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fosse il caló, quale fosse lo spazio che oggi occupa nella realtà nella quale è
inserito, quali le interazioni tra il caló e lo spagnolo nella sua variante andalusa;
per osservare più da vicino il cante flamenco e le sue letras e cogliere l’entità
delle tracce lasciate dal caló e la loro importanza nel marcare l’identità stessa
del cante, nonché quella della comunità gitana attraverso il flamenco. Tuttavia
ho ritenuto necessario non abbandonare mai anche una considerazione
antropologica nell’approccio a questi temi, dal momento che credo fermamente
che la contestualizzazione di un gruppo umano o di una comunità nella sua
cultura (e di tutte quelle che, attraverso il contatto più o meno pacifico, hanno
contribuito e contribuiscono a formarla) sia la chiave di lettura fondamentale per
la comprensione di ciò che essa genera, sia che si voglia considerare il
flamenco da un punto di vista artistico oppure linguistico attraverso
l’osservazione dei cantes. Questo percorso di studio che si propone di capire
che cos’è il caló e scoprire il linguaggio del cante flamenco, per poi
concretizzarsi nell’analisi delle letras del cantaor gitano Camarón de la Isla,
incomincia dai gitani.
È proprio da loro, infatti, che ho deciso di iniziare, dai gitani, i veri attori
sociali del flamenco, seppur non gli unici, nel senso più ampio che questa
parola racchiude. Prima di iniziare le mie riflessioni sul caló, ho voluto cercare di
risolvere i miei dubbi sui gitani: volevo capire chi sono e quali sono le loro
origini, se è possibile tracciarle. Sono emersi subito i nodi delle denominazioni,
perché accanto alla parola gitano sono comparse, tra le altre, la parola zingaro
(come realtà più grande che comprende i rom, i sinti, i manush, i kalé e i
romanicels), che mi ha costretta a fare un passo indietro e a considerare prima
la realtà zingara. Mi sono trovata su un terreno poco solido, ed ho seguito
percorsi tortuosi nei quali spiccano teorie ed opinioni molto diverse che
continuamente si intrecciano per poi perdersi.
Nel primo capitolo ho cercato allora di raccogliere alcune delle riflessioni
intorno alle origini degli zingari e alla loro storia che principalmente spaccano
l’opinione degli studiosi tra le ipotesi dei linguisti che ne affermano la certa
origine indiana e quelle di alcuni antropologi che invece restano contrari ad una
tesi tracciata solo attraverso l’analisi della lingua e rifiutano quindi l’Indian
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connection. Mi è sembrato interessante e onesto prendere in considerazione
non soltanto il pensiero di studiosi non zingari, ma anche quello di intellettuali
appartenenti alla comunità zingara e riportare la voce di alcuni gitani incontrati a
Siviglia. Tuttavia, nemmeno questa scelta di dare valore sia all’autopoiesi che
all’eteropoiesi mi ha aiutato a sentirmi affine ad una delle posizioni prese in
esame, delineando piuttosto un quadro dinamico e flessibile nel quale fallisce
ogni tentativo di definizione e dominano, invece, i non confini e i non contorni
nella categorizzazione del gruppo degli zingari.
Al momento di affrontare la questione delle origini dei gitani, di capire chi
sono i gitani, mi sono riferita prima alla storia dei loro spostamenti fino all’arrivo
in Andalusia, e a quella della loro vita che ha alternato per lungo tempo
nomadismo e sedentarietà, senza tralasciare la storia dello scontro e della
convivenza con le società non gitane incontrate lungo il dron. L’idea che
l’identità di una persona come quella di una comunità non giace solo in una
dimensione passatocentrica, ma si sviluppa anche nella realtà del presente, mi
ha portata infine a guardare i gitani nella realtà nella quale sono inseriti, ovvero
nei termini della relazione con la società nella quale vivono, quella andalusa,
per dimostrare che la costruzione della specificità di questo gruppo è anche
inserimento nella cultura locale, e che deve continuamente rinegoziare i confini
tra il sé e il diverso da sé.
