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Capitolo primo
Un quadro generale della condizione giovanile
1.1 Istruzione e lavoro
In Italia attualmente si parla di scolarizzazione di massa e molto spesso si tende ad
identificare la condizione di giovane con quella di studente. Queste due affermazioni, in
particolare la seconda, non sono, però, del tutto corrette. Infatti, anche se il numero di
iscritti alla scuola superiore è passato da meno di 500.000 all’inizio degli anni Cinquanta ai
quasi 3.000.000 attuali, si osserva che solo il 28% degli adulti attivi ha terminato tale ciclo
di studi; la stessa percentuale è pari al 42% dei giovani adulti (25-34 anni), mentre il
rapporto tra diplomati e popolazione dell’età normalmente prevista per il conseguimento
del titolo è pari al 59%. Su tale situazione influisce negativamente soprattutto il fatto che
l’obbligo di frequentare la scuola è previsto fino all’età di 14 anni
1
.
Per fare considerazioni sulla qualità dell’istruzione è necessario ricorrere ad iniziative di
livello internazionale, tipo le indagini promosse dall’IEA, un’associazione di istituti
nazionali di ricerca educativa operante nell’ambito dell’UNESCO, dato che in Italia manca
un programma nazionale di accertamento dei livelli di apprendimento. Di tutto il ciclo di
studi, infatti, l’esame di maturità è l’unico momento che prevede uniformità nazionale e
che quindi produce informazioni che possono essere utilizzate per fare comparazioni e
confronti a livello locale e per verificare quanto “imparano” gli studenti italiani
2
.
L’assenza di un servizio nazionale di valutazione scolastica è un’altra conseguenza del
fatto che la scuola italiana ha ancora un assetto organizzativo tradizionale che per gli
istituti superiori è pressoché immutato da settanta anni.
La scuola si è solo in parte adeguata ai cambiamenti intervenuti nella società italiana,
mantenendo spesso l’inutile e negativa funzione selettiva legata, di fatto a variabili esterne
al sistema scolastico, quali la zona di residenza, le caratteristiche economiche e culturali
dei genitori e il sesso degli studenti.
Riguardo quest’ultimo aspetto sono scomparsi i forti squilibri esistenti in passato, quando
la presenza femminile nelle scuole era molto ridotta rispetto a quella maschile: in tempi più
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Da qualche anno si parla di innalzare a 16 anni l’obbligo scolastico, progetto difficile da realizzare, dati i
problemi legati alla riorganizzazione dei vari cicli del sistema scolastico.
2
GASPERONI G., 1996.
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recenti la situazione si è addirittura capovolta, dato che le giovani presentano una maggiore
propensione agli studi dei loro coetanei (il 58,8% delle prime ha conseguito un diploma di
scuola superiore contro il 49,7% dei secondi)
3
. Anche dal punto di vista del rendimento
scolastico, le ragazze sembrano più preparate dei ragazzi, come dimostrano i voti in media
più alti, il minor numero di ripetenze ed abbandoni, il maggior tempo dedicato allo studio a
casa…
Le differenze legate al genere rimangono in relazione al tipo di percorso di studi scelto,
dato che le iscrizioni femminili negli Istituti tecnici industriali e per geometri sono molto
limitate, mentre superano quelle maschili negli Istituti tecnici commerciali e soprattutto nei
Licei classici
4
. Questo fatto si spiega, oltre che con la preferenza da parte delle ragazze per
le materie economiche e letterarie, anche con le diverse opportunità di lavoro legate alla
preparazione fornita da tali scuole: gli Istituti tecnici industriali e per geometri, infatti,
preparano a professioni considerate tipicamente maschili, per cui le giovani preferiscono
rimandare l’ingresso nel mondo del lavoro, a loro non particolarmente favorevole, ed
investire maggiormente in istruzione, scegliendo una scuola, il Liceo, finalizzata al
proseguimento degli studi all’università.
Se si fa riferimento all’area geografica di residenza si osservano livelli di scolarizzazione
più elevati nel Centro che nel resto del Paese; per quanto riguarda i risultati, invece, la
prima posizione spetta al Nord, dove i voti medi, riportati alla fine del primo quadrimestre
dagli studenti dell’ultimo anno degli Istituti tecnici sono sensibilmente più elevati di quelli
del Centro e soprattutto del Sud, mentre i voti degli iscritti ai Licei sono uguali a quelli del
Centro
5
.
Tali differenze si riducono se si considerano i voti riportati dagli stessi studenti all’esame
di maturità, sia perché quest’ultimo tende ad appianare le differenze di rendimento, sia
perché a livello territoriale diverso possono esistere diversi modi di esprimere la
valutazione, come lascia supporre la variabilità del voto medio secondo la zona geografica.
