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Introduzione
I mezzi di comunicazione di massa come cinema, televisione, radio,
internet, sapientemente indottrinati, gestiti e canalizzati trasmettono e
spesso impongono immagini e modelli culturali, aggredendo e
penetrando la sfera dei processi cognitivi. La conseguenza prima e più
tangibile è che il corollario dell’esperienza umana ne risulta
interamente filtrato. Nello specifico, estrapolando fra i vari media il
messaggio visuale, si potrebbe dire che questo trasforma l’Homo
Sapiens, prodotto dalla cultura orale e scritta, in Homo Videns, ossia
manipolato dal primato dell’iconorrea, cioè del prevalere del visibile
sull’intelligibile. L’acquisizione visiva diventa allora strumento
antropogenetico poiché trasforma il modo in cui l’uomo realizza una
concreta esperienza della realtà.
L’effetto di tale esposizione si riscontra nell’ idolatria dello strumento:
tutto ciò che passa attraverso la percezione visiva viene più facilmente
considerato come veritiero. La tecnologia visuale diviene il centro
della conoscenza e dell’esperienza dell’ambiente circostante, creando
una con-fusione fra realtà e rappresentazione, nascondendo messaggi
latenti dietro immagini apparentemente innocenti.
Ogni cultura esplica, in base agli strumenti tecnologici di cui dispone,
una determinata immagine dell’uomo, accompagnata da un insieme di
valori e rappresentazioni: le tecnologie dei media generano nuovi
ambienti dove diffondere l’icona identitaria in base a sfaccettature
immaginifiche. L’identità del’uomo moderno e post moderno è quindi
paragonabile, in quanto costrutto sociale, ad uno strumento
tecnologico: è così che il medium diventa il messaggio, e l’identità
che ne consegue dipende strettamente da quello che le immagini
veicolano.
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Nella coesione fra identità e tecnologia occorre però ricordare un
concetto tanto ovvio quanto spesso relegato all’oblio: la realtà
concreta non è quella che appare negli schermi cinematografici o
televisivi; la cultura dell’immagine, non rivestendo le caratteristiche
dell’originalità, pertanto, risponde ad una rappresentazione parziale
della realtà.
Da un punto di vista storico e socio-antropologico le tecnologie audio
visuali hanno dapprima asservito gli interessi politici ed economici del
colonialismo imperiale, edificando l’immagine della cultura
occidentale dominante che ingloba e ibrida le culture autoctone, in una
fantasiosa ipotesi di superiorità sociale e morale. Le immagini dei film
coloniali sono state conformi agli scopi veicolando le azioni delle
nazioni coloniali in icone di grande acclamazione sociale.
Successivamente, grazie alle svolte visionarie di alcuni antropologi,
fra i quali Eric Michaels ed Edmund Carpenter, la disciplina
antropologica ha saputo e potuto evolversi nella corrente mediatica,
divenendo antropologia dei media (o antropologia visuale): in tal
modo, le tecnologie visuali sono diventate validi strumenti per la
denuncia della realtà sociale, con particolare riguardo alle aree più
‘remote’ dell’umanità, frequentemente vessate dagli attacchi della
cultura occidentale.
Questo lavoro è suscettibile di offrire una prospettiva teorica e
metodologica circa le connessioni fra vita umana ed utilizzo dei
media, il ruolo dell’antropologia visuale in questo contesto, gli effetti
dei media nelle società autoctone e la capacità di queste ultime ad
adattarsi al cambiamento tecnologico mantenendo viva la dimensione
simbolica, tradizionale, rituale e mitica.
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Capitolo 1. Antropologia dei Media: un viaggio attraverso la
sinergia esistente fra uomo e tecnologia visuale.
1.1 La prospettiva Tecnologica: “il medium è il messaggio”
Per affrontare l’argomento antropologico sui media occorre conoscere
lo studioso Marshall McLuhan, poiché la teoria sui media è
indissolubilmente legata alle sue opere e al suo pensiero: egli fu il
primo che, nella sua opera “Galassia Gutenberg” (1976), consacrò
l’importanza dei media nella storia e nella vita umana. Lo studioso
sostiene che ogni mutamento verificatosi nel corso della storia
dell’umanità sarebbe stato determinato dalle innovazioni tecnologiche
createsi nel campo della comunicazione, fattore che avrebbe
influenzato in modo massivo la vita dell’umanità, penetrando sia
nell’organizzazione sociale che psicologica dell’epoca coeva agli
stessi. Risulta evidente come, a partire da un concreto determinismo
tecnologico, McLuhan fu capace di sottolineare il passaggio, avvenuto
nell’era moderna, dalla cultura orale alla cultura alfabetica:
l’invenzione di Gutenberg, ossia la stampa a caratteri mobili, rendeva
possibile forgiare le menti, le idee e gli atteggiamenti sociali poiché la
tecnologia tipografica modella l’uomo meccanico occultandone le
radici orali. La nascita dunque della cultura alfabetica, e il
conseguente conflitto con il mondo dell’oralità sono i cardini dei
processi più rilevanti della civilizzazione del genere umano.