Il secondo capitolo mira a fornire le premesse concettuali che saranno
strumenti necessari per poter in seguito analizzare il caló. L’obiettivo è ancora
una volta quello della contestualizzazione: non si può parlare del caló senza
inserirlo nella realtà linguistica nella quale vive, quella andalusa, soprattutto
perché la straordinaria ricchezza linguistica dell’Andalusia, costituisce una parte
importante del patrimonio culturale di questa regione e contribuisce a forgiare
l’identità dei suoi abitanti. Perciò ho cercato prima di tutto di chiarire che cos’è
l’andaluso, facendo uso dei concetti di lingua, dialetto e hablas, per capire in
quale di essi si inquadra meglio. È stato necessario dare spazio anche a quelle
variazioni linguistiche che si producono a causa delle caratteristiche sociali di
un determinato gruppo di parlanti e soffermarsi quindi sul concetto di argot, in
modo da porre le basi per le successive riflessioni e capire come è stato visto il
7
caló e come viene invece considerato oggi, come ne è cambiato l’uso tra i suoi
parlanti e come è penetrato nella lingua comune. A chiudere il capitolo un breve
e interessante excursus sulle origini della parola flamenco, attraverso le più
celebri teorie che lasciano aperte numerose polemiche riguardo all’etimologia di
questo termine e contribuiscono a creare una sorta di effetto alone attorno al
flamenco e al cante.
Acquisiti questi strumenti linguistici, siamo pronti per osservare
dettagliatamente il caló e cercare, per quanto possibile, di riservargli lo spazio
che gli appartiene lungo l’arco storico e nella società andalusa di oggi. Il
capitolo terzo si propone proprio questi obiettivi e prende le mosse dalla
confusione tra il linguaggio dei gitani e il linguaggio della delinquenza, che per
lungo tempo ha fatto parlare del caló come argot dei bassi fondi, per capire le
ragioni che hanno portato ad accostare e sovrapporre il caló alla germanía
spagnola e spiegare perché oggi si giunge a conclusioni diverse. Ho dovuto poi
prendere in esame il caló sia da un punto di vista diacronico che sincronico, per
non perdere la complementarietà di questi due punti di vista, per capire qual è il
suo posto nella storia della lingua e qual è invece il suo valore nella relazione
con la società nella quale si inscrive. Attraverso l’osservazione e l’analisi dei
forti cambiamenti e delle contaminazioni che ha subito nel contatto con il
castigliano e dell’uso che effettivamente se ne fa nella società andalusa
odierna, scopriremo quali sono le caratteristiche che fanno del caló ciò che è
oggi.
Il quarto capitolo, poi, concentra l’attenzione sul linguaggio del cante
flamenco. È in questa dimensione, infatti, che vivono i resti più significativi del
caló. In modo particolare, ho voluto dedicare uno spazio all’analisi del lessico
del cante, dove il caló lascia le tracce più importanti, soffermandomi sull’origine
e sul significato di un buon numero di termini, raccolti nella vita quotidiana di
Siviglia e nelle collezioni di cante flamenco, che sono già patrimonio di tutti gli
ispanofoni, ma il cui valore espressivo è radicato proprio nel complesso mondo
del flamenco. Ho preso poi in considerazione gli aspetti grammaticali del cante
per vedere quali sono quelli spagnolo-andalusi e quali invece quelli
appartenenti al romanó-caló.
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Un altro fattore rende il cante flamenco di grande importanza per questo
studio: il complesso fenomeno che è il flamenco è stato infatti il principale
veicolo di propagazione del lessico gitano nella lingua comune. In questo
capitolo sintetizzo brevemente com’è avvenuto questo processo di
penetrazione del linguaggio speciale del cante prima nella modalità linguistica
andalusa e poi nella lingua standard, arricchendola con abbondanti prestiti. Ma
non è solo il linguaggio gitano a diffondersi in quello popolare andaluso: nella
stessa vita spagnola, e andalusa in modo particolare, si respira la presenza de
lo flamenco.
