Il primo capitolo, infatti, propone un excursus del concetto di asilo politico
nella storia dell’umanità, e della figura dello straniero all’interno della
prospettiva sociologica, con una particolare attenzione alla differenza
esistente tra immigrazione tout court ed esodo forzato.
Nel secondo capitolo, vengono considerati i più importanti strumenti
giuridici internazionali esistenti in materia di asilo politico e nel più ampio
ambito dei diritti umani: dalla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa
allo status di rifugiato, agli ultimi accordi presi a livello europeo e alla loro
applicazione nella normativa italiana.
Il terzo capitolo si sofferma sul ruolo svolto dalle organizzazioni
governative e non governative in difesa dei diritti dei rifugiati nel mondo. In
particolare, viene indagato l’impegno dell’Acnur, in quanto organo ufficiale
delle Nazioni Unite per i rifugiati, che controlla le applicazioni delle norme
internazionali da parte degli Stati firmatari della suddetta Convenzione e
collabora con altre organizzazioni nazionali e internazionali per la
realizzazione di progetti di assistenza e protezione dei rifugiati.
All’interno del quarto capitolo, l’attenzione è rivolta alla specifica
condizione dei minori vittime dell’esilio, nel tentativo di analizzare il
processo di costruzione della loro identità nel rapporto con il nucleo naturale
(famiglia d’origine) e nel sistema relazionale esterno (paese d’accoglienza).
E’ stato, quindi, messo in rilievo il particolare processo di socializzazione
primaria e secondaria vissuto dai minori rifugiati.
Infine, in Appendice sono riportate le interviste svolte ai testimoni
privilegiati e ai minori dei due centri presi in esame, secondo le tecniche
dell’intervista focalizzata e del focus group. Le modalità di rilevazione e
trascrizione sono presentate nella nota metodologica.
Desidero ringraziare gli operatori con i quali sono venuta in contatto per la
pronta disponibilità che mi hanno offerto durante tutta la durata della ricerca
e specialmente i bambini che mi hanno permesso di vivere un’arricchente
esperienza umana.
Ringrazio, inoltre, la Dott.ssa Alessandra Sannella che mi ha seguita ed
indirizzata pazientemente alla realizzazione di questo lavoro e dei cui
preziosi consigli farò tesoro.
Capitolo primo
Chi sono i rifugiati?
"...Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente;
e questo è quello strale -
che l'arco dello essilio
pria saetta.
Tu proverai si come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro
calle lo scender e'l salir per
l'altrui scale..."
( Dante-Paradiso canto XVII vv.55-60 )
1.1 La storia dell'asilo politico nell'umanità
Il fenomeno dei rifugiati non è esclusivamente legato alle vicende storiche
dei nostri tempi, ma ha sempre accompagnato la storia dell'umanità, come
testimoniano alcuni esempi di asilo presenti sin dai tempi antichi. Da
quando l'uomo è stato creato, spesso, è stato vittima dell'intolleranza altrui,
l'umanità sovente sconvolta da conflitti e guerre civili in ogni parte del
mondo, migliaia o centinaia di migliaia di persone costrette a fuggire dal
proprio paese per sottrarsi a persecuzioni per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le loro ideologie
politiche.
La parola asilo, di origine greca, composta dalla particella privativa "a" e dal
verbo "sylao", catturare, violentare, devastare, letteralmente significa quindi:
"senza cattura", "senza violenza", "senza devastazione", si ritrova nei testi e
nelle tradizioni di molte società antiche.
Alla metà del secondo millennio a. C., quando in tutto il Vicino Oriente
cominciano a svilupparsi delle entità simili agli Stati moderni, con confini
chiaramente definiti, tra i governanti vengono conclusi vari trattati che
comprendono disposizioni per la protezione dei fuggiaschi degli altri
territori.
