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PREMESSA
Dapprima Sarajevo e successivamente Karlovac. Due esperienze di scambi
internazionali in due Paesi dei Balcani non battuti dal turismo di massa e, proprio per
questo, molto interessanti. Chi oltrepassa la frontiera nota immediatamente quanto
siano ancora evidenti i segni del conflitto, ormai terminato da quasi vent’anni. Sulle
costruzioni si trovano ancora i fori lasciati dai proiettili, sulle strade meno battute è
necessario porre attenzione agli smottamenti provocati dai bombardamenti, le
associazioni di volontariato lottano tutt’oggi per la bonifica di alcune zone dalle mine,
e le persone che hanno vissuto quel periodo raccontano ancora dettagliatamente le
difficoltà che hanno dovuto affrontare. Ricordo che la parola più utilizzata da alcuni
esponenti della Croce Rossa locale era “propaganda”. Mi riferivano che le televisioni,
le radio ed i giornali locali fomentavano l’odio etnico, demonizzando i popoli dei Paesi
confinanti, dapprima fratelli e successivamente indicati come nemici da combattere e
da eliminare. Non è colpa delle diversità culturali o religiose, dicevano, se sono state
imbracciate le armi. È colpa dei media che hanno attuato questa politica di controllo
e di influenza sulla popolazione. Mi sono arrivate molte notizie confuse, difficili da
interpretare al momento ma che mi hanno incuriosito molto. Sono tornato in Italia
con diverse domande e poche risposte: Sarà vero che i media hanno avuto questa
responsabilità? Come saranno organizzati adesso? Potrebbero essere gestiti come in
Italia o saranno gestiti in maniera del tutto diversa? Da questi interrogativi è nata
l’idea di realizzare questo lavoro, che spiega qual è stato realmente il ruolo dei media
durante il conflitto ed in che maniera sono gestiti ed organizzati oggi. Questa ricerca è
stata resa possibile anche grazie al contributo di “Paralleli – Istituto
Euromediterraneo del Nord Ovest”. Per questo un ringraziamento particolare va alla
Dott.ssa Campana ed a tutti gli intervistati. Grazie alla raccolta dei loro pareri
attraverso interviste dettagliate ho cercato di dare una possibile visione del futuro, in
termini di libertà di stampa e di gestione dei media di questi Paesi, a mio parere
ancora poco conosciuti dai più.
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INTRODUZIONE
Gli anni Novanta sono stati anni di intensi combattimenti in tutte le regioni
Balcaniche: dopo l’ascesa al potere di Miloševid è iniziato un periodo di costruzione e
di diramazione di forti sentimenti nazionalistici; il progetto di espansione della
“Grande Serbia” ha cavalcato gli ideali di conquista ed ha fomentato l’odio e la paura
del diverso attraverso la propagazione di messaggi e di notizie errate o fortemente
compromesse. Il popolo è stato preparato al conflitto già dagli anni Ottanta, quando
tutte le Nazioni dell’ex Jugoslavia erano pronte ad affrontare una guerra dura e
cruenta, caratterizzata dal mancato rispetto delle Convenzioni internazionali, del
Diritto Internazionale Umanitario e tristemente famosa per la moltitudine di crimini
commessi a sfondo razziale. In questo panorama il ruolo dei media locali non è stato
certamente secondario. Televisioni, radio e giornali erano controllate dal governo
centrale e solo in rari casi riuscivano a fornire al pubblico un’informazione diversa
dalla “tanto amata” versione ufficiale. Il lavoro dei giornalisti era reso complesso dalla
paura di incappare in ritorsioni fisiche o economiche e di conseguenza non tutti erano
in grado di ribellarsi ad un sistema così rigido come quello del regime.
“Ho un amico che all’epoca di
Miloševid aveva ricevuto un’eredità
ed aveva deciso di comprare un
appartamento. Sceglieva la casa
andando in giro con una radiolina
portatile in mano. Più importante
della localizzazione, della quadratura
e della qualità dell’immobile era
verificare se si captava la stazione
radio B92. Se non c’era ricezione non
se ne faceva nulla dell’acquisto.”
Dragon Petrovic, la radio nella Serbia
del dopo Miloševid, Unicopli, Milano
2005.
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Il presente lavoro si pone come obiettivo quello di analizzare la situazione in tre Paesi
dell’ex Jugoslavia: Croazia, Bosnia e Serbia. La scelta di questi tre Stati ricade
principalmente su fattori personali. Durante la mia permanenza nell’entroterra
croato ed a Sarajevo sono rimasto colpito da quanto fossero ancora tangibili i segni
lasciati dal conflitto. È inoltre indispensabile, per avere una chiara lettura d’insieme,
inserire nell’analisi anche il Paese dal quale ebbe tutto origine: la Serbia. Il filo logico
seguito per la stesura di questa tesi racchiude in sé diversi passaggi: le chiavi di
lettura sono di tipo temporale e ripercorrono il percorso del ruolo dei media dagli
anni novanta ad oggi, concludendosi nell’analisi delle prospettive di sviluppo futuro
che riguardano questi tre Stati.