Ancora una volta i testi dei cantes flamencos sono il mio principale punto di
riferimento, in questo caso per osservare la ricorrenza delle tematiche
raccontate: el amor, las ducas y la muerte. Questi temi, così cari alla tradizione
delle letras, si inseriscono in un’analisi sociologica più ampia che considera la
condizione sociale, il valore della ricchezza, quello della famiglia, il ruolo della
donna e quello della madre, la ricorrenza della natura. Argomenti che
compaiono spesso nella copla, nella quale l’amore resta sempre il vero perno
tematico.
Studiosi e ricercatori, poeti e musicisti, cantaores e bailaores, nessuno può
avvicinarsi al flamenco, parlarne, studiarlo, praticarlo né viverlo senza
incontrare, prima o poi, due concetti fondamentali appartenenti a questo
panorama artistico-filosofico: il cante jondo e il duende. Per capire cosa
significhi cante jondo e cosa sia il duende ho seguito con interesse e trasporto
le riflessioni di Federico García Lorca, per l’importanza che è state attribuita alle
sue giovani parole in merito a questi temi e per la bellezza, la verità e il valore
che ancora oggi viene loro accordato.
Per concludere ho voluto che questo studio prendesse una forma empirica,
che si concretizzasse non solo nelle conclusioni di un percorso che mi ha
arricchita e mi ha aperto un mondo affascinante davanti agli occhi. Nel quinto
ed ultimo capitolo propongo quindi un’osservazione dei testi di uno dei più
celebri cantaores gitanos, che mi ha appassionata sin dall’inizio e
accompagnata lungo i sentieri tortuosi che mi hanno avvicinata al flamenco:
José Monje Cruz, per molti Camarón de la Isla.
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Un caso unico nella storia del flamenco, che ha avvicinato quest’arte ad un
numero più vasto di ascoltatori contribuendo alla diffusione del cante e del suo
linguaggio, un vero e proprio divulgatore e interprete del patrimonio culturale de
los gitanos bajo andaluces. L’analisi che ho proposto prende in considerazione
la fonetica, la morfosintassi e il lessico, per ritrovare nelle coplas di Camarón
quelle caratteristiche del linguaggio del cante flamenco che avevamo osservato
in precedenza. Le parole delle letras camaroniane lasciano trasparire, inoltre, la
cosmovisione gitana. Parole nelle quali domina il tema dell’amore, quello per la
gitana amata, quello per la madre, per la famiglia e per la patria, nelle quali ogni
racconto è permeato dal quejío e dalla fatiga. Parole che lasciano venire a
galla, come bollicine, interessanti spunti di riflessione sull’orgoglio gitano delle
origini. Un’immagine, quella di Camarón, che ha sempre i colori, il profumo e il
suono della natura.
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-CAPITOLO 1-
DAGLI ZINGARI AI GITANI: UNO SGUARDO
STORICO E ANTROPOLOGICO
1.1 GLI ZINGARI: UN CATEGORIA DAI CONTORNI
SFUMATI
Le mie ricerche e letture sul mondo dei gitani hanno sin dal principio messo
in luce quanto fosse complicato definire questo gruppo umano.
La difficoltà, ancor prima che sulla parola gitano, si presenta sul concetto di
gruppo, qualcosa che tendiamo a pensare come ben definito, in una sorta di
visione a-storica e a-sociale per la quale le cose stanno fuori o dentro al
gruppo. In realtà i gruppi umani in generale, ed i gruppi zingari nel caso
specifico, si allontanano da tutto questo e sono invece inseriti in una
dimensione dinamica, in una rete di persone e di famiglie che, a seconda delle
circostanze storiche e politiche, interagiscono diversamente tra di loro
delineando confini sfumati e generando appartenenze. Per questo gli studi
esistenti che ho consultato si sviluppano all’interno di ampi dibattiti, ed ogni
tentativo di definizione si traduce spesso in ingarbugliati enigmi.