La variabile che sembra condizionare maggiormente (rispetto al sesso o alla zona di
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Questi dati, come la maggior parte di quelli riportati in seguito, si riferiscono al campione di 2500 giovani
di età compresa tra i 15 e i 29 anni che hanno partecipato alla Quarta Indagine Iard (1996), che, come le tre
precedenti (1983, ’87, ’92), fornisce una descrizione dettagliata della condizione giovanile in Italia; i risultati
di tale indagine sono riportati e commentati in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A. (a cura di), 1997.
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GASPERONI G., 1996.
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GASPERONI G., 1996.
5
residenza) le carriere scolastiche è l’ambiente familiare degli studenti, in particolare il
titolo di studio e la professione dei genitori.
I giovani provenienti da famiglie di estrazione sociale e/o con un livello culturale elevati
presentano livelli di scolarizzazione più alti dei loro coetanei provenienti da famiglie con
livelli culturali ed economico-sociali più bassi. Dei giovani che hanno terminato gli studi
dopo il conseguimento della licenza media, solo il 4,7% ha almeno un genitore con un
titolo di studio elevato (diploma di maturità o laurea), mentre il 45,6% proviene da un
ambiente familiare con bassa scolarizzazione.
Se si considerano gli iscritti all’università e i laureati, il 47% di questi appartiene a famiglie
con un livello culturale elevato, contro il 13,6% di quelli che hanno i genitori con un titolo
di studio basso
6
.
Un discorso analogo, ovviamente, vale se si fa riferimento all’attività lavorativa dei
genitori, strettamente correlata al loro titolo di studio, dato che chi appartiene al ceto
impiegatizio, in particolare gli insegnanti, e chi svolge professioni cui viene attribuito un
certo prestigio sociale (imprenditori, dirigenti, liberi professionisti), esorta i propri figli al
proseguimento degli studi. Tra i lavoratori autonomi, soprattutto artigiani e commercianti,
si osserva un comportamento nei confronti dell’educazione scolastica dei figli molto simile
a quello degli appartenenti alla classe operaia (braccianti, operai, lavoratori agricoli).
Questo modo di fare si spiega con il fatto che la loro attività si basa sul possesso di
competenze professionali e/o di un patrimonio materiale (bottega, negozio, officina) che
possono essere trasmessi ai figli, anche se non possiedono un titolo di studio elevato.
Facendo riferimento al campione nazionale di 6547 studenti iscritti all’ultimo anno delle
scuole superiori
7
, delle quali conviene considerare solo le più frequentate, vale a dire:
Liceo classico e scientifico, Istituti tecnici industriali e commerciali, si notano ancora
grosse differenze rispetto alle origini sociali degli studenti: il 37,3% degli iscritti agli
Istituti tecnici industriali sono figli di operai, braccianti, lavoratori agricoli, contro solo il
10% dei liceali. Se si considerano le professioni cui viene attribuito maggiore prestigio
sociale, si osserva una maggiore presenza nei Licei (30,3% degli studenti dello scientifico,
37% di quelli del classico) rispetto agli Istituti tecnici (17,5% degli studenti degli Istituti
commerciali e solo il 9,4% di quelli degli Istituti industriali), mentre per le occupazioni
impiegatizie si ha un leggero squilibrio a favore dei Licei. Tali differenze si riscontrano
6
GASPERONI G., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A. (a cura di), 1997.
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Tale campione è stato selezionato per la rilevazione del 1993 del Programma di ricerca permanente su
“Rendimento scolastico e istruzione secondaria superiore in Italia”, attivato presso l’Istituto Carlo Cattaneo. I
risultati sono riportati in GASPERONI G., 1996.
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anche rispetto alla professione della madre: la metà degli studenti degli Istituti tecnici
industriali ha la madre casalinga, mentre la maggior parte delle madri degli iscritti ai Licei
fa parte della popolazione attiva. Facendo riferimento alle singole categorie professionali,
si osservano gli squilibri maggiori rispetto alle occupazioni impiegatizie: circa la metà
degli iscritti ai Licei ha la madre che svolge questo tipo di lavoro, contro il 19,8% e il
26,7% degli iscritti agli Istituti tecnici industriali e commerciali, rispettivamente. Se si
fanno considerazioni a parte per i genitori che svolgono la professione di insegnante (dai
maestri elementari e d’asilo fino ai professori universitari), si nota che questa loro
caratteristica influisce più delle altre sulla carriera scolastica dei figli, in particolare se sono
le madri ad avere tale lavoro.
