6grande rispetto alle modalità in cui il fenomeno è stato descritto ed analizzato. Quello
che pensiamo infatti, è che tentare di misurare un fenomeno che conosciamo in modo
approssimativo sia una forzatura, sebbene riconosciamo che la valutazione di questa
tipologia di asset sia anch’essa una questione di estrema importanza che sarà ancora
oggetto di lunghe discussioni in futuro. La mancanza di una teoria fondativa degli asset
intangibili pare però essere il primo step sul quale ci si dovrebbe concentrare prima di
mettere a punto un sistema di misurazione che tenti di valutare il fenomeno in maniera
esaustiva. Pare logico infatti che ci si trovi in difficoltà nel misurare un oggetto che non
conosciamo a fondo. Ciò che ci siamo proposti in questa sede è quindi rappresentato dal
tentativo di descrizione di uno schema che metta in evidenza i microfondamenti
organizzativi degli intangibles, affinché sia possibile cercare di comprendere quali siano
le dinamiche retrostanti a questo fenomeno. Come vedremo le teorie delle
organizational capabilities, forniranno un valido supporto alle nostre idee. I concetti
chiave a cui si farà riferimento sono quindi rappresentati dalle routine organizzative e da
tutto quello che ruota intorno agli studi effettuati in questo ambito. Il lavoro di Nelson e
Winter (1982) costituisce senza dubbio l’opera a cui si fa riferimento in modo
preponderante, anche per come ha influenzato la letteratura successiva. Quello che
andremo a fare sarà quindi rappresentato dall’inserimento di queste idee in una logica di
funzionamento degli asset intangibili che si presenterà in modo diverso da quanto
riportato comunemente in letteratura. La classificazione originale operata da Contractor
(2000) ha fornito un valido spunto per far rientrare nella sua ottica le teorie
organizzative di cui abbiamo poc’anzi parlato.
Alle teorie relative al capitale intellettuale va comunque riconosciuto il merito di aver
iniziato lo studio di questo tema soprattutto in un ottica di gestione dell’impresa, che
visti i cambiamenti economici iniziati sul finire degli anni novanta, ha dato sempre più
rilevanza ad aspetti “soft” più che alle tradizionali visioni. Ci si era accorti infatti sin
dalla fine degli anni ottanta che concentrarsi solamente sulle grandezze di tipo
finanziario poteva portare a stili di gestione miopi (Kaplan e Norton 1992), che non
tenevano in considerazione un aspetto che nell’economia moderna è oramai sulla bocca
di tutti: la conoscenza. In sostanza le teorie del capitale intellettuale hanno posto
l’attenzione su quest’aspetto dell’impresa. Sin dal primo articolo di Stewart (1991) sulla
rivista “Fortune” si era intuito che il fenomeno a cui si era di fronte non era di scarsa
7entità. Un esempio universalmente valido di questa trasformazione, riportato da molti
autori (Stewart 1991, Sveiby 1997, Lev 2001) è rappresentato dal fatto che le quotazioni
di mercato delle imprese negli ultimi anni hanno fatto segnare valori che superano molte
volte quanto rappresentato in bilancio. Da qui sono difatti sorti i problemi relativi alla
dsclosure degli intangibles che ha preoccupato gli studiosi di materie contabili. Fino a
questo momento non sono stati individuati degli standard contabili che consentano di
rappresentare il fenomeno in maniera uniforme, proprio per il fatto che manchi una
teoria fondativi riguardante gli asset intangibili. Di questo si sono accorti anche autori di
formazione contabile come Stolowy e Jeny-Cavazan (2001).
E’ bene inoltre far notare come diversi rami dell’economia e dell’economia aziendale si
siano occupati di questo tema, molte volte toccandolo in maniera quasi involontaria od
inconsapevole, soprattutto in alcune trattazioni di anni passati dove ancora il fenomeno
non era venuto a galla in maniera così marcata come accade invece in questo periodo.
Infatti molte questioni legate al capitale intellettuale non sono di fatto cosa nuova, ma
erano già state affrontate in passato dalla letteratura, sebbene in un’ottica diversa.
La permanenza presso l’Università di Binghamton, nell’ambito di un programma di
accordo bilaterale, ha consentito di arricchire questo lavoro con la raccolta dei dati
disponibili presso la banca dati “Compustat North America” e di approfondire la
conoscenza sulla letteratura natura empirica. Come vedremo in seguito quello che ci si è
proposti di fare dopo aver tentato una descrizione delle dinamiche sottostanti gli
intangibles è rappresentato dalla ricerca di una connessione con la realtà delle teorie
elaborate. Questo compito si è rivelato essere più difficile del previsto proprio per le
questioni di cui abbiamo parlato poco fa, dai dati di bilancio è assai difficile ricavare
delle variabili che possano in qualche modo rappresentare delle proxy degli intangibles,
soprattutto se visti nell’ottica che ci siamo proposti in questa sede.
