Islamiyya.
Nel Capitolo 7, analizzeremo il ruolo di Al-Azhar, una delle più antiche e importanti
istituzioni religiose del mondo musulmano, ha nelle politica egiziana di oggi. Una breve
introduzione storica della moschea e università del Cairo viene fatta nel primo paragrafo in
cui si considera il rapporto che essa ha tradizionalmente avuto con il potere politico. Un
riferimento particolare è dovuto alla riforma nasseriana che rese gli ulama (dotti islamici) di
Al-Azhar dipendenti dall’amministrazione pubblica e che legò indissolubilmente
l’istituzione religiosa al regime politico. Con Mubarak questo rapporto non è venuto meno
ma ha assunto nuove forme. Negli ultimi venti anni, Al-Azhar ha avuto un ruolo
determinante nella strategia del governo volta a ridimensionare il favore che larghi
segmenti della società hanno accordato all’ideologia islamista. Le fatwa (decisioni legali)
degli ulama di Al-Azhar hanno periodicamente giustificato e legittimato da un punto di
vista religioso le scelte politiche del governo. Ne è risultato un certo potere dell’istituzione
religiosa e una sua maggiore autonomia dal governo rispetto ai tempi di Nasser e di Sadat.
Infine, insieme al ruolo di Al-Azhar, analizzeremo il fenomeno della proliferazione delle
moschee private (ahliyya). Dagli anni Settanta e durante tutto il ventennio di Mubarak,
queste moschee – sfuggendo al controllo dello Stato – hanno costituito i punti nevralgici
della rete di diffusione dell’ideologia islamista.
Grazie a una borsa di studio che l’Università di Bologna mi ha assegnato, ho potuto
trascorrere due mesi al Cairo. In Appendice sono riportate le interviste che ho realizzato
durante il mio soggiorno in Egitto. Le prime due sono state condotte all’American
University in Cairo rispettivamente al Professor Walid Kazziha e al Professor Saad Eddin
Ibrahim. La terza è frutto di un colloquio con Nabil Abdel Fattah, ricercatore del Centro per
gli Studi Politici e Strategici di Al-Ahram, quotidiano egiziano pubblicato al Cairo. L’ultima
è con Montasser El-Zayyiet, avvocato islamista ed ex membro della Gama’at al-Islamiyya.
Infine, vorrei ringraziare la professoressa Emiliani per i preziosi consigli.
I. L’islamismo nell’Egitto contemporaneo
1. Introduzione all’islamismo
L’esposizione del fenomeno islamista in un preciso contesto storico e in un quadrante
geografico definito richiede, in via introduttiva, un lavoro mirato a precisare il significato
delle categorie concettuali di cui ci serviremo. Termini quali islamismo, integralismo
islamico, fondamentalismo islamico trovano spesso un’applicazione alternativa che non
rende conto delle specificità cui si riferiscono. D’altra parte, queste pretese di
intercambiabilità svelano la difficoltà di comprendere l’oggetto di analisi.
Nel linguaggio dei mass media occidentali la necessità di approntare categorie e
teorie che definissero e spiegassero alcune tendenze politiche e sociali in atto nel mondo
musulmano diventò una vera e propria urgenza sul finire degli anni Settanta. La
drammaticità di fatti occorsi in Medio Oriente in quel periodo si impose all’attenzione dei
governi e delle opinioni pubbliche di tutto il mondo. Il 1979 si aprì con l’ascesa al potere
dell’ayatollah Khomeini in Iran e si concluse con l’attacco alla Grande Moschea della
Mecca ad opera di un gruppo armato che si opponeva al controllo della dinastia saudita sui
luoghi santi dell’Islam. Gli accordi di Camp David del 1978 innescarono il processo di
radicalizzazione della lotta politica egiziana e mediorientale in generale che avrebbe trovato
il proprio compimento nell’assassinio di Sadat nell’ottobre del 1981. Contemporaneamente,
sommovimenti che sembravano adottare l’elemento religioso come crisma delle proprie
rivendicazioni si produssero in tutto il mondo musulmano, dal Medio Oriente arabo
all’Indonesia.