Infatti, solo il 4-5% degli studenti degli Istituti tecnici è figlio di un’insegnante, rispetto al
24,8% di quelli del Liceo scientifico e al 31,5% di quelli del Liceo classico, dove
praticamente uno studente su tre ha per madre un’insegnante.
Sulla base di questi dati si può affermare che la professione di insegnante (insieme alle
categorie professionali più “elevate” da un punto di vista economico e sociale) ha un peso
molto rilevante sul perdurare dell’esistenza delle distinzioni sociali tra i diversi tipi di
scuola, in quanto gli insegnanti tendono ad indirizzare i propri figli verso l’istruzione
liceale
8
.
Dato che per l’esercizio di questa professione è necessario il conseguimento di un titolo di
studio elevato, le considerazioni precedenti confermano la presenza di una relazione tra la
carriera scolastica dei figli e il livello culturale della famiglia d’appartenenza. Chi proviene
da un ambiente familiare favorevole, in cui, cioè, almeno uno dei genitori ha conseguito un
titolo di studio elevato, è più probabile che acceda ad un Liceo: infatti, il livello
d’istruzione del padre e/o della madre aumenta passando dagli Istituti tecnici industriali ai
Licei classici.
Tali caratteristiche dei genitori, vale a dire titolo di studio e posizione professionale,
influiscono molto anche sul rendimento scolastico dei figli: gli studenti provenienti da un
ambiente favorevole da un punto di vista culturale ed economico presentano voti in media
più elevati e un numero ridotto di ripetenze ed abbandoni.
Considerando ora le intenzioni future degli iscritti al quinto anno, la prima cosa che
colpisce è la loro incertezza: infatti, il 30,8% e il 40,5% degli studenti degli Istituti tecnici
industriali e commerciali rispettivamente, e il 90,8% dei liceali affermano che gli studi fatti
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GASPERONI G., 1996.
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sono di preparazione generale, non legati, cioè, ad un corso universitario e ad un lavoro
specifici. Questo rivela una notevole indecisione negli orientamenti, dato che, al momento
dell’intervista, effettuata alla fine del primo quadrimestre, circa il 30% degli iscritti agli
Istituti tecnici non sa ancora se proseguire o meno gli studi e meno della metà di chi
intende iscriversi all’università ha già deciso la facoltà. La quasi totalità degli studenti dei
Licei pensa di continuare gli studi a livello universitario, ma solo poco più del 40% di loro
sa quale facoltà scegliere.
L’introduzione dei corsi di diploma ha allargato le opportunità per gli studenti, in
particolare per gli indecisi e per chi non se la sente di studiare per almeno altri quattro anni
per conseguire una laurea.
Inoltre, a questo percorso di studi sembra andare la preferenza degli studenti che non
hanno ottenuto risultati scolastici molto brillanti, circostanza che probabilmente li
scoraggia dall’intraprendere gli studi universitari, più lunghi ed impegnativi. A proposito
dell’università, occorre sottolineare che, nonostante che il 36,1% dei 25-29enni dichiari di
averla in qualche modo frequentata, solo il 14,9% è in possesso di un titolo di laurea; gli
altri o hanno abbandonato gli studi o frequentano ancora
9
.
L’intenzione di proseguire gli studi dopo la maturità non sembra essere legata al genere
degli studenti, mentre dipende da fattori socio-culturali, poiché la propensione ad iscriversi
all’università aumenta con il titolo di studio dei genitori. Tale influenza è più evidente
negli Istituti tecnici che nei Licei, dove è comunque molto ridotta la percentuale di chi
intende interrompere gli studi; quindi, la decisione di cercare un lavoro appena conseguito
il diploma, riguarda quasi esclusivamente gli studenti degli Istituti tecnici, dei quali circa il
10% pensa di seguire corsi di specializzazione e formazione professionale prima di entrare
nel mondo del lavoro
10
.
Quanto detto finora conferma, in termini oggettivi, il fatto che lo studio sta assumendo una
crescente importanza nella vita dei giovani; questo è vero anche da un punto di vista
individuale, in quanto la maggior parte di loro considera lo studio e la cultura importanti.
Ad esprimere tale giudizio favorevole sono soprattutto i giovani che hanno un titolo di
studio elevato o che studiano ancora, le ragazze e chi proviene da famiglie di alta
estrazione sociale e culturale. Sono numerosi anche i giovani che si ritengono soddisfatti
dell’istruzione ricevuta; tale soddisfazione è stata, invece, espressa solo da una minoranza
dei giovani che lavorano, la maggior parte dei quali dichiara che la loro preparazione
9
GASPERONI G., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A. (a cura di), 1997.
10
GASPERONI G., 1996.