STRUTTURA DEL LAVORO
Il lavoro si articola sostanzialmente in due parti, la prima che va a ricoprire le questioni
teoriche legate alle discussioni relative agli intangibles e la seconda che si occupa
invece di questioni di tipo empirico. In sostanza nel primo capitolo andremo a
8descrivere quali siano le motivazione per cui gli intangibles sono tanto studiati e come
la letteratura abbia affrontato nel tempo questa annosa questione. Successivamente ci si
andrà ad occupare in maniera approfondita delle teorie che più hanno discusso di asset
intangibili, fornendo una rassegna delle modalità di classificazione e strutturazione che
sono state date nel corso del tempo dagli studiosi del capitale intellettuale e di altre
discipline connesse. L’approccio in questo caso sarà molto critico, quello che infatti ci
si è preposti è di tentare di evidenziare in maniera marcata quali siano le falle di questo
tipo di visione.
Tenendo presenti queste considerazioni, nel capitolo 4, svilupperemo una nostra visione
sul tema, tenendo conto delle già citate teorie organizzative. Il lavoro si concreterà
principalmente nel disegno di uno schema che tenti di sintetizzare il nostro pensiero su
quali siano le dinamiche retrostanti agli intangibles.
La seconda parte del lavoro sarà invece dedicata a questioni di carattere empirico. Per
prima cosa nel capitolo 5 si affronterà il problema della misurazione degli asset
intangibili, non nel modo tradizionalmente adottato dalla maggioranza degli autori, ma
analizzando diversi studi che hanno implicato analisi di tipo econometrico. In questo
modo si tenterà di mettere in evidenza, anche con un approccio critico, ciò che i diversi
autori hanno riportato riguardo al valore che gli intangibles sembrano avere rispetto ad
indicatori come il market-to-book ratio e la Q di Tobin. Infine si procederà ad analizzare
i dati raccolti sotto forma di panel, tentando di utilizzare diversi modelli econometrici
per cercare di dimostrare le idee che abbiamo espresso nel capitolo 4. Il tentativo è
quindi quello di cercare di trovare delle connessioni con la realtà rispetto alle teorie
proposte. Vedremo poi, come una riduzione del campione, che vada nella direzione
delle imprese di servizi, sembri portare ai risultati che ci si era preposti.
92. LA RILEVANZA ECONOMICA DEGLI ASSET INTANGIBILI
2.1 UN PO’DI STORIA
L’interesse relativo alla sfera del capitale intellettuale e quindi agli intangibile assets è
cresciuto negli ultimi anni, sicuramente a causa della rivoluzione portata dall’era
dell’informazione, che ha sconvolto e rivoltato l’economia e la vita a cui eravamo
abituati. Nel giro di un decennio i cambiamenti sono stati repentini e di un’intensità mai
conosciuta prima.
A questo punto pare interessante spendere delle parole per cercare di tracciare una
cronologia che ripercorra i passi più importanti compiuti nello studio di questa tematica.
Come rilevato da Hudson (1993), fu Galbraith il primo ad utilizzare il termine
“intellectual capital” e questo accadde già all’inizio degli anni settanta (Bontis 2001).
La scintilla che fece accendere l’attenzione sulla gestione degli asset intangibili fu data
però da Stewart (1991), giornalista della rivista Fortune, che pubblicò un articolo dal
titolo “Brainpower: how intellectual capital is becoming America’s most valuable
asset”. Lo stesso Stewart poi, nel 1997, pubblicò uno dei primi libri che parlavano di
gestione e misurazione del capitale intellettuale, inoltre nel medesimo anno usciva il
testo di Edvinsson e Malone (1997), anch’esso dedicato alla gestione del capitale
intangibile, basato sulle esperienze della società di assicurazioni svedese Skandia, dove
già nel 1994 era stato realizzato il primo report relativo al capitale intellettuale dal titolo
“Visualizing Intellectual Capital”. Due studi, già sul finire degli anni novanta, uno
effettuato da una delle maggiori società di consulenza dell’epoca (Arthur Andersen
1998) e l’altro da Waterhouse e Svendsen (1998), misero in evidenza come le aziende
erano interessate alla misurazione ed alla rappresentazione degli asset intangibili e come
esse ritenessero che i sistemi di misurazione tradizionali fossero obsoleti. Anche Sveiby
(1998), un consulente aziendale divenuto poi docente universitario, dalla metà degli
anni novanta iniziò a pubblicare una serie di articoli e testi inerenti la misurazione del
capitale intellettuale. Verso la fine degli anni novanta e nei primi anni del ventiduesimo
10
secolo, anche gli studiosi di contabilità iniziarono a dirigere il loro interesse nei
confronti degli intangible assets, il maggiore studioso in questo ambito è senza dubbio
Baruch Lev, il suo libro “Intangibles” (2001) costituisce di fatto una pietra miliare di
questa materia. Il crescere dell’interesse in questo contesto è testimoniato anche dagli
studi effettuati dalla Comunità Europea attraverso la Commissione della Comunità
Europea (Commission of the European Communities Enterprise Directorate General,
2003) e il PRISM (dal 2001 al 2003), il primo sfociato in uno studio completo sugli
intangible asset, il secondo invece portato a termine attraverso la pubblicazione di
numerosi articoli inerenti a diversi aspetti al mondo degli intangibles. Oltre ai già citati
autori sono comunque numerosi i lavori svolti attorno a questa materia che hanno
portato alla nascita di svariati sistemi di misurazione, anche molto diversi tra loro.