Gli anni Ottanta hanno testimoniato dello sforzo interpretativo volto a comprendere
queste dinamiche compiuto da molti studiosi sia occidentali sia arabi. Oltre
all’oggettivazione di molteplici aspetti di questo fenomeno insieme politico e religioso, ne è
derivato un rinnovato rigore terminologico. Con islamismo indicheremo sia una ideologia
politica sia l’insieme dei movimenti che propugnano l’instaurazione dello Stato islamico,
regolato secondo la loro interpretazione della legge santa (Shari�a) e considerato condizione
essenziale per il benessere della comunità musulmana (umma). Uniformemente alla
maggioranza degli autori di libri e saggi relativi alla materia, questo termine verrà qui
preferito tanto a fondamentalismo quanto a integralismo, seppure corredati dell’aggettivo
islamico. Entrambe queste voci vennero coniate, infatti, per definire dei movimenti cristiani
alla fine dell’Ottocento. Con fundamentalist si indicarono i gruppi protestanti evangelici
degli Stati Uniti; int�griste furono i movimenti cattolici dell’Europa meridionale. Islamismo
propone quindi una specificità culturale e religiosa che altrimenti perderemmo, senza
contare che molto spesso sono gli stessi islamisti (islamiyyun) a rivendicare un appellativo
che li contraddistingua dai semplici fedeli musulmani (muslimun). Ciò è necessario anche
per chiunque non voglia confondere – con le parole di Michel Camau – “un fenomeno
politico religioso a carattere congiunturale e una cultura più che millenaria”.
1
Senza che quest’ultima affermazione venga invalidata, rimane da chiedersi quanto sfumata
possa divenire questa distinzione allorché i fondamenti dell’ideologia islamista vengano
fatti propri da schiere sempre più numerose di popolazione nei paesi a maggioranza
musulmana e i movimenti islamisti possano aspirare a conquistare posizioni di governo. Per
rispondere a questo interrogativo è opportuno ricordare come la storia dell’Islam, fin dai
suoi albori, sia stata caratterizzata dalla comunione fra politica e religione che, pure, si è
prodotta in manifestazioni diverse e diversamente intense. A differenza del Cristianesimo
che teologicamente distingue fra sfera spirituale e sfera temporale (fra Dio e Cesare, si
potrebbe dire), l’Islam è una religione (din, la cui traduzione con religione è, in
realtà, parziale e poco fedele) che abbraccia ciò che nell’Occidente cristiano è la
politica: esso è regola di vita che esaurisce in sé tutti gli aspetti dell’esistenza umana, siano
pertinenti al foro interno, siano pertinenti al foro esterno.
2
D’altra parte, è necessario
indagare le ragioni specifiche che hanno portato il rapporto Islam-politica a vivere sotto le
forme che oggi conosciamo.
Assodata la poliedricità del fenomeno islamista – pure, diversamente connotabile – è
possibile rintracciare un’articolazione coerente dell’ideologia che ne muove i protagonisti,
1
Michel Camau, “Chronique politique de la Tunisie 1979”, Annuarie de l�Afrique du Nord, Parigi, CNRS, 1981, p. 620,
cit. in François Burgat, Il fondamentalismo islamico, Torino: Società Editrice Internnazionale, 1995, p.11.
2
Per una presentazione particolareggiata della teologia islamica, si veda Alessandro Bausani, L�Islam, Milano:
Garzanti, 1995, pp.15-36.
condivisa, nel suo nucleo, da tutte le manifestazioni in cui esso si presenta. Eccone i tratti
principali:
™ Islam din wa dawla: la separazione fra religione (din) e Stato (dawla) è inconcepibile e
perversa. L’Islam è un sistema totale (nizam) di esistenza, un’ermeneutica integrale.