Il rapporto fra oralità e scrittura deve essere opportunamente chiarito:
già a partire dagli studi di Lévi-Strauss emerge che il linguaggio è il
tratto distintivo dell’uomo, fenomeno sociale che caratterizza la
struttura portante della società. L’uomo, pertanto, non può esistere
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senza comunicazione poiché è sul linguaggio che si fonda tutto
l’edificio cognitivo e normativo della conoscenza. Altrettanto
significativo è il contributo di Ong sull’argomento: la comunicazione
è un sistema di relazioni nella società, mentre le tecnologie che essa
adotta scandiscono i passaggi epocali di civiltà. Il processo di
alfabetizzazione è, allora, un processo di civilizzazione, caratterizzato
dalla separazione fra oralità e scrittura. Assegnando un ruolo ad
entrambe, la parola è “spirito” (inteso come forza viva, attiva e
naturale, in continuo movimento e mutamento) mentre la scrittura è
“tecnologia” (statica, mentale, chiusa, intrappolata nei caratteri
stampati): la cultura alfabetica è da considerarsi, pertanto, come
seconda natura in quanto in essa vi è modificazione psicologica
indotta dai processi di alfabetizzazione. Si avvia così un processo
fondamentale basato sulla riduzione del suono a spazio, e sulla
sottrazione di parole dal presente immediato: questo accade poiché le
modalità attraverso cui vengono percepite le informazioni esercitano
un’influenza determinante su come siano elaborate dalla mente
umana. Secondo Havelock poi, il passaggio dall’oralità alla scrittura
incide sulla dimensione individuale, sull’evoluzione della memoria e
sull’identità collettiva poiché la scrittura ha effetti considerevoli sui
sensi dell’uomo: si acquisisce la “visione alfabetica” che implica
un’intelligenza sequenziale, a causa dell’elaborazione della serie
lineare di simboli visivi. Il messaggio è allora oggettivato, scisso dalla
dimensione spazio-temporale; la conseguenza è che l’uomo crea una
separazione fra realtà concreta e sé, implicando una frattura
dell’essere dovuta all’oggettivazione del pensiero poiché l’elemento
scritto è autonomo, e trascende il corollario storico-sociale.
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Per McLuhan, è evidente come la diffusione della scrittura crea un
mondo artificiale avulso da quello naturale: in quest’ultimo
l’apprendimento era dialogo diretto tra persone, disteso nello spazio
temporale della vita umana e legato all’ambito della collettività. Ciò
non accade, invece, con la tecnologia di Gutenberg: adesso tutta
l’esperienza si riduce ad un solo senso, ossia la vista; si assiste al
declino della dimensione collettiva con il predominio
dell’individualismo, figlio diretto di una cultura orientata visivamente,
in cui è rimossa l’interazione faccia-a-faccia e viene incoraggiata la
meccanizzazione, la quantificazione, l’omogeneizzazione e la privacy.
La stampa è la tecnologia che ha reso possibile l’era moderna, in cui i
nuovi media, estensione del’uomo, modellano e trasformano tutti gli
ambiti psichici e sociali, divenendo parte integrante dell’ambiente in
cui egli vive. Le macchine sono estensioni delle estremità e dei sensi
dell’uomo. Gli effetti della tecnologia investono i modelli della
percezione umana, trasformando gli stessi organi di senso di cui gli
uomini sono dotati. Ogni nuova tecnologia si trasforma in parte
integrante dell’ambiente, per cui il medium rappresenta il vero
messaggio in quanto:
- ogni medium crea il suo pubblico;
- modella i limiti e le possibilità della comunicazione del suo
contenuto;
- ne risulta che la società è strutturata dalla natura dei media.