Il concetto di asilo, appare con rilievo anche nella drammaturgia greca del V
sec. a.C.. Sofocle infatti, narra nel suo “Edipo a Colono”, che Edipo, mitico
re di Tebe, chiedesse asilo a Teseo, re di Atene, per sfuggire alla
persecuzione. La mitologia, dimostra dunque, quanto radicata nella storia
dell'umanità sia la tradizione dell'ospitalità e dell'asilo, presente in tutte le
culture della terra.
Il concetto di asilo è menzionato, oltre che nella mitologia anche nella storia
di due grandi popoli di origine nomade, i quali offrono notevoli esempi di
ospitalità come pratica sancita dalle loro leggi: Abramo, che gli Ebrei
considerano come il padre del loro popolo e i Musulmani come loro profeta,
era nomade e guida del suo popolo in esilio
1
; e Maometto il profeta
dell’Islam, che con i suoi seguaci è costretto a cercare riparo da coloro che si
sentono minacciati dalla nuova fede. L'era Musulmana, infatti, secondo il
calendario religioso, inizia con un episodio di esilio, l'Egiria; punto di
partenza della reale diffusione dell'Islam e anche il Corano esprime
chiaramente l’importanza del concetto d’asilo: “Coloro che hanno creduto e
hanno scelto l’esilio e si sono battuti per la fede, e coloro che hanno dato
loro aiuto e asilo, costoro sono i veri credenti” (8:74).
Molti anche gli esempi biblici di "espulsione": da Adamo ed Eva cacciati dal
Paradiso terrestre, alla Sacra Famiglia diventata una famiglia rifugiata,
1
Dal latino exilium, parola composta dalla preposizione ex (da, fuori da) e solum (suolo), cioè
“estirpato dal suolo”: quindi, allontanamento forzato o volontario del cittadino dalla patria.
costretta a fuggire in Egitto, in cerca di protezione contro la persecuzione di
Erode, o ancora, riprendendo il Vecchio Testamento, possiamo ritrovare nel
Libro dei Numeri, l’ordine di Dio a Mosè di designare sei città come luoghi
di rifugio, “sia per i figli d’Israele, sia per gli stranieri, sia per l’ospite di
passaggio fra loro” (35:9-15).
Nel corso della storia si sono succedute numerose civiltà che hanno avuto
nel proprio passato un periodo di esodo, vissuto a causa della sete di
conquista di altri popoli o delle necessità imposte da catastrofi naturali ed
umane; e con il trascorrere dei secoli, termini come "esilio" e "rifugiato"
hanno più volte cambiato la loro etimologia. Fino all'Ottocento, ad esempio,
la parola "rifugiato" serve ad indicare prevalentemente i protestanti messi al
bando dalla Francia nel XVII secolo, come ci ricorda la Sassen, “il primo
segnale di cambiamento si ha nel 1796, nella terza edizione
dell’Encyclopedia Britannica, dove il termine refugee è applicato, oltre ai
protestanti, a tutti colori che sono costretti ad abbandonare la propria terra in
momenti di calamità, nonché a specifici gruppi quali gli émigrés, ossia i
nobili fuggiti dalla Francia durante la Rivoluzione”
2.
Tra il 1880 e la Prima guerra mondiale, si susseguono molte ondate di
rifugiati: due milioni e mezzo di ebrei si allontanano dall'Europa orientale
nei primi anni del ‘900; altre centinaia di migliaia di persone sono messe in
fuga dal crollo dell'Impero Turco e dalle guerre e i sanguinosi conflitti
nazionalistici che sono seguiti. Sia la fuga degli ebrei dalla Russia e dalle
regioni orientali, sia l'esodo di massa dai Balcani, non avevano però indotto
gli Stati europei a modificare il concetto di rifugiato invalso fino allora.