“L’Islam è un ordine inclusivo che pertiene a tutti gli aspetti della vita”.
3
Lo Stato ha per
funzione principale quella di permettere al buon musulmano di condurre una vita
conforme alla religione e di prepararsi per l’aldilà.
™ Qu�ran wa Sunna: i fondamenti cui riferirsi sono il Corano e la Sunna, cioè la tradizione
in cui confluiscono i detti del Profeta (hadith) e le testimonianze dell’esempio della sua
vita, tramandate e canonizzate al tempo dei Califfi “Ben Guidati” (al-Khalifa ar-
rashidun), i primi successori del Profeta alla guida dell’Islam.
™ Sirat al-Mustaqim: la “via giusta”. L’ideale della comunità fondata da Maometto e dai
suoi compagni è il modello verso il quale il buon musulmano deve tendere.
™ La sovranità divina (hakimiyyah Allah) accompagnata dal governo della Shari�a.
L’ordine islamico (nizam al-Islami) ne sarebbe la conseguenza naturale.
™ Il jihad, la guerra santa, inteso sia nell’accezione di uno sforzo (questo il significato del
termine) interiore per conformarsi alla regola dell’Islam sia nella versione precisamente
militare di opposizione agli empi, agli apostati e agli infedeli.
4
™ L’umma universale: la propagazione dell’Islam si rivolge a tutta l’umanità. Il jihad è il
mezzo con cui l’autorità dei governanti, musulmani apostati e non musulmani, verrà
sostituita con la sovranità di Dio, che sola garantirà la libertà degli uomini “da se stessi e
dai propri desideri”.
5
Sulla via della costituzione dell’umma universale, lo Stato, i
sistemi sociali moderni e le tradizioni fuorvianti dall’esempio del Profeta sono ostacoli
che il mujaheddin (colui che intraprende il jihad) deve rimuovere.
™ Giustizia sociale: il benessere comune è il portato necessario del rigore morale e della
conformità all’Islam. La divisione della società in classi e le differenze eccessive di
3
Hassan al-Banna citato da O. Roy in Olivier Roy, The failure of political Islam, London: I.B. Tauris Publishers, 1994,
p. 41.
4
Secondo l’ideologia di molti gruppi islamisti, il jihad sarebbe il sesto pilastro dell’Islam (al-arkan al-Islam),
specialmente in un’epoca in cui la umma musulmana si trova sulla difensiva. Gli altri sono la doppia professione di fede
(shadada), il pellegrinaggio a Mecca (hajj) da intraprendere almeno una volta nella vita, l’osservanza del digiuno
(sawn) nel mese di Ramadan, l’elargizione dell’elemosina (zakat) e la preghiera ripetuta cinque volte al giorno (salat).
5
Sayyid Qutb, Milestones, Kuwait, International Islamic Federation, 1978, pp.110-118, cit. in Hrair Dekmejian, Islam
in revolution, New York: Syracuse University Press, 1985, p.45.
ricchezza sono ovviate tramite la zakat (elemosina) e l’ispirazione naturalmente equa
delle politiche nello Stato islamico.
™ Legittimità dei governanti: come nell’Islam delle origini essa discende dai requisiti di
merito e consenso (‘igma) del Khalifa, del reggitore dell�umma. I limiti entro cui egli
governa sono il Corano e in generale la Shari�a, la legge santa, e la consultazione
(shura).
™ Società puritana: la vita quotidiana deve conformarsi all’esempio del Profeta. La
famiglia è l’unità ideale della società: entro essa l’uomo ha la guida e la responsabilità,
mentre la donna è fonte di gentilezza e amore. La promiscuità dei sessi deve essere
controllata.