La formulazione “Il medium è il messaggio” è, quindi, la
considerazione più importante di McLuhan: designa che il vero
messaggio che ogni medium trasmette è costituito dalla natura del
medium stesso. Occorre, pertanto, studiare ogni medium a partire dai
suoi “criteri strutturali” con i quali organizza la comunicazione; la
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struttura comunicativa peculiare di ogni medium lo rende non-
neutrale, in quanto capace di infondere negli utenti-spettatori
determinati comportamenti e modi di pensare, dai quali emerge una
particolare forma mentis. Ogni medium, dunque, condiziona i propri
utenti e contribuisce a plasmarne la mente.
Ad esempio, McLuhan osserva che il medium tipografico ha avuto un
grande impatto nella storia occidentale, veicolando ideologie di
grande rilevanza sociale, quali la Riforma protestante, il razionalismo
e l’Illuminismo che hanno sortito effetti culturali. Esistono anche
alcuni medium che, però, assolvono alla funzione di rassicurare: uno
tra gli altri è, per lo studioso, la televisione, un mezzo di conferma
poiché non crea novità né le suscita, ma riplasma il corollario sociale;
questo è allora un medium che conforta, consola e conferma la realtà
di cui si fa esperienza ogni giorno.
McLuhan contempla l’esistenza di media caldi e media freddi: tale
classificazione è stata più volte discussa e osteggiata, poiché gli
aggettivi “caldo” e “freddo” sono adoperati dall’autore in senso
antifrastico, cioè in senso opposto rispetto al loro reale significato.
Quindi, i media freddi (Tv, telefono, film, cartoni animati) sono quelli
che hanno una “bassa definizione”, per cui richiedono una “alta
partecipazione” dell’utente, in modo tale che egli possa riempire e
completare le info non trasmesse interagendo con il ricevitore; i media
caldi (fotografia e radio) sono caratterizzati da una “alta definizione” e
da una “scarsa partecipazione”, quindi non richiedono la
partecipazione attiva di chi riceve, e inducono alla passività.
I media sono caratterizzati da tecnologie “morbide” che
accompagnano le trasformazioni dell’uomo e dunque della sua
psicologia, delle abitudini e dei suoi comportamenti: che siano caldi o
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freddi questi rappresentano uno spazio vivo di interazione poiché la
vita, nell’era elettronica, si svolge attorno al sistema mediatico.
Nel corso del ‘900, pertanto, si assiste ad un cambiamento di
prospettiva: i mass media impongono, mediante il loro uso quotidiano
e universale, una visione unitaria della società, in cui il mondo è ormai
villaggio globale. Le nuove tecnologie della comunicazione
permettono all’uomo di avventurarsi aldilà dello spazio geometrico, in
questo “villaggio globale” che unifica la duplice esperienza di
globalizzazione e localizzazione poiché le distanze siderali che in
passato separavano il globo si sono ridotte, e il mondo stesso ha
smarrito il suo carattere di infinita grandezza per assumere il profilo di
un villaggio.
1.2 Chi controlla le informazioni? – Il contributo dell’approccio
del conflitto
Gli esponenti della scuola di Francoforte, dalla quale prende avvio
l’approccio del conflitto, sostengono che la comunicazione è
totalmente al servizio del mercato, del consumo e dell’ “industria
culturale”; in questo contesto viene definito, infatti, l’aspetto
massificante e mercificante delle comunicazioni di massa poiché:
- i media tendono a giustificare le disuguaglianze e a
perpetuarle;
- sono servi degli interessi economici e del potere politico delle
classi dominanti;
- fanno parte della “industria culturale”.
Il termine “industria culturale” venne usato per la prima volta da Max
Horkheimer e Theodor W. Adorno (Dialettica dell’Illuminismo, 1942)
per indicare il processo di riduzione della cultura a merce. L’utilizzo
del termine “industriale” vuole render noto proprio l’assoggettamento
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della cultura alle forme organizzative dell’industria, che sono
rispondenti agli interessi economici del capitalismo.
La tecnologia si pone allora come potere di coloro che sono
economicamente più forti – le classi dominanti – quindi come mezzo
di legittimazione del potere costituito.
Lo stesso Adorno scrive:
"Film radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è
armonizzato in sé e tutti fra loro [...] Film e radio non hanno più
bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che affari
che servono loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che
producono volutamente." (Adorno 1947:130-131).
In questo corollario, è evidente come il valore di scambio venga
sostituito al valore estetico, e l’arte piegata alla logica del profitto. In
questo modo l’industria culturale produce un sistema perfettamente
lubrificato capace di escludere la dimensione del “nuovo”, poiché
considerato “inutile rischio”, ed elegge lo stereotipo come norma.