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scolastica è stata per niente o poco utile per la loro attività. Il numero di chi dà questo
giudizio negativo aumenta al diminuire del titolo di studio posseduto, a conferma
dell’inadeguatezza della scuola media inferiore e, in misura crescente, anche superiore a
preparare i giovani ad una professione: infatti, i più convinti dell’utilità degli studi fatti
sono i laureati, che, a differenza di chi ha conseguito titoli di studio inferiori, hanno in
genere la possibilità di accedere a lavori sufficientemente gratificanti.
Il sistema scolastico sembra, quindi, aver perso di vista l’importante obiettivo di fornire ai
giovani le basi adeguate per inserirsi nel mondo del lavoro, in quanto spesso questi
riescono ad accedere solo a professioni che non giustificano l’impegno messo nello studio
per raggiungerle.
Sarebbe necessario, invece, un impegno maggiore della scuola in tale senso, data la scarsa
presenza di istituzioni preposte all’orientamento professionale, alla segnalazione di
opportunità di lavoro e all’avvio occupazionale, numerose negli altri paesi europei. Tutto
questo diventa più importante adesso, vista la congiuntura sfavorevole in cui si trova il
mercato del lavoro, dopo il miglioramento verificatosi tra la fine degli anni Ottanta e
l’inizio degli anni Novanta.
Nella metà degli anni Novanta, però, a causa del peggioramento delle condizioni
economiche generali, delle crescenti incertezze di molte imprese riguardo al futuro e della
conseguente riduzione degli investimenti, si assiste al deterioramento delle condizioni del
mercato del lavoro. Nel 1996, per la prima volta in venti anni si ha una riduzione del tasso
di attività (sceso al 40,3% dal 42,4% nel 1992), dovuta soprattutto alla diminuzione dei
tassi di attività giovanili, riferiti cioè alle persone di età compresa tra i 15 e i 29 anni (dal
31,9% nel 1992 al 28,3% nel 1996)
11
e all’aumento delle persone anziane in età non
lavorativa; inoltre si accentuano le diseguaglianze del mercato del lavoro rispetto alle aree
geografiche, come dimostra l’andamento del tasso di occupazione, che esprime la capacità
dell’area di assicurare posti di lavoro alla popolazione presente: nel Nord-Est tale tasso
perde 1,3 punti, scendendo al 41,5%, contro i 2,4 del Sud, dove arriva al 27% (Fonte:
Rilevazione trimestrale ISTAT sulle forze di lavoro).
Queste circostanze, ovviamente, non aiutano l’inserimento dei giovani nel mondo del
lavoro, nel quale è difficile non soltanto entrare, ma anche riuscire a rimanere: infatti,
11
Solo una parte trascurabile (nell’ordine di 0,1-0,2 punti percentuali) di tali variazioni è dovuta al
cambiamento dei metodi di campionamento adottati dall’ISTAT a partire da gennaio 1993, quando i ragazzi
di 14 anni sono stati inseriti nella categoria di persone in età non lavorativa.
9
mentre si riduce il peso dei giovani in cerca di prima occupazione (5,4%), aumenta quello
di coloro che hanno perso un precedente posto di lavoro (8,6%)
12
.
Le differenze territoriali della struttura occupazionale diventano ancora più rilevanti se
riferite ai giovani (15-29 anni): la proporzione degli occupati stabili a tempo pieno nel
Nord-Est è tripla di quella delle Isole, i dipendenti a tempo determinato sono molto più
numerosi al Sud che al Nord, i giovani in cerca di prima occupazione sono cinque volte
relativamente più numerosi nelle Isole che nel Nord-Ovest e i disoccupati quasi quattro
volte; la percentuale di senza lavoro varia dal 6,6% nel Nord-Ovest al 28,5% nelle Isole,
dove i disoccupati sono più numerosi degli occupati (28,5% contro il 25,6%); al Sud sono
più lunghi i tempi di permanenza all’interno del sistema scolastico ed è rilevante anche la
percentuale di casalinghe (oltre il 5% nel Sud e nelle Isole contro meno del 2% nel resto
d’Italia), cioè di giovani donne che rinunciano ad entrare nel mercato del lavoro e a
studiare.
Per quanto riguarda i livelli d’occupazione esistono ancora, infatti, squilibri legati al genere
e le giovani in cerca di un impiego incontrano difficoltà maggiori dei loro coetanei; i
problemi aumentano per coloro che vivono nelle regioni meridionali e nelle Isole, dove,
alle minori opportunità offerte dal mercato, si unisce, soprattutto nei piccoli centri, una
concezione del lavoro tipicamente maschile.