Durante la guerra, invece, il concetto di "straniero" assume un significato del
tutto nuovo. Il legame instauratosi tra sovranità degli Stati e nazionalismo,
trasforma lo "straniero" in outsider, poiché gli Stati, negando i diritti civili ai
rifugiati, nega loro l'appartenenza alla società nazionale. Dal primo conflitto
mondiale, hanno origine i nove milioni e mezzo di rifugiati: tra loro non vi
sono più soltanto coloro che fuggono da rivoluzioni e persecuzioni politiche,
ma anche quanti sono espulsi perché la loro etnia non è quella "giusta".
Sullo stesso filone si giocano le sorti dei rifugiati durante la Seconda guerra
mondiale, periodo in cui di pari passo con la xenofobia e l'antisemitismo
cresce l'opposizione contro chi vuol concedere troppo generosamente asilo e
contro ogni forma di democrazia liberale.
Negli anni seguiti alla fine della guerra fredda, come nei periodi successivi
alla prima e seconda guerra mondiale, i movimenti forzati di popolazione
sono apparsi come una delle conseguenze più rilevanti del crollo delle
vecchie ideologie, della disgregazione degli antichi imperi e dalla
formazione di nuovi Stati.
Pur trattandosi di un problema secolare, il fenomeno dell'esodo forzato ha
raggiunto dimensioni enormi soprattutto negli ultimi anni del XX secolo.
L'unico modo possibile oggi, alle soglie del terzo millennio, per scongiurare
i movimenti forzati di popolazione e permettere che un sempre maggior
numero di esuli faccia ritorno in patria in condizioni di sicurezza, sembra a
molti quello di realizzare un vasto programma d'azione concordato da tutti
gli Stati, fissando degli obiettivi politici, economici, oltre che umanitari. Tali
obiettivi possono abbracciare una vasta gamma di tradizioni ideologiche,
religiose e culturali diverse, ma dovrebbero tuttavia fondarsi sul principio
secondo cui tutti hanno diritto alla sicurezza e alla libertà: una sicurezza che
ponga al riparo dalle persecuzioni, dalle discriminazioni; la libertà di
realizzare le proprie potenzialità ed esprimere la propria identità individuale
e collettiva.
2
S. Sassen, Migranti, coloni, rifugiati, Milano, Feltrinelli, 1999, p.43.
1.2 L’out-sider: una prospettiva sociologica
Il pensiero dei classici della sociologia sulla figura dell’out-sider, costituisce
un importante bagaglio teorico per l’analisi di qualsiasi tema di ricerca che
riguardi le dinamiche sociali dell’esclusione-emarginazione e
dell’inclusione-integrazione che hanno origine da una diversità culturale.
Molti sono stati i pensatori, infatti, che hanno considerato lo straniero una
figura chiave della conoscenza sociologica capace di offrire una prospettiva
di lettura, non solo privilegiata, ma globale del sociale; e hanno inoltre
creduto che il rapporto straniero-gruppo fornisse il retroterra teorico della
maggior parte se non della totalità dei fenomeni sociali
3
.
La presenza dello “straniero”
pur essendo una variabile costante nella storia
dell’umanità, ha sempre proposto la stessa dicotomica problematica:
integrazione o esclusione.
A fronte di questa antinomia: da una parte abbiamo i detentori di schemi
sociali storicamente radicati, dall’altra una minoranza etnica che deve
confrontarsi con modelli sociali e culturali nuovi.
L’analisi sociologica della figura dell’out-sider, importante come strumento
d’interpretazione di molteplici situazioni tipiche delle società
contemporanee culturalmente complesse, appare fondamentale nel caso del
nostro studio per la comprensione della particolare situazione di difficile
inserimento che spesso i rifugiati si trovano a vivere nel paese
d’accoglienza.
3
Cfr., S. Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza, Milano, Franco Angeli, 1993, p.13.
I rifugiati, infatti, in quanto “stranieri”, secondo l’etimo stesso che deriva da
“estraneo”, può essere collocato tra due mondi: quello di provenienza e
quello d’arrivo.