Prima ancora di affrontare tematiche linguistiche legate al caló, infatti, mi
sono domandata chi fossero i gitani. Per rispondere a queste domande mi sono
inizialmente dedicata a letture sui gitani e sulla loro cultura. La passione per
l’argomento mi ha poi portata a condividere le mie nuove conoscenze con
alcuni amici, italiani e spagnoli. Questi momenti di racconto e confronto hanno
11
spesso ispirato nuovi punti di riflessione e generato nuove domande alle quali
nessuno di noi sembrava però preparato a rispondere. Accanto alla parola
gitano, per esempio, è subito apparsa la parola zingaro, a volte scambiata con
gitano, altre accostata, come fosse un altro gruppo simile, per stereotipo a
quello che qui desidero prendere in esame, altre ancora intesa come una
dimensione più grande nella quale si inserivano, come un sottogruppo, i gitani.
I nodi incontrati per quanto riguarda la denominazione di questi gruppi non
sono però stati gli unici: anche un’indagine sulle origini si è rivelata un percorso
tortuoso. Dopo aver scoperto, infatti, l’esistenza di vari gruppi zingari sparsi per
l’Europa, che usano parole diverse per denominarsi, volevo capire se è
possibile unire tutti questi gruppi in un unico originario punto sulla cartina
geografica. In questo caso, come ora vedremo, le teorie linguistiche e quelle
antropologiche percorrono strade parallele che talvolta si intrecciano, a seconda
degli autori e dei periodi storici, per poi perdersi nuovamente. Da una parte
troveremo, infatti, i linguisti, da lungo tempo compatti nel riconoscimento di
un’originaria indianità degli zingari, e dall’altra, fra antropologi e sociologi, vi
sono posizioni e riflessioni eterogenee che tentano spesso di discostarsi da
percorsi di natura puramente linguistica.
Separare l’analisi delle definizioni e delle denominazioni, delle categorie
gruppali e delle origini non è così semplice, dal momento che gli studiosi, sia di
linguistica che di antropologia e di sociologia, hanno spesso messo in relazione
tutti questi aspetti nel tentativo di comprendere la realtà zingara.
Incominciamo comunque osservando le denominazioni di questi gruppi, per
poi affrontare in seguito l’annosa questione delle origini.
In molte lingue europee ed asiatiche esiste un termine che può equivalere al
nostro “zingaro”, come tsingano in Russia, tigano in Romania1, gypsy in
Inghilterra, zingaro in Persia e Turchia, gitano in Spagna, rom2. Alcuni di questi
termini addirittura si alternano all’interno di una stessa lingua, per indicare,
come succede ad esempio in Spagna, una realtà più generale, quella degli
1
Dopo il 1989 la Romania si trova di fronte al problema che il suo nome è troppo simile alla parola rom e
decide per questo che i rom non si chiameranno più rom, ma tigani, zingari.
2
Rom deriva dal sanscrito Doma, marito, uomo. Il termine rom, rinvenuto accanto al termine sanscrito
gandharva, porta con sé il significato di musico e fa parte delle documentazioni mitiche che considerano
anticamente i gitani musici professionisti, esperti suonatori di lud (Leblon 1991).
12
zingari (zingano o cingaros) e una invece più specifica, nel caso spagnolo
quella dei gitani (gitanos). L’aspetto interessante è che questi nomi hanno
storicamente inglobato un insieme complesso ed eterogeneo di persone, che
presentano a volte differenze culturali importanti. Tali differenze sono state
ovunque tralasciate in nome di quei tratti comuni che delineano l’archetipo dello
zingaro: questa parola evoca, infatti, nell’immaginario comune, in primo luogo il
nomadismo, secondo un disegno semplicisticamente tracciato di una famiglia
ed una roulotte che si muovono tra le periferie delle città, ai margini degli
insediamenti dei non zingari, un disegno dai colori brillanti che dipingono una
vita vissuta alla giornata, e che non manca di una stigmatizzazione negativa
che associa agli zingari l’essere rozzi, furbi, ladri.