La natura stessa degli intangible assets, si presta a differenti livelli di studio che possono
includere aspetti differenti ma allo stesso tempo complementari tra loro, risulta infatti
abbastanza facile comprendere come questo fenomeno possa essere trattato da varie
branche di studio dell’economia a seconda degli obiettivi di indagine che ci si è
preposti. Non pare quindi possibile tentare di essere completamente esaustivi nella
trattazione di questo tema.
L’incremento di interesse che gravita attorno agli intangibles è oggi qualcosa di nuovo,
ma è bene ricordare come essi siano un fenomeno sempre esistito, anche se ora vengono
considerati il principale fattore critico di successo. Le capacità delle persone, la cultura
aziendale, la struttura organizzativa ecc. non sono concetti di recente scoperta o nascita,
molto probabilmente in passato non si era considerata la portata che questi fenomeni
avrebbero potuto avere a livello economico. Già nel 1982 Nelson e Winter hanno messo
in evidenza l’importanza delle “organizational capabilities”, nei concetti legati agli
intangibles non vi è quindi quasi nulla di così nuovo e sconcertante, inoltre Polanyi
(1967) aveva già compreso molti anni or sono l’importanza della conoscenza tacita. In
altre parole, già alcuni decenni fa si era capito che questi aspetti erano fondamentali per
generare il vantaggio competitivo di un’impresa, però il recente mutare dell’economia
ha funzionato da amplificatore ed evidenziatore della questione, che è diventata di
primaria importanza. Prima della rivoluzione dell’informazione erano necessari
investimenti fisici per poter “fare impresa”, mentre oggi esistono alcune aziende che di
fisico hanno davvero poco o nulla, ma che si fondano invece sulla conoscenza e quindi
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sulle capacità dei loro collaboratori, ciò un tempo non sarebbe stato attuabile, o forse
non avrebbe mai portato alla nascita di grandi imprese come oggi accade. Possiamo
quindi affermare che stiamo parlando di qualcosa che è sempre esistito, che c’è sempre
stato, ma che ha rappresentato, fino a qualche anno fa, un fenomeno che poteva, almeno
in parte, essere trascurato senza compromettere la performance aziendale, ora invece le
imprese non possono più permetterselo, difatti il sapere e la conoscenza sono diventati
l’ingrediente primario di tutto ciò che facciamo e consumiamo (Stewart 1997).
Le teorie che si sono occupate di asset intangibili, sono infatti molteplici, molte di esse
hanno toccato la tematica solo indirettamente e/o inconsapevolmente. Di seguito
riportiamo una breve descrizione dei filoni di pensiero rilevanti in materia, con la
precisazione che ciò che viene ora descritto non sarà oggetto del successivo capitolo,
che invece si occuperà in maniera estensiva dell’analisi degli approcci che hanno
toccato gli intangibles in maniera più marcata e che sono giunti a creare degli strumenti
di classificazione e misurazione.
Una delle prime branche di studio che si è occupata di aspetti “soft” legati all’impresa è
senza dubbio rappresentata dalla Resource Based View (RBV). La modalità con cui
questo modo di pensare ha posto l’accento sulle risorse scarsamente disponibili è
strettamente connessa con gli asset di natura intangibile. Questo proprio perché una
risorsa scarsa può essere vista come un asset che consente all’impresa di raggiungere il
vantaggio competitivo. Partendo dalle idee di Penrose, Wernerfelt, già nel 1984, aveva
difatti sottolineato come per l’impresa potessero avere rilevanza anche questioni di tipo
non finanziario, legate all’acquisizione di risorse scarsamente disponibili. In questo
modo si era quindi già tentato di modificare la prospettiva di analisi dell’impresa,
passando da un focus meramente finanziario ad un approccio che considerasse in
maniera maggiore aspetti che possiamo tranquillamente definire intangibili. La
definizione fornita da Wernerfelt stesso (1984) richiama infatti il concetto di asset
intangibile, rifacendosi ad oggetti che oggi comunemente consideriamo parte di questa
tipologia di investimenti. Inoltre, a partire dall’autore poc’anzi citato anche altri hanno
adottato questa prospettiva, come ad esempio Barney (2002). La Resource Based View
risulta poi connessa con quanto descritto in precedenza relativamente alle organizational
capabilities, che in quest’ottica rappresentano quindi una delle risorse a disposizione
dell’impresa. I confini tra queste teorie non sono perciò delimitati in modo marcato, ad
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esempio Teece, Pisano e Shuen (1997), partendo dalle idee della RBV, ragionano in
termini di dynamic capabilities, concetto anche questo strettamente collegato con le
organizational capabilities di Nelson e Winter (1982) e che trova ovviamente
collocazione anch’esso in un contesto di analisi degli intangibles.