™ Teoria e pratica: gli islamisti rifiutano la mistica (sufismo) che si concentra
esclusivamente sulla preghiera e sulla contemplazione. L’ideologia deve diventare
prassi, fino ad articolarsi in un programma d’azione coerente (minhaj). Questo attivismo
implica l’applicazione della Shari�a a circostanze in evoluzione: ciò è possibile
attraverso lo sforzo interpretativo (ijtihad) diretto contro l’autorità statale e
l’establishment religioso. Non è auspicabile, quindi, un’imitazione pedissequa (taqlid)
della tradizione, ma un suo rinnovamento (tajdid).
All’ideologia come sopra articolata, affiancheremo un excursus sulle norme
comportamentali e quasi-rituali che – con le dovute differenze cristallizzate nelle tradizioni
regionali – individuano lo spettro di azioni tipiche dei membri dei gruppi islamisti.
Innanzitutto, noteremo un’osservanza stretta dei precetti della Shari�a
6
che si concretizza
nella preghiera ripetuta cinque volte ogni giorno da compiere in una moschea, nel
rispetto dei cinque pilastri dell’Islam e delle proibizioni religiose (come il divieto di
consumare alcolici). Un ulteriore carattere che si può riscontrare nella quotidianità dei
simpatizzanti e dei militanti islamisti è l’impegno assiduo nelle attività sociali, quali le
riunioni nelle moschee, specialmente private, non soltanto per pregare ma anche per
compiere meditazioni, insegnare e discutere in generale. Ne risulta anche una
moltiplicazione di associazioni caritatevoli, specialmente nei quartiere periferici delle grandi
6
Per la maggioranza dei Musulmani, la Legge Santa consta come minimo dei precetti coranici e della Sunna del
Profeta, ossia la sua tradizione (o il suo “contegno”) come tramandata nei secoli. In realtà, molti gruppi islamisti
disconoscono la legittimità della cosiddetta catena dei trasmettitori, ossia degli innumerevoli autori di commentari che
costituiscono il corpus della Sunna, considerando il solo Corano a base della Shari’a.
città. Vi è poi un fattore estetico decisamente diffuso che, con Kepel, potremmo definire una
“semiologia islamista”.
7
Si tratta di accorgimenti adottati nel modo di vestire o di
presentarsi che rispondono all’esigenza di creare un comune senso di appartenenza o che
sono considerati segni di devozione. Così, gli uomini indosseranno lunghe gallabiyyah
bianche e lasceranno crescere la barba, rasandosi il cranio. Le donne saranno coperte da
vestimenti abbondanti e dal velo (hijab), le cui forme variano da regione a regione.
Da ultimo, va considerato il tratto senz’altro più spinoso e di più difficile trattazione:
l’organizzazione in gruppi di varia dimensione che adottano anche metodi violenti per
perseguire i propri obiettivi, i quali pur mantenendo sullo sfondo l’instaurazione dello Stato
islamico fondato sulla Shari�a si moltiplicano e disperdono in innumerevoli obiettivi limitati
a seconda delle esigenze particolari che pretendono di soddisfare. Nella seconda metà del
secolo e, soprattutto, a partire dagli anni Settanta, la scena politica nei paesi a maggioranza
musulmana è stata percorsa da attentati eclatanti e clamorosi, ma anche da fatti minori, pur
violenti, che hanno costituito quasi la norma in molte regioni: assalti ai luoghi simbolici
della “corruzione” occidentale, come cinema, night club o rivendite di videocassette si sono
succeduti fino a oggi. Solitamente i membri dei gruppi in grado di organizzare azioni
violente, siano attentati, tumulti popolari o atti diretti contro cose, hanno legami molto stretti
fra loro, spesso conducendo vita comune attorno a particolari moschee private fuori dal
controllo dei governi degli Stati in cui operano. Entro questi gruppi, i membri possono
talora essere uniti da un’omogeneità di classe. Altre volte, vi si riproducono le differenze
sociali e di status, a creare una sorta di società nella società.