Il mercato di massa impone standardizzazione, omogeneizzazione e
organizzazione: i gusti del pubblico sono preconfezionati, prestabiliti;
viene messo in atto un circolo di manipolazione dei bisogni che lascia
nella latenza quello che in realtà è un gioco economico. Si riesce
dunque ad occultare la reale uguaglianza dei prodotti proposti
magnificandoli con parvenze di originalità e distinzione, creando
ancora una volta l’illusione di una concorrenza e di una possibilità di
scelta. Sotto le differenze, allora, resta l’identità di fondo del dominio
che l’industria culturale persegue sugli individui, che dipinge di colori
diversi i medesimi prodotti.
L’industria culturale, quindi, secondo Horkheimer e Adorno
interviene in modo pervasivo sulle modalità di fruizione dei beni
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proponendo materiale stereotipato e stabilizzato, facilmente
riconoscibile, integrato al sistema, creando così l’opportunità di
canalizzare le reazioni del pubblico. Nell’era dell’industria culturale
l’individuo non decide più in modo autonomo, in quanto il conflitto
fra impulsi e coscienza viene risolto mediante l’adesione acritica ai
valori imposti. La società manipola l’uomo a proprio piacere: il
risultato è che l’influenza dell’industria culturale altera l’individualità
del fruitore, in quanto il meccanismo economico domina sia il tempo
del lavoro che quello del non-lavoro, costruendo prodotti per un
consumo distratto e non impegnativo, in cui ogni connessione logica,
che richiede impegno intellettuale, è rifiutata.
Due esempi eclatanti sono quelli del cinema e della televisione: il
cinema accarezza le emozioni dei suoi fruitori, rendendoli schiavi di
un sogno tangibile solo sullo schermo, che suscita tanto pathos da
trascendere la dimensione reale mentre diffonde ideali precostituiti e
messaggi subliminali; la televisione modifica lo spazio della vita
sociale, poiché l’accesso alle info è il nuovo business strategico, e
l’informazione merce preziosa; dunque, è proprio a partire dallo
schermo e dai codici di comunicazione del medium che vengono letti
gli eventi della realtà circostante, e prendono avvio i processi di
identificazione da parte degli spettatori.
La struttura multi stratificata dei messaggi riflette questa strategia di
manipolazione dell’industria culturale: si occupa di incantare a più
livelli psicologici gli spettatori. In questo frangente, il messaggio
nascosto è più importante di quello evidente, poiché sfuggirà ai
controlli della coscienza e delle resistenze psicologiche nei consumi, e
penetrerà il cervello degli spettatori, manipolandolo come previsto. La
rielaborazione dei bisogni del pubblico avviene attraverso lo schermo
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(televisivo, cinematografico, etc.) in cui i messaggi che passano in
modo latente imbrigliano le capacità critiche degli individui
lasciandoli in balia di una suggestione visiva, che si tradurrà in
comportamento effettivo, ribadendone lo stato di asservimento. Lo
spettatore, infatti, è inconsapevolmente e continuamente posto in una
condizione in cui potrà solo assorbire diktat commerciali, ordini,
impulsi e prescrizioni.
Lo stesso Adorno, a questo proposito, propone di parlare di “mondo
amministrato” delineando una società in cui la tecnologia e il mercato
hanno assunto forme di dominio proprie dei regimi totalitari,
configurandosi come sistemi che negano i valori autentici
dell’individuo, riducendo anche la creatività e l’originalità dell’opera
d’arte (prima fonte di cultura libera) e dell’artista a pura merce di
consumo. Il fruitore non coglie più la vera esperienza dei valori, ma ne
consuma solo la loro apparenza. Emerge la figura del “consumatore di
massa”, soggetto collettivo senz’anima e senza identità, tanto plagiato
dall’industria culturale che non pone alcuna opposizione alla perdita
della sua personalità. L’industria culturale costituisce allora un
sistema asservito alla legge del business in cui la cultura è industria, e
l’atto artistico è rimesso ai soli interessi economici. La “ratio
tecnologica”, cioè l’affermazione del valore assoluto e oggettivo della
tecnica applicata alla produzione, impone un processo caratterizzato
dall’aumento dei consumi e dalla standardizzazione: la realtà così
determinata produce uomini nei quali la sfera dello spirito si riduce al
dominio delle cose; è quindi una nuova versione moderna del
totalitarismo, in cui il principio di autorità (cristallizzato dalla
produzione capitalista) astratto e ingiusto, è il vero principio che regge
la società di massa.
