5
a perseguire accumulazioni di conoscenza e quindi progresso
scientifico.
Questo Big Bang, che ha coinciso con i primi studi di
antropologia delle società complesse, oggi ci restituisce una
immagine di continua espansione; l'onda lunga ancora non ha
esaurito il suo fattore propulsivo e la strada per una implosione
non si intravede ancora. Nel frattempo piccole galassie si sono
formate contendendosi legittimità, scientificità (o non-
scientificità), finalità più o meno esplicite. Potremmo quasi
definirle scuole se non fosse in molti casi prematuro, dato che ci
sono i caposcuola ma, per problemi generazionali, non ancora i
discepoli.
Il momento della tesi nel mio percorso universitario,
rappresenta un momento di sintesi e di verifica dei tanti
insegnamenti acquisiti, ma anche un'occasione di confronto con i
miei dubbi, le mie convinzioni e le mie emozioni. Lo stile di
umiltà di cui si deve vestire un antropologo di fronte alla realtà,
mi fa apparire la strada percorsa ancora una partenza, e la meta
una lontana chimera.
6
Questo corso di laurea mi ha dato molte opportunità di
condurre ricerche, occasioni che non mi sono lasciato sfuggire:
1. A coronamento di un corso di antropologia culturale con
il Prof.re Massimo Canevacci, ho fatto una analisi dei
linguaggi pubblicitari (analisi dell'immagine del morente di
AIDS, nella campagna pubblicitaria della Benetton; pubblicata
su L'Ermete. (Rivista transdisciplinare di Psicoanalisi e
Antropologia culturale, N. 2, Anno 2, VII, Luglio - Dicembre
1992).
2. Il Prof.re Vincenzo Padiglione mi ha dato la possibilità
di collaborare con lui all'allestimento di un museo etno-
antropologico sui monti Lepini, per tale lavoro ho trascorso un
mese a Roccagorga (Latina).
3. Frequentando inoltre il corso di Sociologia del lavoro
del Prof.re Domenico De Masi, con un gruppo di lavoro, ho
studiato l'organizzazione del lavoro creativo nel Dipartimento
Scuola Educazione della RAI.
4. Con la cattedra di Etnografia del Prof.re Augusto De
Vincenzo, abbiamo avviato una rilevazione fotografica dei
modi di autorappresentazione degli occupanti i centri sociali
fondando un gruppo di studio permanente (Ulysses). Questo
lavoro mi ha introdotto alle problematiche etnografiche in
antropologia urbana, e all'uso della fotografia come
documentazione etnografica.
7
5. Questo gruppo di studio nel '95 ha contribuito al primo
convegno italiano Culture giovanili e conflitti metropolitani
con il saggio (pubblicato dalla Costa & Nolan in Culture del
conflitto) Graffi musicali e ritmi visivi: sinestesie nei territori
metropolitani.
6. Da ultimo, nel giugno '95, abbiamo partecipato come
équipe di ricercatori alla manifestazione Quartieri tenutasi a Tor
Bella Monaca. Producendo un rapporto di ricerca.
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INTRODUZIONE
La città è un concetto, e come tale è in continuo movimento,
nessuno può pretendere di poterla definire una volta per tutte,
poiché se i concetti sono delle nuvole (U. Eco), la loro forma è
sfuggente e impenetrabile. Tuttavia il mondo del consumo ne da
una immagine esplicita, là dove deve creare uno sfondo al
prodotto che risalta sullo scenario per contrasto o per attiguità.
Così la città viene concettualizzata in modo univoco solo in
particolari microcosmi di consumo, che la interpretano a proprio
vantaggio. Analizzare la struttura architettonica degli shopping
center romani significa studiare la forma dell'edificio, le divisioni
interne, i luoghi di passaggio, l'incanalamento dei flussi, gli
elementi architettonici particolari che determinano nella pratica
dell'attraversamento determinati usi degli spazi. In che modo
l'ideologia del consumo interviene sugli elementi architettonici,
sull'organizzazione degli spazi e sui motif degli shopping center?
Quale relazione deve esserci fra urbanistica, semiologia,
9
topologia ed economia per creare i nuovi "centri" artificiali di
vita collettiva?
