Introduzione
La questione, così attuale, circa il grado di possibile espansione del
giudicato tributario dovuta alla spinta esercitata dalle molteplici
decisioni del giudice di legittimità, e, da ultimo, di matrice europea
pone il giurista davanti ad una scelta di campo: se restare fedele alle
elaborazioni giuridiche tradizionali, coincidenti perlopiù con una
visione angusta dell’istituto della res iudicata; oppure entrare in
sintonia con l’indirizzo che considera questo strumento come un
indefettibile “arma” a difesa della effettività della tutela
giurisdizionale.
Dobbiamo chiarire, fin da subito, che il dato normativo può “militare”
per l’una o l’altra impostazione a seconda delle interpretazioni fornite
dai vari Autori; tant’è che il ruolo predominante negli ultimi quindici
vent’anni anni, nel campo tributario, è stato assolto da una
giurisprudenza alquanto ondivaga che, come ben sappiamo, nelle sue
ricostruzioni rimane pur sempre ancorata al caso concreto che le si
prospetta in causa, al che la ricostruzione che ci viene offerta di volta
in volta mai potrebbe abbracciare i molteplici profili che si connettono
all’ampiezza dei limiti oggettivi del giudicato, o meglio ancora al
giudicato tout court.
I
Sappiamo che l’ordinamento nazionale prevede alla conclusione della
fase giurisdizionale una sentenza, massima espressione dell’autorità e
legalità della giurisdizione, che diverrà poi un giudicato, ossia quella
imprescindibile esigenza di certezza che vuole appunto intangibile,
perché legalmente formatasi (e pertanto presuntivamente “giusta”),
una sentenza definitiva.
La nostra indagine muove proprio dalla formazione di un giudicato,
mira a evidenziarne i limiti oggettivi, che saranno poi le linee guida
per stabilire se in un successivo processo, la decisione anteriormente
presa in sede giurisdizionale possa o meno avere una qualche
influenza, che potrebbe essere massima ed impedire del tutto lo
svolgimento del secondo processo, secondo il noto principio del ne bis
in idem; oppure potrebbe comportare che l’analisi e la decisione su
determinati elementi da parte del secondo giudice sia condizionata o
vincolata dalle precedenti decisioni del giudice la cui sentenza
costituisce giudicato.
I profili critici sono molteplici, poiché la materia tributaria nel suo
complesso, sia a livello sostanziale che processuale presenta
peculiarità tali da non poter essere equiparata, né al ramo
amministrativo, né a quello civile; con ciò non si vuol escludere, fatte
le dovute precisazioni, che modelli teorici studiati e “tagliati” per quei
due processi siano riportabili al processo tributario.
II
Sicuramente il profilo più delicato riguarda la possibilità che un
giudicato, relativo ad un anno fiscale, sia vincolante per i successivi
periodi d’imposta; questa fattispecie nella applicazione pratica è
quella più frequente, dal momento che esistono dei tributi, cosiddetti
periodici, la cui struttura ciclica, già sul piano sostanziale, impone una
certa “ripetitività” sia dei presupposti sia degli accertamenti, non
potendosi dunque ignorare, a nostro avviso, le statuizioni passate in
giudicato nel caso in cui riguardino elementi permanenti (chiariremo
meglio in seguito questa caratteristica).
Senza bisogno di coinvolgere il problema della autonomia dei periodi
d’imposta, nella applicazione pratica, molteplici problemi si sono
posti circa il valore da attribuire ad una sentenza, che poniamo il caso
decida su di una questione di diritto, che costituisce il presupposto a
livello materiale per l’applicazione di due tributi distinti; in questo
caso non è coinvolto il problema relativo alla pluralità dei periodi
impositivi, ben potendo gli accertamenti riguardare il medesimo anno
fiscale, ad esempio per l’applicazione dell’Iva e dell’Irpef ad un
determinato contribuente. Vedremo nel corso del primo capitolo come
la giurisprudenza, a differenza del problema relativo all’autonomia dei
periodi d’imposta, abbia sostanzialmente sbarrato l’efficacia esterna
del giudicato non tenendo conto, secondo chi scrive, come spesso, a
livello sostanziale, pur essendo due tributi distinti, magari l’uno
III
essendo diretto e l’altro indiretto, vi possano essere delle affinità tali
nella loro applicazione da doversi considerare a livello processuale,
solo per gli elementi coincidenti, come tributi “similari”; talché, non è
giustificato, a nostro avviso, escludere una valenza esterna del
giudicato a priori in queste ipotesi.
Se questi due profili critici sono quelli maggiormente attuali nella
pratica giurisprudenziale, pur al netto di uno scarso interesse mostrato
dalla dottrina per l’argomento, possiamo rintracciare altri aspetti
qualificanti del giudicato tributario.
Un problema più teorico che pratico si pone nei casi in cui si prospetti
la reiterazione di domande miranti a conseguire petita identici a quelli
già esaminati, semplicemente adducendo fatti costitutivi diversi da
quelli già fatti valere; come abbiamo detto tale profilo si potrebbe
apprezzare solo dal punto di visto teorico, in quanto lo stretto termine
decadenziale ci riporta alla serrata tempistica della realtà processuale,
eliminando alla radice il problema sul piano pratico.
Molto più concreto è invece il problema relativo al rapporto tra la
valenza del giudicato tributario e la successione degli atti di
accertamento (un’analisi completa sarà condotta nel quarto capitolo);
in questo caso è indubitabile che vi sia l’incidenza di quella peculiarità
che contraddistingue la materia tributaria, e, che, si renderà necessario
far convivere l’idea generale di efficacia di giudicato con una struttura
IV
dell’accertamento parziale, legislativamente prevista come strumento
da integrarsi nel corso del tempo, a cui non potremmo certo
contrapporre un’idea di giudicato monolitico che si formi fin dal
primo accertamento, poiché si “tradirebbe” il dato normativo.