Tale posizione ambivalente è stata ben espressa quasi un secolo fa da Georg
Simmel nel suo breve saggio, Excursus sullo straniero
4
.
All’interno della prospettiva definita “sociologia formale”, Simmel infatti
pone le premesse per un’originale sociologia della migrazione, incentrando
le argomentazioni sulla forma sociologica di un solo tipo di migrante, lo
straniero, colto nella sua relazione ambivalente con la comunità sociale.
Lo “straniero” a differenza del “viandante”, “che oggi viene e domani va”, è
quella forma sociologica “ che oggi viene e domani rimane”
5
riunendo in se
stessa sia l’elemento della mobilità, perché distacco da ogni punto spaziale
dato, sia l’elemento della sedentarietà, in quanto permanenza in un
determinato ambito spaziale. Lo straniero di Simmel è un individuo che
proviene da altri paesi, appartiene ad una cultura diversa da quella della
comunità di cui entra a far parte e a causa di questa sua diversità culturale e
della lontananza che porta in sé, è collocato in una posizione marginale.
Sullo stesso percorso concettuale seguito da Simmel, possiamo collocare la
riflessione di un altro classico del pensiero sociologico: Alfred Schutz.
Nel suo saggio di psicologia sociale sullo straniero,
il sociologo si propone
di mettere in luce cosa accade nell’incontro fra un gruppo integrato dalla
comune adesione ad un mondo simbolico quotidiano e chi di questo mondo
non fa parte, quali sono le dinamiche che vengono attivate nell’accoglienza
di un nuovo arrivato e le modificazioni reciproche che possono verificarsi
6
.
4
G. Simmel, Excursus sullo straniero, in E. Pozzi (a cura di), Lo straniero interno, Firenze, Ponte
alle Grazie, 1993, p. 25.
5
S. Tabboni, ( a cura di), Vicinanza e lontananza, op. cit., p.25
6
A. Schutz, Lo straniero. Saggio di psicologia sociale, in A. Izzo (a cura di), Saggi sociologici,
Torino,Utet, 1979, pp. 375-389.
Lo straniero di Schutz è paragonabile alla figura del rifugiato che appena
giunto nel nuovo paese, non appartenendo a nessun gruppo e ignorandone la
cultura, cerca di farsi accettare e di capirne le regole, per imparare ad agire
al suo interno.
Ad ogni rifugiato come allo straniero di Schutz, ciò che riesce difficile
comprendere, è quell’insieme di orientamenti e di regole che il gruppo
integrato considera scontato. Esso ha un background molto diverso, una
storia alle spalle, un modo di pensare naturale, alla luce dei quali analizza la
cultura del gruppo. Questa è la situazione in cui si trova lo straniero davanti
al gruppo: egli è “colui che deve mettere in questione quasi tutto ciò che ai
membri del gruppo di cui egli è entrato a far parte sembra fuori questione”
7.
La nostra analisi sociologica della figura dello straniero attraverso il
pensiero di Simmel e Schutz fondamentale per capire come una comunità
situa nel proprio spazio sociale il “culturalmente diverso”, “l’altro da sé”,
continua con il contributo di Park che mette in rilievo aspetti importanti
della definizione delle distanze sociali dovute a ragioni culturali.
In Human Migration and the Marginal Man,
Park pone due questioni
rilevanti: la relazione fra migrazione e mutamento sociale, intendendo la
migrazione come una delle condizioni che danno origine al mutamento; la
relazione fra migrazione e struttura della personalità.
Per spiegare la prima relazione, il sociologo di Chicago prende le mosse
dall’accettazione di quella che egli stesso denomina “teoria catastrofica”
della civiltà, secondo cui la civiltà medesima fiorirebbe alimentandosi dalle
differenze delle razze e delle culture, piuttosto che essere il frutto o il
risultato di processi evolutivi. La migrazione, in questa prospettiva, diventa
appunto una condizione dello sviluppo della civiltà, permettendo e causando
il contatto e la fusione, ma anche il conflitto e la tensione di popoli e culture.