Hrair Dekmejian distingue fra fondamentalisti attivi e passivi, attribuendo ai primi le
caratteristiche che abbiamo elencato e, in più, il fatto di contemplare l’uso della violenza a
fini politici (e religiosi) fra i propri metodi.
8
Questa precisazione riecheggia la distinzione
dei movimenti islamisti in gruppi che perseguono l’islamizzazione della società dall�alto,
ossia con la presa del potere tramite una rivoluzione e con la coercizione e coloro che
propugnano genericamente gli stessi ideali, procedendo dal basso, ossia tramite
l’indottrinamento dei vari segmenti della società al fine di costituire reti comunitarie che
soddisfino già la logica della Shari’a nella sua più rigorosa interpretazione, nell’attesa della
7
Gilles Kepel, Le Proph�te et Pharaon. Les mouvements islamistes dans l�Egypte contemporaine, Parigi: La
Découverte, 1984, p. 32.
8
Hrair Dekmejian, op. cit., pp. 54-55.
reislamizzazione di tutta la società.
9
Per altri autori, la distinzione fra islamizzazione
dall�alto e islamizzazione dal basso è quantomeno fuorviante, ponendo come fulcro della
propria impostazione il solo uso della violenza e perdendo così di vista la complessità del
fenomeno islamista.
10
Piuttosto gruppi armati, associazioni caritatevoli islamiste,
gruppi universitari islamisti ecc. sarebbero – da un punto di vista concettuale se non
organizzativo – forme diverse di una medesima sostanza che non ha il metodo violento
come propria discriminante.
Vi è infine chi riconduce il quietismo di certi gruppi e certe tendenze (fra le altre,
quella dei Fratelli Musulmani egiziani degli anni Ottanta e Novanta) al concetto di takiya,
11
che viene solitamente tradotto con dissimulazione e che indica un atteggiamento attendista e
prudente che non è frutto di un’ideologia particolare e positiva, ma semplicemente è la
reazione compromissoria a una situazione sfavorevole. Così, chi lo adotti accetterà di
interagire pacificamente con le altre istanze della società in cui opera non già per avere
accettato e assimilato una logica apertamente dialettica, ma soltanto per la convenienza data
dal tenere un contegno di basso profilo in una condizione di inferiorità.
2. La rinascita islamica degli anni Settanta: alcune interpretazioni
Nell’ambito degli storici del Medio Oriente, sembra di poter riscontrare un certo
accordo nell’identificazione di tre cause principali dell’emergere del fenomeno islamista
che dagli anni Settanta scuote il mondo musulmano:
♦ la conflittualità culturale seguita all’impatto con la modernità occidentale;
♦ la modernizzazione socio-economica veloce ma squilibrata sperimentata
dai paesi arabi dal secondo dopoguerra a oggi;
♦ l’inesorabile declino della legittimità delle ideologie e dei sistemi politici
che hanno portato all’indipendenza gli Stati nazionali post-coloniali.
9
Gilles Kepel, La rivincita di Dio, Milano: Rizzoli, 1991, p. 49.
10
François Burgat, L�islamisme en face, Parigi: La Découverte, 1996, pp. 83-90.
11
Robert Springborg, Mubarak�s Egypt. Fragmentation of the Political Order, Boulder and London: Westview Press,
1989, p. 219.
Questa spiegazione – a proprio discapito giustapponendo istanze culturali, politiche e
economiche considerate su un lungo lasso di tempo – deve essere considerata un primo
punto di riferimento per comprendere l’oggetto cui si riferisce. L’effetto prodotto
dall’interazione di questi fattori ha poi conosciuto un’accelerazione drammatica innescata
dall’esplosione demografica della metà degli anni Settanta. Cause ancor più specifiche
hanno poi reso del tutto peculiari le dinamiche del revival islamico a seconda degli Stati o
dei quadranti geografici all’interno delle cui coordinate si sono prodotte. Nel caso egiziano,
la sconfitta militare nella Guerra dei Sei Giorni combattuta nel 1967 contro Israele
costituisce un esempio illuminante in questo senso su cui torneremo più diffusamente.