E' indubbio che al cospetto di fenomeni urbani, e in particolar
modo di costruzioni adibite a commercio, il contributo
dell'antropologia deve colmare handicap teorici e metodologici
rispetto alle altre scienze sociali. L'esperienza che ho potuto
effettuare negli anni di studio e di ricerca universitaria, mi hanno
portato alla conclusione che per i tempi e per i modi di cui ha
bisogno una ricerca di antropologia urbana è necessario un lavoro
di gruppo. Il gruppo deve certamente avere determinate
caratteristiche interne di condivisione etica prima e teorica poi,
del campo di ricerca che va ad esplorare, permettendo una ricerca
sincronica su vari Ω Ρ Σ Ρ Λ urbani, permettendo una progressiva
verifica e sintesi in seno al gruppo degli orientamenti che
emergono nel corso della fase empirica.
Data la natura individuale di una tesi, ho pensato che fosse
indispensabile prima una fase di problematizzazione storica e
teorica, e poi analizzare un oggetto molto circoscritto per
condurre una ricerca più approfondita possibile. Con il passare
del tempo, dopo parecchie ore di osservazione, l'oggetto
apparentemente inerte inizia a comunicare i significati più
reconditi e si apre ad una considerazione antropologica. Gli
10
strumenti teorici iniziano a trovare una loro collocazione, ma al
tempo stesso vengono mediati e modificati in un quadro
connettivo più ampio ed esplicativo. In questo caso l'analisi
semiologica ha la funzione di favorire l'esplicazione di alcuni
significati iscritti in un apparentemente passivo manufatto
architettonico. Il grande limite di questa ricerca è la sua
preponderante essenza cerebrale, con scarse aperture alle
interpretazioni ed ai vissuti dei soggetti. D'altra parte
l'antropologia culturale ha già sperimentato un elevato livello di
analisi visuale, decostruzione del testo, ricerca di relazioni
simboliche prescindendo (haimè) da un confronto con i gruppi
sociali di riferimento. Io non riuscirò in questo lavoro ad evitare
questo vuoto, ma forse posso preparare la strada ad una ricerca
successiva, utilizzando le considerazioni qui contenute come
sfondo teorico.
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CAP. 1 SPAZIO, CENTRO E METROPOLI
"Cu àbbita àbbita e cu nun
àbbita mori"
Se noi dovessimo addentrarci nel concetto di centro, e
volessimo capirlo nelle sue implicazioni profonde, dovremmo
fare un grande sforzo di immaginazione, in quanto questo
concetto agisce in noi in modo così profondo che potremmo
definirlo una condizione esistenziale permanente senza la quale
la coerenza della nostra vita naufraga nel nulla.
Per Rudolf Arnheim, studioso di psicologia della percezione
visiva, il centro non solo è di fondamentale importanza per
l'organizzazione cognitiva della realtà, ma è anche il principio
che elabora due sistemi spaziali, dalla cui integrazione deriva il
nostro orientamento: uno è il reticolo cartesiano costituito da assi
12
verticali ed orizzontali; l'altro è la centricità del corpo umano
come organizzazione, come punto di vista sul mondo
1
.
Al di là dell'aspetto percettivo, l'uomo ha connotato
continuamente lo spazio in modo culturale. Il centro inizialmente
era un locus, cioè un posto fisicamente determinato, posizionato
in modo equidistante, a volte anche periferico, rispetto al
territorio a cui si riconosceva di appartenere. Qui aveva avuto
origine il mondo, raccontato attraverso la cosmogonia, e rispetto
ad esso la spazio acquistava connotati simbolici e rituali. La
caratteristica di questi posti è quella di fissare non solo uno
spazio, ma anche un tempo mitico, astratto dalla contingenza
storica, ed è per questo che, prendendo in prestito un termine di
Bachtin, possiamo definire il centro come un cronotopo, ossia un
insieme spazio-temporale, che organizza la coerenza dei nostri
atti.
Potremmo immaginare di partire per una missione spaziale e
trovarci in orbita intorno alla terra. In questo caso il nostro centro
sarebbe la terra attorno alla quale giriamo; sebbene il nostro
corpo fluttui privo della forza di gravità, noi avremmo dei punti
di
1
Cfr.: Remotti F., Scarduelli P., Fabietti U., Centri, Ritualità e
Potere. Significati antropologici dello spazio, 1989, Il Mulino, Bologna,
p.12.
13
riferimento, delle pareti, delle strutture e dei movimenti coerenti,
che ci collocherebbero spazialmente e temporalmente.