A questo proposito, uno dei problemi principali che la migrazione pone, se
intesa come push-factor. E' la difficile integrazione che può sfociare nel
disordine politico in una comunità priva di una cultura comune.
Park, inoltre, individua quattro processi principali di relazioni fra culture e
gruppi diversi, al di fuori dei quali esiste solo una condizione definita
simbiotica, nella quale ciascuno, pur trovandosi dipendente da ogni altro,
non stabilisce con alcuno dei rapporti di comunicazione e di scambio
simbiotico.
Oltre al processo biologico d’amalgama, il processo sociale
d’accomodamento e il processo culturale d’acculturazione, Park prende in
esame il processo sociale d’assimilazione
8
. Questo, ben rappresentato dalla
metafora del melting pot
9
(crogiuolo), è il processo secondo cui la cultura di
una comunità o di una nazione è trasmessa da un cittadino “adottivo” e nel
quale gli individui ed i
gruppi acquisiscono le memorie, i sentimenti e gli atteggiamenti d’altri
individui e gruppi, incorporandosi in una comune vita sociale e culturale.
Per ciò che concerne, invece, la relazione tra migrazione e struttura della
personalità, l’analisi di Park, conduce all’associazione tra la posizione
dell’uomo marginale e un rifugiato, entrambi infatti potrebbero essere
considerati come un uomo “dal sé diviso” che vive ai margini di due culture,
partecipando alla vita e alle tradizioni di due popoli diversi e che non
riuscendo a rompere con il proprio passato acquista una nuova posizione
sociale, quella della marginalità.
7
Ivi, p. 380
8
Cfr., R. E. Park, Human Migration and the Marginal Man, in Human Communities, Free
Press, New York, 1952, p. 45.
9
Locuzione derivante dal titolo omonimo di un dramma teatrale del 1909, opera dello
scrittore ebreo Israel Zangwill, ambientato nei ghetti ebrei in America.
1.3 L’identità del rifugiato
Le radici furono troncate d’un colpo
e ci avrei messo sei anni a svilupparne altre,
piantate nella memoria e nei libri che avrei scritto.
Durante quel lungo periodo il mio carcere
sarebbe stato la frustrazione e il silenzio.
I. Allende, Paula
10
Un elemento comune alle molteplici teorie sull’identità, a partire dai
contributi di G.H. Mead e di A. Schutz, è il carattere relazionale che gli si
attribuisce. L’identità, infatti, non viene considerata una struttura stabile ed
invariabile, che si forma con la crescita ma come il frutto delle varie
relazioni tra gli individui; come il risultato delle rappresentazioni reciproche
e delle reazioni a queste. Solo riconoscendosi negli altri, quindi, l’individuo,
conosce se stesso.
Se consideriamo fondamentale la struttura relazionale dell’identità, diventa
facile intuire il “terremoto identitario” che un rifugiato è costretto a vivere.
Egli infatti dopo la fuga dal proprio paese, deve far fronte ad una continua
messa in crisi della propria identità personale, sociale e culturale. Sentirsi
identici a se stessi e nello stesso tempo partecipi di una continuità storica è
un’impresa difficile per molti, ma risulta estremamente improbabile per
persone come i rifugiati che devono spesso accettare la "morte" simbolica
del proprio gruppo d’origine ed impegnarsi nella ricerca del proprio sé,
perduto durante l’inevitabile processo di separazione che accompagna ogni
partenza.