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La società capitalista ha introdotto un alto livello di costrizione,
controllo e manipolazione; la dimensione reale costretta in questi
termini è ancora totalitaria poiché nega ogni possibilità che al suo
interno si sviluppino, per dirla con Habermas, forme di “agire
comunicativo” (agire caratterizzato dalla pluralità di valori condivisi e
dalla spontaneità delle relazioni umane) che si oppongano all’ “agire
strumentale” (logica di dominio della tecnica e del potere). Se la
comunicazione è davvero uno degli aspetti decisivi del carattere
democratico di una società, allora si può tranquillamente dire addio
alla Democrazia.
1.3 La nascita e gli impatti dell’Imperialismo culturale.
Definito come forma di etnocentrismo politicamente operante
costituito da strumenti organizzativi, economici, politici e militari,
l’imperialismo culturale, per queste sue peculiarità, si impone
coercitivamente sul piano mondiale. Esso è infatti quel complesso di
principi, pregiudizi, orientamenti di valori e d”azione che
costituiscono una idea-forza e un principio giustificativo delle
conquiste territoriali, dell’oppressione coloniale e dello sfruttamento
neocolonialista dei popoli “altri”. L’imperialismo, infatti, suppone una
volontà di dominazione e una politica concertata di assoggettamento.
Le antiche potenze colonizzatrici, quindi, possono essere accusate
d’imperialismo culturale nella misura in cui hanno imposto alle
colonie un’acculturazione forzata, costringendole ad accettare la loro
lingua, le loro leggi, le loro istituzioni, il loro sistema economico.
L’imperialismo culturale, pertanto, si profila come prodotto di precisi
interessi istituzionali di carattere politico ed economico, che guidano
le nazioni egemoniche nei loro rapporti con le nazioni “altre”: secondo
questa accezione, i popoli “altri” o sono indegni di essere considerati
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entità rispettabili, o sono assolutamente disposti ad entrare nel circuito
di interessi economici degli occidentali, come poli produttivi passivi e
subalterni. E’ implicito l’assunto che essi rinuncino ai caratteri
essenziali della loro cultura per adeguarsi al modello occidentale,
secondo un iter unidirezionale.
Allo stesso tempo, però, nelle popolazioni subalterne si verifica una
sorta di sindrome di Stoccolma, ed iniziano così ad auto-percepirsi
come beneficiate, protette e inferiori rispetto alle nazioni protettrici. Si
sviluppa così un processo di “vulnerabilità culturale”, ossia un
etnocentrismo “alla rovescia” che Vittorio Lanternari spiega questo
fenomeno come:
[..]una debolezza culturale, che ha come conseguenza l’assunzione
come modello di riferimento positivo la civiltà esterna occidentale,
valutando negativamente come “inferiore’ la propria originaria.[..]
Tale processo si interrompe solo qualora la società nativa acquisisca
l’emancipazione ideologica, oltre che economica e politica. [..]
(Lanternari V.,1979:3)
L’imperialismo tecnologico e culturale emerge qualora i messaggi e le
immagini occidentali soffocano la cultura locale, che viene scalzata
attraverso i media, poiché viene imposta l’assimilazione: la
predominanza di attrezzature tecniche di tipo moderno induce ad
azioni disgregatrici fra le società native, distruggendo anche
importanti sistemi socio-culturali basati sul principio di reciprocità,
sostituendo ad essi la tendenza all’individualismo, al profitto materiale
e l’accumulo privato. E’ in questo modo che si definisce la violenza
dell’imperialismo culturale, che attenta all’identità del gruppo umano
in quanto tale, con la distruzione di valori etnici, culturali, sociali
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propri di ogni popolo. L’imperialismo culturale è quindi un evento di
portata transnazionale, e i suoi effetti sono trans-culturali.
Il flusso di programmi televisivi, film e circolazione di cultura in
generale scambiato tra i Paesi è irregolare, poiché predomina la
cultura occidentale, che impone, attraverso i media, immagini che
ripropongono in modo esplicito, e latente al tempo stesso, significati e
ideologie proprie, al fine di sradicare ed eliminare la cultura locale.