Conosciamo il tempo che si deve impiegare per compiere un giro
intorno alla terra, riconosciamo l'ordine degli astri e possiamo, se
siamo fortunati, distinguere i continenti del pianeta dal quale
siamo partiti. Se per un problema di avaria, o per un esperimento,
dovessimo uscire dalla navetta spaziale e 'passeggiare' nello
spazio, ci sentiremmo come degli esseri che, non sapendo
nuotare, si trovano in mezzo all'oceano attaccati al proprio
salvagente. 'Orbiteremmo' intorno al nostro centro più prossimo
(la navetta) ancorati con un tubo che ci ossigena e ci tiene legati
via radio alla terra. Ma se per disgrazia perdessimo quest'ultimo
contatto e il tubo si spezzasse, ecco che saremmo
immediatamente sradicati da ogni ancoraggio e spinti in un
movimento, in uno spazio e in un tempo del tutto incontrollabili.
Saremmo senza più punti di riferimento, non perché non li
percepiamo, ma perché non possiamo agire su di essi, per
ricollegarci a loro e per orientare la nostra azione.
Questo esempio così moderno vuole sgombrare il campo
dall'idea che il centro sia un concetto valido in etnologia, ma non
in un contesto contemporaneo; sebbene ci siano stati dei grandi
cambiamenti nella sua definizione culturale, esso è ancora oggi
un principio al quale tendiamo.
14
Fin dal 1940, anno della pubblicazione dell'articolo Fattori
linguistici nella terminologia dell'architettura Hopi da parte di B.
Lee Whorf, si fa strada nella consapevolezza antropologica un
atteggiamento relativistico rispetto alla percezione, e alla codifica
culturale dello spazio rispetto alle varie etnie. Gli Hopi non
hanno nel loro vocabolario termini che possano denotare luoghi
uniti a funzioni, o spazi chiusi tridimensionalmente. I termini che
indicano aspetti spaziali o sono riferiti a decorazioni
architettoniche (con una grande varietà di sfumature) o alla
relazione tra luogo e individuo.
Attraverso questo atteggiamento emico allo spazio, possiamo
addentrarci ora in una analisi di alcune modalità, che gli uomini
hanno adottato per rappresentarsi non solo il centro, ma anche lo
spazio. Vedremo come la perdita del centro, o del simbolo che lo
rappresenta, comporti un disorientamento tale nei popoli studiati
dall'etnografia, da determinarne una profonda crisi culturale e, in
alcuni casi, la morte. Poi vedremo come la città e il suo abitato in
un primo tempo siano strettamente legate alla cosmogonia e alla
sacralità dei luoghi, e come, in epoche più recenti, altri fattori
abbiano influenzato la percezione e il vissuto degli spazi,
conducendoci all'attuale polisemia urbana.
I luoghi fisici sono diventati anche luoghi del pensiero, utopie
e eterotopie, che non sono di secondaria importanza: esse ci
aiutano a scorgere in controluce lo spazio reale.
15
Il centro mobile e le società acquisitive e
nomadi (gli Aranda)
Gli Aranda sono una popolazione nomade stanziata nel sud-est
dell'Australia. Il loro sistema sociale è organizzato in fratrie che,
a loro volta, si distinguono in clan. Ogni clan ha un totem, cioè
un nome proprio, che caratterizza l'identità degli appartenenti. La
discendenza delle persone è variabile, può essere matrilineare o
patrilineare; in alcuni clan vi è addirittura la credenza che la
donna sia fecondata da un antenato mitico, che risiede in quella
zona.
Uno di questi clan degli Aranda ha il nome di Achilpa (gatto
selvatico), ed è stato osservato da Spencer e Gillen
2
alla fine del
1800; dai loro resoconti etnografici, molti autori occidentali
come Ernesto de Martino, Emile Durkheim e Mircea Eliade,
hanno tratto materiale per dare le loro spiegazioni della
percezione dello spazio fra queste popolazioni. E' molto
interessante osservare come la società, il mito e lo spazio si
organizzino su piani semantici omologhi. Nel mito di fondazione
16
il Dio Numbakulla scese sulla terra e, partendo da Lamburkna
(località all'estremo sud della terra Arunta) come primo atto,
ordinò il territorio tribale fondando i vari centri totemici locali.
Tornato nel luogo di partenza, egli generò la prima anima:
questo atto fu possibile solo dopo che il dio, scelta una grotta,
ebbe disegnato due immagini totemiche, una all'interno ed
un'altra davanti ad essa; al centro di quest'ultima immagine eresse
il primo palo totemico Kauwa-auwa. Solo allora poté immettere
la prima anima del primo capo di tutti gli Aranda in un churinga
(strumento in legno che viene suonato facendolo roteare
vorticosamente) all'interno della grotta. Successivamente creò
tutti i capi degli altri gruppi totemici, che furono distribuiti sul
territorio dal primo grande spirito a cui fu affidato il primo
campo di Lamburkna. A questo punto il Dio Numbakulla coprì di
sangue il palo sacro Kauwa-auwa e salì invitando il primo capo a
seguirlo; questi, però, scivolò giù per via del sangue cosparso e il
dio, ritirato a sé il palo, scomparve per sempre.