Il primo capitolo tratta quindi la ricostruzione degli eventi che hanno portato al
conflitto centrandosi sul ruolo dei media come “costruttori di odio”. Vengono
utilizzate diverse interpretazioni di questo fenomeno che spaziano dalla teoria della
creazione del panico morale, a quella evoluzionistica del controllo mediatico per
arrivare alle strategie di controllo vere e proprie che il governo centrale utilizzava per
impedire la libera circolazione di informazioni. Vengono inoltre analizzati i casi di
“resistenza mediatica” ed il ruolo dei media liberi che cercavano di combattere il
regime attraverso un’informazione chiara e trasparente. Ci si concentra inoltre sul
ruolo dei new media e sulla collaborazione tra gli organi di informazione locale e
quelli internazionali.
Il secondo capitolo analizza nel dettaglio la situazione attuale di Croazia, Bosnia e
Serbia: partendo dallo sviluppo tecnologico che questi tre Paesi hanno raggiunto oggi
si analizzano i dati raccolti in merito alla questione legislativa attuale, ai broadcaster
pubblici e privati presenti sul territorio ed al modo in cui questi vengono
sovvenzionati. L’obiettivo è quello di comprendere come sia strutturato il menù
mediatico e quanto siano rilevanti, ove presenti, gli investimenti dei grandi
broadcaster internazionali in termini di pluralismo.
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Il terzo capitolo parla invece del futuro e delle possibili prospettive di sviluppo, sia in
termini di libertà di stampa che in termini di evoluzione tecnologica. Per raggiungere
questo scopo sono state condotte otto interviste qualitative a giornalisti ed esperti
del settore provenienti da tutte le realtà balcaniche.
La tesi segue quindi un duplice percorso: da un lato si sofferma sulla ricostruzione
degli eventi passati e dall’altro indaga su quali potrebbero essere le risorse da
mettere in campo per risolvere i molti problemi che ancora attanagliano questi Paesi,
sia in termini di libertà di stampa che in termini di sviluppo tecnologico.
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PRIMO CAPITOLO
I MEDIA COME “COSTRUTTORI DI ODIO”
1.1 Da Tito a Miloševid : la creazione del “panico morale” attraverso i media
L’obiettivo del presente capitolo è quello di comprende in che modo sia
mutato il ruolo dei media, in particolar modo di televisione e radio, dalla caduta di
Tito all’ascesa di Miloševid in Serbia. Il dittatore serbo sarà infatti il fautore ed il
responsabile di tutti questi mutamenti. Come vedremo ci saranno diverse evoluzione
che porteranno i media, in particolar modo quelli Serbi, ma anche quelli Croati e
Bosniaci, a diventare dei veri e propri costruttori di odio, preparando così la
popolazione alla guerra e giustificandone anche l’esistenza. Per fare ciò si
utilizzeranno tre lenti interpretative: il Panico Morale teorizzato da Cohen, lo studio
di Stjpan Grendelj sui mutamenti dei media nei paesi dell’ex Jugoslavia ed infine la
teoria dell’agenda setting. Il primo dato che sicuramente emerge è che l’evoluzione
dei media, dapprima Jugoslavi e poi successivamente Serbi, si lega indissolubilmente
alle vicende politiche che coinvolgono questi Paesi, è quindi utile ripercorrere, seppur
brevemente, i principali eventi storici che hanno portato all’ascesa di Miloševid.
Possiamo poi identificare diverse tappe del percorso dei media rivolto all’influenza
dell’opinione pubblica che analizzeremo nel dettaglio in questo capitolo: dapprima la
creazione del panico morale attraverso l’inserimento nell’agenda mediatica di notizie
riguardanti le differenze etniche e sociali tra i popoli, unita alla confusione mediatica
e la censura vera e propria, oltre all’auto censura dei giornalisti costretti a sottostare
al regime per mantenere il proprio lavoro, per poi arrivare ad un aperto conflitto tra
un circuito mainstream controllato dal potere e le numerose radio libere che
nascevano sul territorio balcanico. Per comprendere appieno questa evoluzione è
necessario ripercorrere i principali eventi che hanno portato alla disgregazione della
Jugoslavia ed alla nascita delle diverse repubbliche balcaniche.