La diffusione dei media a livello mondiale è suscettibile di evidenziare
insane situazioni: una prima denuncia su questo rapporto ineguale
risale al 1980, sviluppata dalla “Commissione internazionale per lo
studio nel campo delle comunicazioni” dell’Unesco, “Many voices,
One world”: vengono riportati il flusso unidirezionale di informazioni
dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, l’approccio
stereotipato agli avvenimenti nel Terzo Mondo. Ma a distanza di
decenni, la situazione non è cambiata. Come osservano Gorman e
McLean in “Media e società nel mondo contemporaneo”
“nel Novecento il risentimento e la preoccupazione per il dominio
americano sui contenuti dei media sono stati un tema ricorrente, nato
negli anni “20 in seguito alla forte posizione internazionale
dell’industria cinematografia degli Stati Uniti. Nell’età postcoloniale
questa preoccupazione veniva espressa ricorrendo all’idea di
imperialismo, culturale o mediatico” (Gorman e McLean,2005:23)
La discussione, corroborata dall’estendersi del controllo delle grandi
società sui media e le industrie collegate, nel corso dei decenni è
approdata ai tavoli internazionali, evolvendosi parallelamente alle
nuove prospettive innestate dall’evoluzione tecnologica. I paesi ricchi
devono interrogarsi riguardo alla supremazia culturale che tendono ad
esercitare, di fatto, nel mondo, attraverso la diffusione della tecnica,
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della scienza, degli stili di vita e attraverso l’eccezionale irradiazione
dei mass-media.
Essere in grado di comunicare ed essere informati liberamente restano
aspirazioni non facilmente raggiungibili per buona parte dell’umanità.
1.4 Mass media e socializzazione: gli effetti dei media sulla società.
Dopo quanto sinora trattato viene spontaneo chiedersi se l’essere
umano possa essere considerato nient’altro che un recipiente passivo
stracolmo di messaggi prodotti dai media. E’ così? L’uomo non può
niente contro il potere dello schermo, contro i suoi messaggi
subliminali? E’ realmente destinato ad essere continuamente
plasmato? Per comprendere quale sia la reale situazione è opportuno,
pertanto, approfondire l’incidenza degli effetti dei media sulla società.
E’ imprescindibile analizzare i media in quanto mezzo impersonale di
trasmissione delle informazioni: la comunicazione, in essi, è
solitamente unidirezionale ed essi, inoltre, sono suscettibili di creare
un pubblico condizionato a ricevere passivamente la cultura di massa.
Non bisogna però tralasciare che i mezzi di comunicazione massivi
sono anche importanti agenzie di socializzazione, capaci di trasferire
la cultura dal livello della società a quello dell’individuo nell’offerta
di un flusso potenzialmente infinito di intrattenimento, di più disparate
info, raggiungendo verosimilmente tutti gli individui. Stabiliscono in
tal modo l’agenda del dibattito politico, culturale ed economico e
contribuiscono a conservare le strutture esistenti del potere.
I mass media si porgono come possibilità di esercitare esperienza
conoscitiva, in una sorta di moderna paideia, diffondendo
l’acquisizione di nozioni relative l’ambiente simbolico circostante,
entro il quale si svolge la vita “vera”, rendendolo comune ai suoi
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fruitori che addivengono così ad un grado di percezione
omogeneizzato della realtà. Risulta evidente che i media creano e
controllano impressioni circa ciò che appartiene alla realtà e alla
dimensione della “verità” detenendo un ruolo di mediazione fra la
realtà sociale oggettiva e l’esperienza personale, integrando quella che
è la percezione diretta della realtà.
Denis McQuail sostiene a tale proposito che:
“[..]le informazioni, le immagini e le idee rese disponibili dai mezzi di
comunicazione possono essere per la maggioranza della gente la
fonte principale di una coscienza di un passato collettivo (la storia) e
dell’attuale posizione sociale (il presente).[..] Le nuove tecnologie,
infatti, possono portare a cambiamenti rivoluzionari dove
l’intermediazione sostituisce o integra il processo di mediazione. “
(McQuail.,2003:76-78)
I media, pertanto, consacrano una nuova mappa dell’identità personale
e sociale, definendo un nuovo ordine di rapporti mediati dai mezzi di
comunicazione, di intensità più debole dei legami personali diretti.
L’uomo, quindi, vive un processo di mediazione del contatto della
realtà sociale, in cui i mezzi di comunicazione di massa rappresentano
l’epicentro da cui si irradiano la percezione e i processi cognitivi.
Vengono rivoluzionati, allora, anche le dimensioni legate allo spazio e
al tempo, compreso l’ambito relativo al senso di appartenenza: l’uomo
è figlio di comunità, gruppi e società costruiti almeno parzialmente
dagli effetti dei media.