Facendo confronti tra occupazione maschile e femminile, a prescindere dalla ripartizione
geografica di residenza, si osserva una differenza di nove punti percentuali nel totale degli
occupati (42,9% per i maschi e 33,7% per le femmine) e di un punto nel totale dei senza
lavoro (13,5% per i maschi, 14,5% per le femmine); nella componente non attiva si ha una
prevalenza di studenti, tra i quali è più numerosa la presenza femminile. Come già notato
in precedenza, le giovani, consapevoli delle loro difficoltà di inserimento nel mondo del
lavoro, investono maggiormente in istruzione, come dimostra il fatto che le donne per
ottenere un posto hanno bisogno di un titolo di studio mediamente più elevato degli
uomini.
Tornando alle diseguaglianze territoriali del mercato del lavoro, si osservano differenze
riguardanti, non solo la condizione professionale dei giovani (occupati, disoccupati,
studenti…), ma anche il tipo di professione svolta e le condizioni contrattuali. Queste
ultime sono migliori al Nord, in particolare il Nord-Est, dove solo il 3,5% degli occupati
dichiara di non avere un contratto regolare, contro il 26,3% delle Isole e il 31,5% del Sud;
tali differenze si spiegano in parte con la diversa struttura occupazionale territoriale, data la
12
BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A., (a cura di), 1997.
10
diffusione nel Meridione di impieghi manuali non specializzati (operai comuni,
coadiuvanti, lavoranti a domicilio…), più dequalificati e precari.
Le occupazioni impiegatizie prevalgono nelle Isole, nelle quali, essendo a statuto speciale,
ha un peso rilevante, anche da un punto di vista occupazionale, la pubblica
amministrazione locale; i lavoratori autonomi nel Sud, dove svolgono soprattutto attività di
distribuzione commerciale, mentre nel Nord sono generalmente artigiani. Rispetto al
territorio, inoltre, esistono squilibri nelle retribuzioni, più elevate al Nord e più basse al
Sud; si riscontrano differenze in questo senso anche secondo il genere (le donne
percepiscono salari mediamente più bassi), il titolo di studio (i laureati guadagnano quasi il
50% in più di chi ha la licenza elementare), ma non per l’origine sociale, definita in base
all’occupazione del padre
13
.
Come accennato in precedenza, in Italia è scarsa la presenza di istituzioni nel campo
dell’orientamento professionale e dell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, per
questo le loro attività di ricerca di un’occupazione si basano prevalentemente su iniziative
personali e sull’aiuto di parenti e amici. Tali canali si rivelano anche molto efficaci, come
dimostra il fatto che il 66,7% dei giovani ha trovato il primo lavoro in questo modo, contro
il 6,2% di chi si è rivolto alle istituzioni pubbliche, mediante iscrizione all’ufficio di
collocamento o partecipazione ad un concorso. Le modalità di ricerca sono legate alle
caratteristiche strutturali dei giovani, dato che all’aumentare dell’età, delle origini sociali,
del titolo di studio, diminuisce il ricorso all’aiuto di parenti ed amici e prevalgono le
strategie individualistiche; il ricorso alle istituzioni statali è, invece, maggiore al Sud e
nelle Isole.
Per quanto riguarda il giudizio personale dei giovani sul lavoro e il loro livello di
soddisfazione, si osservano dei cambiamenti rispetto al passato: mentre nel corso degli
anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta le indagini Iard avevano evidenziato un
continuo calo della percentuale di giovani che attribuivano molta importanza al lavoro,
l’indagine Iard condotta nel 1996 mostra un aumento di tale quota, che passa dal 60,2% al
62,5%
14
. Questa inversione di tendenza si spiega con il maggior numero di disoccupati e di
lavoratori precari che generalmente sembrano apprezzare più degli altri il lavoro. Cresce
anche il numero di occupati che esprimono alti livelli di soddisfazione del lavoro (dal
24,8% al 28,9%). Tale valutazione dipende dall’area geografica (i più soddisfatti sono i
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BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A., (a cura di), 1997.
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DE LILLO A., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A., (a cura di),1997.
11
giovani del Nord-Est, i meno soddisfatti quelli delle Isole) e dal titolo di studio,
all’aumentare del quale cresce la soddisfazione.
Inoltre, chi ha portato a termine gli studi universitari dimostra di avere un atteggiamento
più flessibile verso il lavoro: i laureati sono infatti disposti a svolgere un’attività poco
retribuita per fare esperienza e migliorare la propria preparazione e ad accettare anche
impieghi non adeguati al loro titolo di studio, dato che, una volta entrati nel mercato del
lavoro, sarà più facile ottenere un’occupazione più gratificante e corrispondente al percorso
di studi fatto. A questo proposito si osserva tra i laureati una propensione maggiore a
trasferirsi, non per un bisogno materiale, ma per migliorare la propria posizione
professionale, trovando altrove un impiego più soddisfacente e che consenta la loro
realizzazione personale. E’ questo bisogno di migliorarsi, di sfruttare al meglio le proprie
capacità, di realizzarsi che porta molti giovani, soprattutto quelli con un titolo di studio
elevato, a preferire il lavoro autonomo a quello dipendente.