Quest’immagine, che collega in modo quasi indissolubile lo zingaro al
nomadismo, e soprattutto ad un nomadismo messo in atto come scelta di vita, è
uno schema cognitivo ampiamente condiviso ed ovviamente di importanza
fondamentale nella modalità di costruzione della conoscenza di questo gruppo.
Aspetto, questo, che non va dimenticato, perché anche quest’immagine un po’
artificiosa contribuirà a determinare le sorti dei popoli rom in Europa.
La categoria di zingaro, quindi, si presenta come il frutto di una costruzione
esterna: la parola zingaro, così come le sue equivalenti tsigano, tigano, gypsi,
cingaro, rom, ecc, viene utilizzata dai non zingari, spesso con accezione
negativa, stigmatizzante e discriminatoria.
A questo punto, allora, sembra interessante prendere in considerazione
invece i modi utilizzati dagli zingari stessi per autodenominarsi. Ci troviamo di
fronte ad una pluralità di forme per definirsi, all’interno della stessa Europa:
rom, sinti, manus (o manush), kalé (o kaló), romanicels, ognuna delle quali si
trova spesso in diverse varianti. Il fatto di non aver riscontrato tra le forme di
autodenominazione la parola zingaro, o qualche sua variante che possa
suggerire la stessa matrice etimologica, avvalora forse la tesi precedentemente
enunciata (la parola zingaro si usa solo tra i non zingari, è
un’eterodenominazione) o in ogni caso, sembra degna di nota. Per comodità
continuerò qui ad utilizzare il termine zingaro, in modo da potermi riferire a tutti
13
questi gruppi con una sola parola, dal momento che ho scelto di dedicare il
centro delle mie riflessioni al gruppo dei gitani.
La varietà dei termini che si sono scoperti per la definizione e
l’autodenominazione mostrano un quadro dinamico, flessibile e spiegano le
frequenti incomprensioni e i disaccordi fra i ricercatori. Tuttavia mettendo a
fuoco lo sfondo di questa fotografia in cui compaiono rom, sinthi, manus, kalé,
si riesce a scorgere una dimensione unificatrice, una “dimensione romanì”. La
ripartizione degli zingari ha sì indicato gruppi distinti, tanto che si è giunti a
pensare, tra gli studiosi non zingari come tra autori di origine rom o sinthi, che
questi fossero in qualche modo già così divisi sin dalla loro partenza dall’India,
come delle sotto-etnie precedenti alla migrazione. La forte percezione
identitaria che spesso porta le diverse comunità a contrapporsi l’una all’altra,
non tralascia, però, di considerare tutto l’insieme dei parlanti romanes. I sinthi
chiamano perciò sinthi anche coloro che si definiscono rom, o kalé, forse
percepiti dai primi come “un po’ meno sinthi”, ma pur sempre appartenenti alla
grande dimensione romanì. Si attivano quindi meccanismi di inclusione che
sembrano più forti di quelli di separazione dei diversi gruppi. E’ questo infatti
uno dei molteplici aspetti in cui si nota che i confini assumono contorni sfuocati.
In questo caso l’uso di nominazioni diverse non stabilisce tagli netti, ma
piuttosto diverse sfumature di un colore più o meno pieno e ci ricorda ciò che
dicevamo in merito al concetto di gruppo al principio di questo paragrafo: forse il
voler cercare contorni definiti a realtà come quella zingara è solo un limite di chi
si pone ad analizzarle. Resta però vero che questo processo di inclusione non è
sempre così automatico.