In alternativa, si è andata accorpando una scuola di pensiero che intende rintracciare
le cause dell’islamismo così come esso oggi si propone nei caratteri intrinseci dell’Islam.
Nella commistione dell’elemento religioso e di quello politico, la cosiddetta corrente
culturalista vede, ad esempio, l’aporia alla base della mancata democratizzazione nei paesi
a maggioranza musulmana e, necessariamente, il motivo principale della demonizzazione
della democrazia occidentale da parte di molti movimenti islamisti odierni.
La spaccatura fra queste due scuole di pensiero sembra ricalcare quella che negli anni
Sessanta divideva terzomondisti da orientalisti. Per difetto di fantasia (in realtà si tratta di
un termine improprio tout court), vengono indicati oggi come neo-terzomondisti quegli
studiosi che credono di rintracciare le cause primarie degli attriti fra Occidente e Medio
Oriente e, all’interno degli stati mediorientali, fra governi e opposizioni islamiste, nel
passato coloniale e imperiale del mondo occidentale. Ovviamente neo-orientalisti sono
coloro che fanno dei caratteri intrinseci dell’Islam la fonte dei più gravi problemi odierni del
mondo musulmano, non ultimo l’emergere dei movimenti islamisti nell’ultimo trentennio
del XX secolo. Al primo gruppo, fra gli altri, appartiene François Burgat che, nella sua vasta
opera di saggistica ha proposto una teoria originale per spiegare l’islamismo. Dopo essersi
espressa sul terreno del politico (producendo i movimenti indipendentisti), e su quello
economico (con, ad esempio, la nazionalizzazione del Canale di Suez) la rivalsa sull’ex-
colonizzatore accederebbe – attraverso l�Islam opposizionale
12
- all’ambito simbolico e
culturale. “(…) è proprio la rimessa in discussione di una relazione culturale posta in essere
12
François Burgat, L�islamisme en face, cit., p.77.
durante la fase coloniale che la spinta islamica manifesta. È il terzo stadio del missile della
decolonizzazione”
13
.
Di tutt’altro registro sono le ragioni rilanciate dai neo-orientalisti. Fra questi, Bernard
Lewis riconosce nelle caratteristiche storiche e teologiche della religione musulmana le
cause della mancata modernizzazione culturale dei paesi mediorientali e, nell’anti-
occidentalismo della maggior parte dei gruppi islamisti il risultato di una combustione di
umiliazione, invidia e sospetto. Il motivo di un anti-occidentalismo quasi necessario, è
ripreso anche da Samuel Huntington. Il tema dello scontro fra civilt�, portato
dell’incompatibilità dell’Islam con le nozioni filosofiche occidentali fondamentali della
democrazia e della modernità è sostenuto fino a paventare una sorta di “cortina di velluto”
14
fra l’Occidente e il mondo musulmano, meno istituzionalizzata della cortina di ferro che
limitava il mondo comunista ma egualmente netta su un piano culturale.
Luci e ombre caratterizzano alternativamente entrambe le impostazioni. Nella storia
islamica, la lotta per il potere si è spesso agglutinata attorno all’opposizione di regimi
consolidati ( e pretesi difensori della fede) e di gruppi emergenti che, in nome di un ritorno
alla purezza originaria dell’Islam, tali regimi hanno sfidato. In effetti, una reazione causale
fra periodi di crisi politica, economica e sociale e l’ascesa di movimenti islamisti è un fatto
comprovato e facilmente riconoscibile risalendo a ritroso la storia dei paesi a maggioranza
musulmana. Il modello di governo ideale cui tutti, sfidanti e sfidati, hanno sempre aspirato è
quello instaurato dallo stesso Maometto nell’Oasi di Yatrib (Medina) a partire dal 622
15
e
ereditato successivamente dai quattro Califfi “Ben Guidati”. La natura ciclica e dialettica di
questi sommovimenti è stata elaborata per la prima volta nel XIV secolo da Ibn Khaldun,
che ne indicava il motore nella somma di “missione religiosa” e di “spirito o solidarietà di
gruppo” (asabiyya). Due concetti, questi ultimi, che non sembrano avere perduto rilevanza
nel mondo musulmano di oggi.