Dicevamo di quanto sia particolare il processo tributario, ma con
maggiore precisione, sarebbe idoneo parlare di peculiarità della
disciplina sostanziale che il rimedio processuale non può certo
ignorare. A nostro avviso, infatti, la struttura processuale di cui
vorremmo analizzare il giudicato non presenta particolarismi tali da
essere considerata estranea agli altri modelli processuali vigenti nel
nostro ordinamento; la sua struttura impugnatoria non deve
“costringere” l’interprete a visioni riduttive, ed, il fatto che la
domanda giudiziale, nella maggioranza dei casi (di sicuro non
rientrano in questo schema le azioni di rimborso), si fondi
sull’impugnazione di un atto di natura pubblicistica proveniente
dall’azione dell’Amministrazione finanziaria non può che spingere
l’interprete a fornire soluzioni tese a raggiungere un‘effettività
concreta, sia dal lato dell’agere amministrativo, sia dal lato del
contribuente, garantendo un risultato sicuro e certo al termine del
processo.
È, infatti, un dato comune tra processo amministrativo e processo
tributario che emerge in sede di analisi del giudicato, il problema
V
relativo al rapporto tra la sentenza divenuta definitiva e la potestà che
residua in mano all’Amministrazione; tutto ciò è accentuato dal fatto
che lo schema processuale non prevede delle integrazioni per quanto
riguarda i motivi, fondanti la pretesa, in corso di causa. Detto ciò
appare evidente come si pongano per quest’ultimo profilo una serie di
dubbi, in quanto la preclusione del dedotto e del deducibile non
potrebbe operare per “bloccare” una successiva pretesa
dell’Amministrazione, poiché l’impossibilità di allegare nuovi motivi
in causa, cristallizza temporalmente l’efficacia dell’atto al momento in
cui esso si è formato – escludendo le ipotesi in cui l’imposizione sia
prevista come parziale ed a formazione parziale- e nemmeno una
visione ampia del giudicato può venirci in aiuto in questi casi.
Per cercare di risolvere il delicato profilo sopra evidenziato
rimandiamo al quarto capitolo in cui si darà conto della possibile
trasposizione della teoria della c.d. preclusione procedimentale, che ci
appare lo strumento più “snello” al fine di risolvere in nuce questa
problematica.
Riteniamo che gli aspetti prettamente qualificanti la materia tributaria
debbano essere sviluppati nell’ultimo capitolo, in modo tale da fornire
una maggior chiarezza espositiva, potendo così “attingere” alle
conclusioni raggiunte sino a quel punto, di guisa che in sede di
VI
conclusione la panoramica delle fattispecie offerta sia la più ampia
possibile.
Sarà premura di chi scrive fornire al termine del primo capitolo, ancor
prima di valutare l’incidenza delle pronunce del “giudice europeo”, un
quadro completo, il più possibile aggiornato, circa gli sviluppi che la
Corte ha raggiunto sulle questioni, certo non marginali ma nemmeno
fondanti per l’analisi che andremo a svolgere, in merito alla stabilità e
utilizzabilità delle statuizioni riguardanti le prove che si formano in un
determinato giudizio, per valutare se le stesse possano o meno essere
coperte dal giudicato; gli stessi interrogativi saranno “sciolti” in
merito alle valutazioni circa l’efficacia delle ricostruzioni di elementi
di diritto compiute in una determinata sentenza per valutare se anche
per esse possa giocare un ruolo di certezza l’istituto del giudicato
tributario.
Vero è che la risma di fattispecie poste in evidenza è piuttosto ampia,
ma non meno importante è rilevare come l’accento della
giurisprudenza, sia che si trattasse di stabilire l’efficacia ultra litem di
una statuizione riguardante una medesima imposta per un arco
temporale più ampio di quello rappresentato dall’anno fiscale, sia che
si trattasse di valutare la fondatezza della exceptio rei iudicatae in un
processo in cui si sarebbe dovuto svolgere il medesimo accertamento
già svolto in precedenza ed a quel momento passato in giudicato, pur
VII
coinvolgente due imposte diverse ed anche nel caso in cui la questione
fosse relativa alla spettanza di un’agevolazione pluriennale, per la cui
tutela si faceva valere un precedente giudicato riguardante periodi
d’imposta differenti, sempre si è schierata a favore o in contra
all’efficacia ultra litem delle statuizioni passate in giudicato basandosi
sulla rilevanza o meno della frammentazione del “rapporto
obbligatorio” e così dell’accertamento vero e proprio. Motivando
talvolta a favore, “creando” un maxiperiodo o basando i suoi
ragionamenti su di un rapporto, che per taluno è «rapporto c. d. di
cornice», intercorrente tra Amministrazione e contribuente; talaltra a
sfavore considerando, ad esempio, insormontabili le differenze
strutturali tra tributi.
Un crocevia fondamentale nel nostro argomentare sarà rappresentato
dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 13916/2006, in quanto questo
dictum, anodino nelle motivazione, ha fornito notevoli spunti
ricostruttivi nella costruzione e perimetrazione del giudicato
tributario, senza limitare la sua efficacia ad una fattispecie
chiaramente individuata (salvo ovviamente in termini di applicazione
immediata “rivolgersi” alla questione controversa in causa, rectius alla
spettanza di un’agevolazione pluriennale), quasi a voler tirar le
somme, sull’argomento della nostra indagine, in maniera
generalizzata.
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