Un aspetto interessante a livello sociolinguistico, ai fini di questa riflessione, è
l’uso dell’avverbio romanes. I sinthi, i manús, i romanicels, i kalé, dicono “io
parlo romanes” quando lo dicono nei rispettivi dialetti. Nella comunicazione con
i non zingari, quando parlano gagikanes (da gagé, non zingaro, come vedremo
più avanti), dicono “io parlo sintho, manús, caló..” (Piasere 2004: 54). Ritorna
dunque il romanes come comune denominatore di quella che abbiamo definito
dimensione romanì. Emerge inoltre l’importanza del fatto relazionale, sulla
quale avremo modo di riflettere in seguito, e si inizia ad intravedere l’importanza
14
non solo della denominazione esterna e dell’autodefinizione, ma anche della
definizione del sé in rapporto all’altro.
Pare quindi che, se è pur vero che ogni gruppo si dà un nome diverso proprio
per distinguersi dagli altri, la stragrande maggioranza tenda a mantenere il
ricordo di un’unità culturale racchiusa nella parola rom e nelle sue varianti. I
gruppi che abbiamo visto sfumano sempre l’uno nell’altro, generando una sorta
di continuum rom della dimensione romaní che le denominazioni cercano di
aggredire. I rom hanno per ragioni storiche maturato delle diverse nominazioni,
ma restano inclini a pensare che i rom sono rom in tutto il mondo, richiamando
una dimensione transnazionale di genti, uomini e donne, che si identificano in
una comunità che per secoli ha vissuto la diaspora, e che da sempre travalica
la dispersione territoriale.
I linguisti ( Alvar 1982, Borrow 1999, Botey 1970, Clavería 1962, De Luna
1989, Plantón García 2003, per esempio) si sono soffermati proprio sul filo
conduttore che in qualche modo unisce tutte queste comunità. I dialetti da loro
parlati costituiscono infatti il romanes3 e vengono ricondotti a varianti popolari
del sanscrito. Queste ultime risultano strettamente imparentate alle lingue
attualmente parlate nell’India del Nord-Ovest. E’ così che spesso le teorie
linguistiche hanno suggerito il territorio indiano come origine dei popoli da noi
riconosciuti omogeneamente come zingari.
Gli studi sul romanes, infatti, hanno riscontrato in esso la ricchezza di termini
persiani, curdi e greci, a testimonianza del percorso tracciato dalle popolazioni
zingare dal subcontinente indiano verso l’Europa, in momenti che restano ad
oggi ancora poco precisi e le cui cause non sono unanimemente stabilite, tra
l’VIII e il XII secolo. Già dalla fine del Settecento alcuni studiosi (Rudiger e
Bryant) scoprirono la parentela tra il romanes e le lingue indiane, gettando le
radici di quello che sarebbe in seguito stato definito come Indian connection
(Okely Judith, 1983). Per tutto l’Ottocento la lingua era ritenuto fattore
determinante: solo i parlanti romanes, e per questo di certa origine indiana,
3
La parola romanes è qui utilizzata nella sua forma nominale e sta ad indicare il dialetto parlato dagli
zingari. Tuttavia si è riscontrato che questo termine svolge anche funzione di avverbio del nome rom, e
significa “al modo dei rom”. L’aggettivo di rom è invece romanó (femminile romaní, plurale maschile e
femminile romané).
15
venivano considerati zingari ed erano oggetto di studio della ziganologia,
mentre il resto dei “vagabondi o girovaghi” erano lasciati ad altri ambiti
disciplinari come la criminologia. Questa ricerca maniacale dello “zingaro puro”
si è in qualche modo trascinata attraverso i secoli trasformandosi poi in
discriminazione. Senza creare un legame troppo stretto tra la ricerca della
purezza e i tragici genocidi dell’epoca nazista, non si può però non notare una
certa analogia.