I prodromi dell’islamismo odierno non possono, però, essere rintracciati prima di due
secoli a questa parte. Prima, cioè, che la modernità occidentale irrompesse nel Medio
Oriente, seguendo le vie canoniche della conquista militare, della penetrazione economica e
13
François Burgat, Il fondamentalismo islamico, cit., p.70.
14
Samuel Huntington, “The clash of civilization?” in Foreign Affairs, Vol. 72, N. 3, Summer 1993, p. 31.
15
Il 622 è l’anno dell’Egira, la migrazione (in arabo hijra) compiuta dal Profeta da Mecca, sotto il dominio pagano,
verso altri luoghi dove dar vita a un sistema politico musulmano e dove fondare una comunità che vivesse
conformemente ai precetti musulmani. La data venne poi adottata come inizio dell’era islamica. Per maggiori
precisazioni si veda Bernard Lewis, Il linguaggio politico dell�Islam, Roma-Bari: Laterza, 1996.
dello scambio culturale. Il fatto storico che, in questo senso, è solitamente preso come
riferimento per datare lo sconvolgimento politico e culturale del mondo musulmano è la
spedizione in Egitto del generale Bonaparte nel 1798. L’insinuazione delle idee e delle
tecniche occidentali nell’impero Ottomano, la cui fase calante era già in nuce, diede vita ad
un atteggiamento di profondo turbamento per il ritardo (soprattutto tecnologico)
accumulato. Tuttavia, la ricezione dei canoni occidentali fu bruscamente selettiva: se le
innovazioni tecnologiche, e militari in particolare, vi trovarono facile ricetto, il Medio
Oriente musulmano respingeva il portato culturale – tutt’altro che accessorio – della
modernità: concetti come quelli di Stato, cittadinanza, laicità contrastavano irriducibilmente
con l’Islam ufficiale.
In realtà, lungo tutto l’arco dell’Ottocento furono attivi studiosi musulmani
(riformatori islamici) che tentarono di comporre le lacerazioni fra pensiero
islamico e pensiero occidentale. Questi sforzi confluirono, sul finire del XIX secolo nella
scuola Salafiyya la cui attività fu volta a creare una sintesi fra le due culture che ne
superasse l’incompatibilità a tutto vantaggio delle società musulmane. Ma il linguaggio del
Medio Oriente del XX secolo fu meno debitore della tradizione riformista di quanto lo
fu dei vari nazionalismi arabi.
Se i governi della regione mai avrebbero potuto estromettere i fondamenti dell’Islam dalla scena
politica, né avrebbero potuto abbandonarne del tutto il linguaggio, pure il richiamo alla
religione non fu che uno degli elementi caratterizzanti le leadership mediorientali. Furono i
nazionalismi arabi a presiedere al processo di decolonizzazione.
Alla fine degli anni Settanta, la credibilità del panarabismo e del socialismo arabo si
era volatilizzata insieme alla legittimità dei regimi che su queste ideologie si erano fondati.
In questo senso, determinante fu la condotta nella lotta contro Israele nella rovinosa Guerra
dei Sei Giorni del 1967 e nella Guerra del Kippur del 1973. Se i fallimenti di politica estera
avevano cadenzato l’arco di tempo necessario al tracollo dei governi del Medio Oriente, i
problemi di politica interna furono il colpo di grazia: la spinta demografica esplosiva, a
fronte di tassi di disoccupazione sempre più alti, compromise definitivamente la tenuta di
questi regimi.