Nel corso degli anni Novanta, con il peggioramento delle condizioni economiche generali
e le maggiori difficoltà di trovare un posto, si è, però, ridotto il numero di giovani che
condividono questa concezione meno materiale e più formativa e realizzativa del lavoro: se
si considera l’aspetto del lavoro ritenuto più importante, tra il 1992 e il 1996 diminuisce
notevolmente la percentuale di quelli che indicano “la possibilità di imparare cose nuove
ed esprimere le proprie capacità” (dal 32,1% al 23,6%), mentre aumentano quelli che
considerano più importante il reddito (dal 19,8% al 32,3%). Tali risposte dipendono dal
titolo di studio posseduto: il 33,2% dei laureati ritiene più importante l’aspetto formativo
del lavoro, contro il 14,3% di chi ha conseguito la licenza media; questi ultimi mettono al
primo posto il reddito, scelto dal 40,5%, contro il 23,7% dei laureati.
Il livello d’istruzione, quindi, influisce molto sull’immagine che i giovani hanno del lavoro
e sul loro grado di soddisfazione.
Da notare, infine, che con il recente aumento dei tassi di scolarizzazione sono aumentate
anche le aspettative dei giovani nei confronti del lavoro; tali attese in alcuni casi possono
avere un effetto negativo, in quanto determinano la cosiddetta disoccupazione intellettuale,
dovuta alle difficoltà di trovare un impiego adeguato al livello d’istruzione raggiunto.
Questa forma di disoccupazione è, comunque, in parte attenuata dalla maggiore
propensione alla mobilità, cioè a cambiare residenza per migliorare la propria condizione
lavorativa, che si osserva presso i diplomati e soprattutto i laureati.
12
1.2 Socializzazione e valori
L’aumento dell’istruzione e del periodo formativo, le difficoltà di trovare un’occupazione,
insieme ad altri fattori hanno contribuito a un fatto importante: l’allungamento della
giovinezza intesa essenzialmente come età dell’incertezza; i giovani degli anni Ottanta e,
in misura maggiore, degli anni Novanta dimostrano di non avere idee molto chiare
riguardo al loro futuro e preferiscono rimandare nel tempo le decisioni importanti della vita
e non assumersi presto troppe responsabilità. L’attenzione dei giovani è, quindi,
concentrata sul presente, vale a dire sulle persone e sull’ambiente che li circondano, come
dimostra la notevole importanza attribuita ai rapporti interpersonali e alla vita di relazione.
Nella loro gerarchia dei valori il primo posto spetta alla famiglia, che rappresenta l’ambito
di vita più apprezzato dai giovani, come dimostra il fatto che aumenta la loro permanenza
nella famiglia d’origine: essi tendono sempre più spesso a lasciarla, non al termine degli
studi o all’ottenimento di un lavoro, ma nel momento in cui decidono di formare un
proprio nucleo familiare. A partire dalla metà degli anni Ottanta è cresciuto
progressivamente il rilievo attribuito all’amicizia
15
(nel 1983 era ritenuta molto importante
dal 58,4% dei giovani, nel 1996 dal 73,1%), allo svago nel tempo libero, allo studio e alla
cultura, alle attività sportive, all’impegno sociale, politico, religioso, mentre è diminuito
quello attribuito al lavoro (dal 67,7% nel 1983 al 62,5% nel 1996). Sull’importanza
assegnata a questi aspetti influisce molto l’età dei giovani. All’aumentare dell’età l’unico
valore che cresce è il lavoro (dal 50,1% al 66,6% tra i 25-29enni), lo svago nel tempo
libero e lo sport, invece, diminuiscono sensibilmente (dal 61,3% al 44,5% e dal 37,7% al
29,4%, rispettivamente); per l’amicizia si osserva un andamento analogo, anche se la
riduzione non è così rilevante (dal 76,1% tra i ragazzi di 15-17 anni al 71% tra i 25-
29enni). Il fatto che l’importanza attribuita allo studio e alla cultura diminuisca con l’età
(dal 42,4% dei ragazzi di 15-17 anni al 33% dei giovani di 25-29 anni) è senza dubbio
legato al ciclo di studi, al termine del quale l’attenzione dei giovani si concentra
maggiormente sul lavoro, trascurando gli interessi culturali. Per quanto riguarda la sfera
degli impegni, si osserva un andamento irregolare del rilievo ad essi assegnato, che
aumenta, fino a raggiungere il massimo in corrispondenza della classe d’età 18-20 anni; a
questo punto tutti e tre i tipi d’impegno, sociale, religioso, politico, diminuiscono tra i 21 e
i 24 anni, rimanendo comunque su livelli superiori di quelli riscontrati tra i 15 e i 17 anni;
15
DE LILLO A., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A., (a cura di), 1997.