Un altro filone di studio che risulta sempre essere interconnesso con gli intangibles, è
rappresentato dalle teorie del capitale sociale. Possiamo considerare fondativa in questo
ambito l’opera di Coleman (1988), che fornisce per prima una definizione di capitale
sociale, individuato in questo caso come quell’insieme di relazioni intercorrenti tra le
persone che ne facilita l’azione. Egli inoltre classifica il capitale sociale in diverse forme
che anche in questo caso possono essere viste come delle entità riconducibili a fenomeni
generatori di valore, pertanto risulta facile comprendere come ci si trovi di fronte ad
un’altra interpretazione indiretta degli asse intangibili. Più recentemente altri autori si
sono occupati della questione, ad esempio Mouritsen, Thrane e Koleva (2003) hanno
inquadrato la questione in termini di network utile all’impresa per il suo sviluppo. Altri
autori invece si sono più recentemente occupati di rendicontazione del capitale sociale
(Zambon e Cordazzo 2002), dove sono state messe in evidenza le connessioni tra i
report legati al capitale intellettuale ed appunto a quello sociale, ipotizzando possibili
convergenze tra i due. Ciò sta a sottolineare ancora di più come il capitale sociale possa
essere inserito tra le discipline che hanno toccato indirettamente il concetto di
intangibles.
Tornando ora a quanto riportato da Coleman (1988) è importante considerare anche
come, l’autore in questione abbia affrontato il concetto di capitale umano, che come
vedremo tra poco può essere anch’esso inserito in quell’insieme di approcci di contorno
che indirettamente hanno affrontato la questione di cui ci si occuperà in questo lavoro. Il
valore delle persone è infatti un dibattito aperto da molto tempo in letteratura ed il
termine capitale umano viene oramai utilizzato in diversi approcci economici ed
economico aziendali (si vedano ad esempio Kochan e Schmalensee 2003). La gestione e
valorizzazione del capitale umano rappresenta il focus su cui si sono concentrati gli
studiosi di gestione delle risorse umane e come vedremo nel prossimo capitolo questo
concetto fa parte anche delle teorie legate al capitale intellettuale, ne è difatti uno dei
tasselli principali. Percui parlare di asset intangibili significa anche tentare di dare un
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valore a quello che le persone sono in grado di fare all’interno dell’impresa, infatti di
queste dinamiche ci occuperemo più estensivamente nel terzo capitolo.
2.2 COSA È CAMBIATO
Per comprendere appieno il fenomeno degli intangibles è sicuramente necessario
analizzare i determinanti delle modifiche al sistema economico che hanno portato al
fenomeno della cosiddetta “new economy” ed a tutte le sue conseguenze e correlazioni.
Se il concetto di cui si sta parlando può risultate astratto e a tratti di difficile
comprensione, al contrario i cambiamenti con cui ci confrontiamo oramai giorno per
giorno sono tremendamente tangibili e comprensibili da chiunque. L’era
dell’informazione ha modificato radicalmente non soltanto l’economia, ma addirittura la
nostra vita, naturalmente ciò che è accaduto a livello sociale non fa parte di quanto
questo lavoro si prometta di spiegare.
Ciò che ci si pone davanti è un’economia, non più fondata sulle risorse naturali e sul
lavoro fisico, ma sul sapere e sulla comunicazione. L’era dell’informazione ha infatti
portato alla nascita di nuove imprese che non hanno bisogno di beni e possedimenti
tangibili per creare valore, ma che basano il proprio business su prodotti e servizi che
non hanno una realtà fisica (Stewart 1997). Un esempio lampante può essere dato
dall’evoluzione della composizione del PIL statunitense, la quota generata dal settore
agricolo è infatti passata dal 40% del 1869 all’1,4% del 1997 con conseguente
diminuzione delle persone occupate in questo settore (U.S. Department of Commerce da
Stewart 1997), ma la spiegazione più evidente e comprensibile è data dallo studio di
Dodsgon e Marceau (2000) dove si sono analizzate le maggiori aree di sviluppo
tecnologico sin dalla prima rivoluzione industriale (Figura 2.1).