2
Spencer B. e Gillen F.J., Native Tribes of Central Australia,
Loandra, 1899, MacMillen & Co., Londra; The Arunta, a study of a stone
age people, 1926, MacMillen & Co., Londra.
17
Questo mito, che viene riportato da Durkheim
3
, rende esplicito
il tema della cosmizzazione dello spazio, del suo orientamento e
della istituzione delle regole e delle pratiche per viverlo. I capi,
infatti, vengono iniziati ai riti subito dopo essere stati creati, riti
che impongono di incentrare intorno al palo sacro la vita dei clan:
alla sua ombra i novizi vengono iniziati, il capo ha il dovere,
attraverso riti adeguati, di conficcare il palo nel terreno nel luogo
dove il clan decide di stanziare, e quindi di sradicarlo e portarlo
con sé in ogni spostamento migratorio:
“Questo palo rappresenta l’asse cosmico; è infatti
intorno ad esso che la terra diventa abitabile e si trasforma
in mundus”
4
Secondo un'altra lettura, Kauwa-auwa è un asse cosmico che
sorregge la volta celeste, affinché non crolli sulla terra:
Questo palo, che morfologicamente presenta un
aspetto che lo apparenta alla ben nota categoria dei centri
cosmici (assi cosmici, montagne cosmiche, alberi del
3
Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, 1990,
Armando, Roma, p.111-129.
4
Mircea Eliade, Occultismo, stregoneria e mode culturali, saggi di
religioni comparate, 1982, Sansoni, Firenze, p.22.
18
mondo), appare anzitutto nel mito Achilpa, come un
centro di comunicazione fra i diversi piani cosmici...
5
Attraverso questo insieme di significati che vengono a
distendersi sul territorio Arunta, vengono resi possibili le
migrazioni e gli orientamenti, essendo il palo sacro una sorta di
centro mobile che garantisce gli individui e la società dal
regresso in uno stato caotico e di disorientamento. Quando il clan
si sposta in cerca di un altro luogo dove stanziare, inclina il palo
sacro verso il punto di destinazione rendendo il Kauwa-auwa non
solo un principio di ordinamento spaziale, ma anche temporale,
relativizzando cioè l'aspetto distale, e mantenendosi
costantemente in una posizione centrale.
Questo aspetto può essere visto come una funzione di
ancoraggio territoriale, che implica un collegamento al passato:
ordinatori sapzio-temporali i centri incarnano e
trasmettono una qualche idea di ordine
6
,
ordine spaziale, temporale, sociale, politico e cosmologico.
5
E. de Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito
achilpa delle origini, in appendice a Il mondo magico, 1973, Boringhieri,
Torino, p.268.
6
Cfr.: Remotti, Scarduelli, Fabietti, 1989, op. cit., p. 38.
19
In modo mirabile Ernesto de Martino ha spiegato la funzione
destorificante del Kauwa-auwa, cioè la sua capacità di distogliere
l'individuo dalla contingenza storica dell'instabilità e del pericolo
degli spostamenti nomadici: dalla sua angoscia territoriale.
7
Nei racconti degli antenati è ben presente il rischio di regresso
nel caos, e quindi di fine dell'esistenza, nel caso in cui il palo
sacro, che garantisce la comunicazione fra la terra e il cielo,
dovesse spezzarsi. In un racconto achilpa si narra che un capo,
nel togliere dal terreno il palo Kauwa auwa, lo spezzò; gli
appartenenti al clan caddero nel più assoluto disorientamento,
vagando senza meta e alla fine si lasciarono morire
8
.
Gli autori di questa ricerca, Spencer e Gillen, insistono sul
concetto che per gli Achilpa il ‘mondo’ diventa il ‘loro mondo’
solo nella misura in cui riproduce il cosmo organizzato e
santificato di Numbakulla,
7
Ernesto de Martino definisce angoscia territoriale: 'l'esperienza di
una presenza che non si mantiene davanti al mondo, davanti alla storia'.
8
Analogamente si narra che due antenati mitici si spinsero così
lontano dai punti di riferimento caratterizzati dai centri totemici che quando
se ne resero conto si lasciarono morire.