13
infine, tra i 25-29enni, aumenta di nuovo l’interesse per l’impegno sociale, mentre rimane
costante quello per l’impegno religioso e politico.
Le categorie dell’impegno occupano gli ultimi tre posti della gerarchia dei valori; è,
invece, sensibilmente maggiore l’importanza attribuita a valori quali la libertà e la
democrazia, la solidarietà, l’eguaglianza sociale; questo atteggiamento è sintomo di una
notevole attenzione e sensibilità da parte dei giovani verso i problemi della realtà che li
circonda, ma anche di una certa esitazione ad impegnarsi in prima persona. Generalmente
tale impegno si manifesta mediante l’adesione e partecipazione alle attività di associazioni
o gruppi. A proposito della vita associativa dei giovani
16
, si osserva in Italia il
raggiungimento di elevati livelli di partecipazione e l’aumento sensibile del numero di
associazioni frequentate in media da ognuno di essi. Quando si parla di gruppi e
associazioni conviene distinguerli in base alle loro finalità: alcune, infatti, sono rivolte in
modo diretto agli associati, tramite la fornitura di servizi, la realizzazione di attività
ricreative e culturali, altre promuovono l’impegno sociale, politico, sindacale e attività a
favore dei più svantaggiati; infine ci sono le associazioni religiose. Le prime sono le più
partecipate, in particolare quelle rivolte a chi pratica un’attività sportiva; generalmente
l’adesione ad un gruppo non è esclusiva, nel senso che in molti casi i giovani ne
frequentano più di uno contemporaneamente. Il grado di partecipazione alla vita
associativa è strettamente legato al genere, all’età, al territorio, alle caratteristiche della
famiglia d’origine. Tra le ragazze è maggiore il numero di non associate (40,8% contro il
33,4% dei ragazzi) ed è minore quello delle associate ad uno o più gruppi, rispetto ai loro
coetanei; rispetto al genere cambia anche il tipo di associazione scelta, dato che i maschi
aderiscono più numerosi a quelle ricreative, sportive e culturali, e le femmine a quelle
religiose. Con l’età aumenta la quota di giovani che non aderiscono a nessuna associazione
(dal 23,9% dei 15-17enni al 44,3% dei 25-29enni), aumenta fino a 24 anni quella di
“monoassociati”, diminuisce, passando dal 58,4% dei ragazzi di 15-17 anni al 32,9% dei
giovani di 25-29 anni, il numero dei “multiassociati”. I giovani del Nord-Ovest presentano
livelli di partecipazione alla vita associativa molto più elevati rispetto al resto del Paese: il
55% di questi risulta essere “multiassociato”, contro valori che nelle altre aree superano il
40% solo nelle regioni del Nord-Est. Le origini sociali e il livello culturale della famiglia,
se elevati, rappresentano uno stimolo alla partecipazione: aderisce a più associazioni quasi
il 50% di chi appartiene alla classe superiore o impiegatizia, contro valori che non
16
ALBANO R., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A., (a cura di), 1997.
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raggiungono il 40% per chi appartiene alla piccola borghesia o alla classe operaia. Un
discorso analogo vale per il grado di scolarizzazione della famiglia: il 51,9% di chi ha
almeno un genitore con un titolo di studio elevato si rivela multiassociato, contro il 29,6%
di chi ha i genitori meno istruiti.