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Negli anni Venti, il regno dei serbi, croati e sloveni era uno stato recente, nato nel
1918 da circostanze storiche particolarmente favorevoli, createsi tra il 1918 e il 1921,
e legate soprattutto all’esito della prima guerra mondiale. La costituzione fu votata il
28 giugno 1921. Essa istituì uno stato centralizzato, suddiviso in 33 regioni (ridotte poi
a nove nel 1931) che ignoravano i confini etnici. Si era riusciti in sostanza ad unire tre
etnie, tre culture, tre chiese provenienti da due religioni storicamente in contrasto tra
loro: la religione cristiana ( collegata al resto dell’Europa) e quella mussulmana
(retaggio del dominio turco). Questa regione per secoli è stata un punto di incontro e
spesso di contrasto fra culture, politiche, religioni molto diverse tra loro, la cui
dinamica non è mai stata risolta in una integrazione ma spesso è servita ad attutire le
tensioni provenienti dai paesi confinanti. Belgrado, oltre ad avere avuto sempre una
rilevanza strategia, poiché sorgeva sul punto in cui confluiscono i due fiumi Danubio e
Sava, in tempi passati si era trovata ai confini dell’impero austro ungarico e
dell’impero ottomano. In anni più recenti la funzione della Jugoslavia fu quella di
essere uno “stato cuscinetto” nel periodo della Guerra Fredda. Grazie alla sua
posizione strategica e alla forte personalità di Tito, il paese ebbe la possibilità di avere
rapporti diplomatici sia con gli Stati Uniti che con l’Unione Sovietica.
La sua posizione di autonomia rispetto alle due potenze la portò a diventare la
nazione guida degli stati non – allineati. Uno Stato come quello jugoslavo,
multinazionale e multiculturale, poteva sopravvivere solo con presupposti
d’integrazione sociale e forme politiche in grado di risolvere quotidianamente, i
conflitti tra i singoli gruppi nazionali, etnici e culturali da una parte, e lo stesso Stato
comune, dall’altra. Perché ciò fosse possibile, era necessario che lo Stato desse la
priorità ai diritti individuali politici e sociali dei cittadini, e solo successivamente
garantisse i diritti collettivi.
Tuttavia, la Jugoslavia garantiva diritti alle nazionalità, alle minoranze e alla “classe
proletaria”, trascurando del tutto i diritti dell’individuo. Il singolo partecipava alla vita
politica e sociale sempre in quanto membro di una collettività, nazionale o di classe.
D’altra parte, in una società monodimensionale e in un sistema politico
monopartitico, il pluralismo di interessi non poteva che essere espresso attraverso
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categorie “nazionali”. Tito riusciva bene in questo compito, essendo il simbolo del
patriottismo jugoslavo riusciva a tenere insieme una nazione dalle mille sfaccettature
differenti. Il suo ruolo nel controllare i media era del tutto diverso da quello che sarà
poi il ruolo di Miloševid: Tito esercitava sicuramente, essendo il leader di un regime,
uno stretto controllo sull’informazione, ma questo controllo non era volto alla
creazione di paure e diffidenze nel popolo, bensì alla salvaguardia di una visione
positiva del proprio regime.
Esisteva quindi già all’epoca di Tito un controllo politico sui media, ma Miloševid
cambierà questo tipo di visione del concetto di controllo e la evolverà in negativo,
calcando ed incitando, utilizzando i media come veicoli per trasmettere false
informazioni, il “Panico Morale”. Secondo questa teoria, espressa da Cohen nel 1972,
esso è “*…+ l’intensità dell’espressione di un sentimento nella popolazione su un
problema che sembra minacciare l’ordine sociale. Una condizione, un episodio, una
persona od un gruppo di persone, emergono, e finiscono per essere definiti come una
minaccia per i valori sociali e gli interessi condivisi*…+”
1
Il collasso del sistema politico
e sociale, dovuto alla scomparsa del “collante” Tito, è un ambiente perfetto
all’interno del quale si può diffondere questo tipo di panico.
Ad aggravare ulteriormente la situazione è l’arrivo di una profonda crisi economica,
scoppiata a seguito della morte di Tito e che colpisce tutta la Jugoslavia. La
percezione di uno sviluppo economico diseguale conseguente al funzionamento
naturale di alcune forze economiche, può produrre negli individui sentimenti di
deprivazione relativa rendendoli politicamente inquieti in certe circostanze e
particolarmente sensibili alle espressioni di nazionalismo. Sono proprio tali
“sentimenti di deprivazione”, derivanti dall’accresciuta scarsità delle risorse
economiche, che favoriscono un crescente senso di minaccia collettiva e che
predispongono i membri di un gruppo al pregiudizio e, nel caso del gruppo etnico, al
pregiudizio etnico e al nazionalismo. La crisi economica, quindi, favorisce tra le altre
1
S.Cohen, Folk Devils and Moral Panic,Routledge,NY 1972.