In seguito alla penetrazione in Europa, il romanes ha adottato vari prestiti, a
seconda del panorama linguistico e sociolinguistico delle diverse società di
accoglienza nelle quali i gruppi di zingari si inserivano. Questi apporti lessicali
esterni insieme a studi sull’evoluzione morfofonetica interna4 dei dialetti del
romanes hanno per molto tempo permesso di classificare questa lingua e di
classificarne i rispettivi parlanti in gruppi, ricostruendo a grandi linee il loro lungo
cammino da Oriente a Occidente (Plantón García 2003: 108).
D’altra parte però questo stesso aspetto linguistico è stato utile per
individuare altri gruppi di comunità, anch’esse generalmente racchiuse
nell’ampio insieme degli zingari, che invece non parlano, né hanno mai parlato
dialetti neo-indiani, ma lingue di derivazione locale o arcaica. Comunità, queste,
sparse un po’ per tutta l’Europa, tendenzialmente categorizzate come zingari
più che altro per il loro nomadismo.
L’origine indiana affermata con forza dai linguisti, come abbiamo visto, già
da molti secoli, è diventata colonna portante per le associazioni zingare di
rivendicazione politica, che hanno fatto proprie le convinzioni e le scoperte
linguistiche dei non zingari. L’ideologia indianista ha svolto una funzione
particolare, diventando un vero e proprio simbolo per l’affermazione etnica, e un
forte strumento per far fronte alle secolari discriminazioni e persecuzioni. Anche
altri intellettuali ed esperti appartenenti alla comunità zingara non discutono
l’origine indiana, come si vede dalle parole di questo anziano prese in prestito
da Max (1992):
Sono specialista di questo argomento, diplomato, tra l’altro, in hindi e
in lingua zingara all’Istituto Nazionale di Lingue e Civiltà Occidentali
4
Curtiade propone una classificazione in base all’evoluzione morfofonetica interna in Curtiade 1998.
16
di Parigi e autore di numerose pubblicazioni […] Infatti, la lingua
romaní contiene un vocabolario di base molto vicino all’ hindi e al
sinthi […] ed apporti lessicali iraniani, armeni, greci, rumeni, slavi e
magiari, vestigia della migrazione dall’India verso Occidente (Max
1992: 87).
Tuttavia, diversamente da quanto si può riscontrare tra le élites di
intellettuali, l’origine indiana non svolge un ruolo determinante fra le comunità
zingare, tra le quali resta una maggioranza di persone illetterate. L’ipotetica
indianità delle origini non è rilevante. Le comunità zingare non sembrano
necessitare di una dimensione passatocentrica sulla base della quale definire i
contorni del gruppo etnico.
La questione del romanes come elemento unificatore che ha radici
nell’esotica India potrebbe forse essere considerata come una specie di lingua
franca che si sviluppa lungo le vie commerciali tra Oriente ed Occidente.
Come si è accennato poco prima, degli studi sulla realtà zingara non si sono
occupati solo i linguisti, ma anche molti antropologi. Tra questi c’è ancora chi
cerca di appoggiare le teorie linguistiche, ricercando prove delle origini indiane
anche nell’organizzazione sociale zingara, e chi invece sostiene che proporre
l’India come radice etnica di tutti gli zingari equivale a voler negare la capacità
della storia Europea di “generare zingari”. Alla luce delle stigmatizzazioni di
questi gruppi, nomadi o sedentari, infatti, esclusi dai processi di produzione e
messi ai margini della società, non è poi così assurdo immaginare che alcuni tra
essi si siano costruiti un’identità diversa dalla maggioranza non zingara, e non è
così assurdo nemmeno pensare che meccanismi simili siano stati messi in atto
ancor prima dell’era moderna. Avremo comunque modo di affrontare il tema
della costruzione dell’identità nel terzo paragrafo.