10
I. Allende, Paula, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 235.
Nell’art.1 della Convenzione di Ginevra del 1951, le Nazioni Unite
definiscono il rifugiato come una persona che, “per un fondato timore di
persecuzione per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un
determinato gruppo sociale, od opinione politica, si trova fuori del paese di
cui ha la cittadinanza, e non può, oppure a causa di tale timore, non vuole
avvalersi della protezione di tale paese…”. Un rifugiato è quindi soprattutto
una vittima, costretto ad abbandonare il proprio luogo d’origine, la propria
casa, l’ambiente in cui si è conosciuti e riconosciuti, lì dove sono concentrati
i ricordi che hanno riempito la memoria e nutrito la personalità. Prima di
scappare dal proprio paese, molti hanno subito bombardamenti, attacchi
militari, prigione, tortura; provengono da regioni, il più delle volte, dove le
culture sono state devastate, le infrastrutture inesistenti come gli stessi
servizi sanitari.
Essere sradicati dalla propria terra, non avere più la possibilità di farvi
ritorno, è una condizione di dolore continuo e accentuato da un marcato
senso di frustrazione legato al fatto di ricevere un’accoglienza il più delle
volte poco dignitosa ed affatto adeguata a chi è stato costretto a fuggire dal
proprio paese, abbandonando tutto per timore di persecuzioni o rappresaglie.
L’esilio per un rifugiato rappresenta un taglio violento nella sua storia
personale, la rottura con ogni punto di riferimento, o per citare Victor Hugo
“l’esilio è come un lungo periodo d’insonnia”, poiché può significare il
prolungamento della difficile situazione vissuta nel paese d’origine.
Diversamente dall’emigrante economico che sceglie di trasferirsi all’estero
per migliorare la propria situazione materiale o per ampliare i propri
orizzonti culturali (anche se a volte la scelta è forzata dalle condizioni socio-
economiche del paese di partenza), l’esiliato politico non sceglie
liberamente di lasciare il proprio paese, ma ne viene espulso violentemente.
Non esiste, quindi, per lui neanche il tempo di prepararsi all’abbandono del
lavoro, della casa, delle radici e il più delle volte persino della famiglia.
Così, arrivando nella terra d’asilo, incontra spesso nuove concezioni del
tempo e dello spazio, un nuovo popolo con una lingua e una cultura
completamente diversa, scontrandosi con l’inevitabile sradicamento, e con
la perdita della sua identità.
Nel periodo iniziale nel paese d’accoglienza, il disadattamento provoca
solitamente in ogni rifugiato, depressione, angoscia, paura per un futuro
incerto. Deprime, inoltre, la “colpa” che si prova nei confronti di quelli che
sono rimasti “a casa”, e per quelli che lottano e muoiono. L’accettazione del
nuovo stato di cose, diventa ancora più difficile per coloro che nel paese
d’origine appartenevano ad una élite politica, intellettuale, professionale o
facevano parte di gruppi fortemente uniti, solidali, con intensa
partecipazione.
Un grave rischio, dovuto all’insicurezza provocata dai cambiamenti
repentini, è quello di ricostruire, nuovi gruppi con i connazionali presenti nel
paese d’accoglienza. Questo, infatti, rafforzerebbe i legami con la patria
lontana , ma allo stesso tempo potrebbe far sì, che ogni esule si ritrovi in un
ghetto insieme agli altri del suo paese, della sua religione, della sua
ideologia.
La terra d’asilo, se ciò avvenisse, diventerebbe come un luogo nel quale si
sviluppa la storia d’altri, che parlano una lingua diversa e che soprattutto
vivono con motivazioni differenti. Il rifiuto della nuova realtà potrebbe,
inoltre comportare a parte l’emarginazione sociale, gravi problemi nella
vita di relazione. La quotidianità difficile e frustrante di ogni rifugiato,
infatti, fa sì che si abbia nei confronti del nucleo familiare, della coppia, del
gruppo, delle aspettative di gratificazione compensatoria; ciò conduce
all’inevitabile crisi e conflitto, quando i gruppi di riferimento non sono in
grado di rispondere alle richieste di calma, sicurezza, affetto di ognuno dei
membri.
Il difficile processo di cambiamento che investe la vita di un rifugiato e la
sua identità è ancora più complesso, a volte, se vissuto da una donna
rifugiata.