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cose la sostanziale modificazione dell’immagine del “nemico collettivo”
2
. La politica
ufficiale jugoslava identificava chiaramente il nemico collettivo come esterno allo
Stato federativo; il Movimento dei Non Allineati, di cui la Jugoslavia di Tito era
membro attivo, concretizzava tale orientamento. Le politiche di mobilitazione della
“difesa popolare” mantenevano la coesione interna con funzione difensiva rispetto al
nemico esterno sempre presente. Dopo la morte di Tito e il crollo della
contrapposizione tra i blocchi, l’identificazione del nemico appare prima confusa e
poi definitivamente cambiata: alla vigilia della disgregazione della Federazione
jugoslava, il nemico assume sembianze “interne” attraverso un processo di
demonizzazione del nemico di casa. Quest’ultimo diventa l’Altro, ovvero colui che non
appartiene al nostro gruppo etnico o alla nostra nazione, la cui immagine viene
volutamente distorta per suscitare nell’ingroup sentimenti di ostilità, paura di essere
oltraggiati, senso di minaccia, bisogni di difendersi e di aggredire. Sono proprio questi
sentimenti che Miloševid cavalca e sfrutta per creare Panico Morale nella
popolazione: la crisi economica porta ad una forte instabilità e, di conseguenza, i
cittadini sono naturalmente portati a cercare un responsabile di questo malessere.
Miloševid riesce, utilizzando i media da lui controllati, a spostare l’attenzione della
gente da una innegabile responsabilità politica nella creazione e nella mancata
gestione della crisi economica, ad una responsabilità presunta del nuovo nemico: il
“vicino di casa”. La condizione, teorizzata da Cohen e ripresa da Miloševid, che porta
all’accrescimento del panico molare è quindi l’incertezza su di un futuro sicuro a
causa della profonda crisi. I media controllati hanno quindi grandi responsabilità in
questo processo: trasmettendo continue informazioni che riportavano il cittadino
bosniaco o croato, già differente per religione ed etnia, come il responsabile di
questo malessere, è chiaro quindi come il popolo Serbo sia pronto ad accettare un
eventuale impiego della violenza nei loro confronti. Possiamo analizzare la situazione
anche utilizzando un’altra lente interpretativa, ovvero la teoria dell’agenda setting: in
televisione non si dice allo spettatore che cosa egli deve pensare di un certo tema,
ma gli viene implicitamente consigliato su quale argomento porre la propria
2
Ivi, pag. 250.
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attenzione e su quale, invece, non vale la pena di soffermarsi. Per attuare la
costruzione dell’odio e la diffidenza nei confronti del nemico i media balcanici hanno
utilizzato questo sistema fino a portarlo al limite. In televisione si parlava solo ed
esclusivamente di quanto fossero crudeli i soldati della nazione considerata nemica, il
tema dell’odio razziale ricopriva infatti il 90%
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del tempo di un telegiornale dei mesi
precedenti il conflitto. La crisi economica e la povertà latente non venivano più
neanche inserite nei temi di discussione, probabilmente anche perché lo stesso
Miloševid non aveva le competenze ed i mezzi per affrontarla. Lo spettatore medio
era quindi distolto dal tema della crisi economica, ed era distratto con l’obiettivo di
creare in lui diffidenza e paura verso il prossimo. Si faceva inoltre un grande uso della
censura soprattutto in televisione, il medium più seguito dalla popolazione e quindi in
grado di manipolare in maniera migliore l’opinione pubblica. In particolare fu posta
una grande attenzione soprattutto ai canali direttamente controllati dal governo,
primo fra tutti Rts in Serbia.
1.2 Stjpan Gredelj teoria evoluzionista del controllo mediatico
Ed è proprio in questo periodo di forti mutamenti che Stjpan Gredelj identifica
la prima fase della guerra dei media: “la guerra contro i Media”: il regime tardo
comunista concentrò i suoi sforzi per frenare la tendenza all’autonomia della sfera
pubblica e all’indipendenza della società civile. Da un lato i giornalisti volevano
rompere i legami del controllo politico e opporsi alle strategie di informazione
imposte dall’alto, dall’altro si manifestava la resistenza da parte del regime che li
percepiva, a ragione, come una minaccia. Le lotte per la libertà di stampa, primo
segno chiaro del desiderio di democrazia, si diffusero in tutto il territorio a macchia di
leopardo. La discussione pubblica, anche su temi politici scomodi, diventò sempre più
aperta negli ambiti intellettuali e culturali, e iniziò a mettere in discussione le basi
stesse del sistema. Questi nuovi venti di liberalizzazione non sono però stati accolti
nello stesso modo dalle élite politiche delle varie Repubbliche. Mentre in Slovenia i
comunisti accettarono di discutere anche sulla possibilità di una trasformazione
3
E.Bajasevic, Una radio contro, Bulzoni Editore, Città di Castello 2007.