Come abbiamo visto, dunque, nell’approccio, tanto linguistico quanto
antropologico, alla realtà zingara, spesso gli studiosi sono rimasti incastrati
nelle definizioni e nei confini, scontrandosi con una realtà eterogenea e
sfuggente, che difficilmente si fa incasellare negli schemi che i ricercatori hanno
proposto. Per queste ragioni alcuni antropologi, nelle loro posizioni più
decostruttiviste, e secondo percorsi riflessivi a mio personale avviso forse un
po’ miopi, sono giunti fino a negarne l’esistenza, ad affermare che gli zingari
17
non esistono. Altri hanno invece avanzato interessanti proposte di analisi che
propongono strutture categoriali diverse con le quali avvicinarsi a gruppi come
quelli che stiamo studiando.
Leonardo Piasere (1995) mostra, a questo proposito, che il termine “zingaro”
è da ricondurre a quella categoria che gli antropologi chiamano politetica,
ovvero una categoria dai contorni sfuocati, in cui mancano i tratti sufficienti e
necessari per definirle. Piasere parte proprio dalle considerazioni che abbiamo
appena visto, avanzate dai linguisti: secondo la tradizione ziganologica il tratto
sufficiente e necessario per individuare uno zingaro sarebbe la sua lingua, per
cui zingaro è colui che parla una variante del romanes. Ma l’antropologo
osserva che le cose non sono così semplici, anzitutto perché le lingue non sono
degli oggetti monolitici, ma sistemi che “si imparano e si disimparano, si
conservano e si alterano”. Ecco perché vi sono gruppi che vengono ammessi
come zingari pur non parlando romanes, perché è provato che lo parlassero in
tempi lontani.
Ricordiamo però che criteri come questi non sono tenuti in considerazione
dalle popolazioni locali, né dai diretti interessati. I non zingari hanno selezionato
a seconda delle regioni, vari aspetti, dal nomadismo, al mestiere del fabbro o di
cestaio, o ancora quello del musico, o del soggetto deviante ecc., diversamente
combinati tra di loro. In realtà, nessuno di questi tratti, né quelli più
evidentemente stigmatizzanti, ma nemmeno la lingua romanes o il nomadismo,
sono elementi determinanti nella definizione di zingaro. Si presentano come
tratti più o meno condivisi, ma non sono, secondo quanto afferma Piasere,
sufficienti e necessari per individuare lo zingaro.5 Tra l’altro molti elementi della
cultura e della tradizione (se ne esiste una) di queste genti di supposta origine
indiana non sono dimostrabili anche perché l’oralità è stata il principale mezzo
di trasmissione culturale. E’ invece dimostrato che gruppi non parlanti romanes
condividono pratiche e credenze simili e che credenze e pratiche simili si
trovano anche nelle tradizioni popolari europee (Fraser 1992).
5
I Rudari rumeni, per esempio, non sono né nomadi, né parlanti romanes, e non è possibile nemmeno
risalire a testimonianze che lo abbiano mai parlato. Nonostante questo sono considerati zingari perché
concatenati con altri membri dell’insieme che condividono certi tratti.
18
Un'altra considerazione importante riguarda ancora una volta i confini: è
praticamente impossibile stabilire separazioni nette tra nomadismo e
sedentarietà, tra romanes e non romanes, e vederli come elementi alternativi
(Cristina Cruces Roldán, 1989). Spesso i gruppi si servono del nomadismo a
seconda della regione in cui si trovano e a seconda dei periodi dell’anno; e allo
stesso modo esistono delle lingue intermedie che fanno più o meno uso di
elementi di derivazione romanes, a livello lessicale, ma anche morfologico e
grammaticale, e quindi anche in questo caso non esistono in realtà frontiere,
ma non-contorni. Spiegare chi è uno zingaro è reso difficile dall’evidenza che i
confini non sono tracciati. Ancora una volta sembra proprio che questa ricerca
di confini, questo bisogno di porre dei tagli netti (o tagli alfa, Piasere 1995: 35)
sia una necessità più esterna che interna, più dei non zingari che degli zingari
stessi. Forse, come suggerisce Piasere (1995: 84), invece che rifarsi a confini
concettuali ben delimitati, si può dire che gli zingari costituiscono una realtà più
simile ad un grappolo.