E’ interessante notare le modalità di adesione dei giovani alle associazioni di impegno, in
quanto è molto ridotta la loro partecipazione a quelle sindacali, di categoria, studentesche,
politiche e a quelle mirate alla difesa dei diritti civili, umani, politici. E’ sempre più
diffusa, invece, la loro adesione ad associazioni di volontariato, e più in generale di
impegno sociale e religioso, che si adoperano per aiutare le altre persone, in particolare chi
vive in condizioni disagiate, gli anziani, i malati, gli emarginati…
I giovani, quindi, più attenti ai bisogni degli altri, sembrano attribuire scarsa importanza
alla difesa dei propri diritti ed interessi. Questo comportamento si accompagna, e
probabilmente ne è una conseguenza, alla bassa fiducia dei giovani nei sindacalisti, nei
funzionari statali, nel governo, nei partiti, negli uomini politici, ai quali solo il 9% dei
giovani assegna una certa fiducia. Tale rifiuto per le figure legate al potere legislativo ed
esecutivo dello Stato è confermato dall’atteggiamento dei giovani nei confronti della
politica: se solo il 3% dei 15-24enni si considera politicamente impegnato, il 19,9% di
questi afferma di essere ‘disgustato’ dalla politica; gli altri, circa il 70% affermano di non
volersi impegnare direttamente in questo campo. Questo atteggiamento negativo nei
confronti del sistema politico sembra riguardare, più che i suoi princìpi ed istituzioni,
coloro che gestiscono gli affari pubblici, come dimostra il fatto che la grande maggioranza
dei giovani ha votato nelle elezioni politiche del 1996. A tale proposito, se si chiede ai
giovani di indicare la loro posizione politica (sinistra, centro, destra), si osserva un
notevole aumento, rispetto al 1992, di chi si colloca a destra (dal 18,8% al 32,1%), una
leggera diminuzione di chi si pone a sinistra (dal 40% al 38,6%) e un notevole calo di chi
si colloca al centro (dal 41,2% al 29,3%). Le preferenze elettorali dei giovani non sono più
rivolte ai partiti nati negli anni Settanta ed Ottanta (i radicali, i Verdi, la Rete), ma ai partiti
di più vecchia tradizione e di matrice ideologica, nonostante il crollo della DC.
Quest’ultimo fatto non sembra aver avuto effetti negativi sui cattolici, tra i quali è
aumentato il sentimento religioso, l’associazionismo, l’impegno sociale ed assistenziale,
come è confermato anche dall’aumento della fiducia dei giovani nei sacerdoti. Questi
cambiamenti sono comunque contenuti, data la particolarità del comportamento dei
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giovani nei confronti della religione
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, che è coerente solo per una minoranza di questi,
dato che riguarda circa il 10%, nonostante che oltre l’80% dichiari di essere credente. Tale
minoranza dimostra di avere un forte senso di appartenenza nei confronti della confessione
cattolica, confermato dalla loro grande fiducia nel clero; più numerosi sono i praticanti,
dato che un giovane su tre partecipa ai riti religiosi più volte al mese. Inoltre, è ridotto
anche il numero di coloro che regolarmente prendono parte alle attività organizzate dalle
parrocchie o da altre associazioni religiose, nonostante siano ben più numerosi i giovani
che ritengono l’impegno religioso molto importante nella loro vita. Questo può dipendere
dal fatto che le organizzazioni religiose non sono in grado di coinvolgere giovani
religiosamente motivati, ma anche dal fatto che i giovani spesso per impegno religioso
intendono la partecipazione alla messa. Accanto a quelli che dimostrano una certa coerenza
nei confronti della religione, si collocano altri due gruppi di giovani: i non religiosi
(13,5%), per i quali la religione non è importante, non credono in Dio, non vanno mai a
messa; i giovani che presentano atteggiamenti religiosi incoerenti (42,7%): credono, la
religione è per loro importante, ma non vanno a messa, oppure non credono, ma
partecipano ai riti religiosi. Inoltre i giovani, anche i più religiosi, dimostrano una certa
autonomia nei confronti degli insegnamenti ed indicazioni della Chiesa Cattolica
riguardanti l’etica e la morale.
I giovani, in definitiva, accettano malvolentieri tutto quanto, a loro avviso, rappresenti
un’imposizione, un limite all’espressione della propria autonomia e libertà personali;
questo è confermato dalla loro propensione alla trasgressione e dall’accettazione del
rischio, non più visto come qualcosa di negativo, ma quasi come un valore
18
. Questi ultimi
due atteggiamenti sono tipici dell’età giovanile, ma in anni recenti si sono acuiti in modo
preoccupante, evidenziando spesso superficialità e leggerezza in situazioni, che oltre ad
essere moralmente criticabili, si rivelano anche pericolose. Infatti, più di un terzo dei
giovani afferma di aver tenuto un comportamento spericolato alla guida di una macchina,
una quota più ridotta di aver guidato in stato di ebbrezza, altri, circa un giovane su cinque,
di aver corso dei rischi nei rapporti sessuali; nel corso degli anni Novanta è aumentata
l’esposizione alle droghe e all’alcol. A tale riguardo, tra il 1992 e il 1996 si è verificata una
crescita sensibile del numero dei giovani che ritengono possibili comportamenti quali
ubriacarsi (dal 48,7% al 60,1%), fumare marijuana (dal 19,1% al 31%), prendere droghe
pesanti (dal 3,3% al 6,6%), a causa anche dei maggiori contatti con il mondo della droga:
17
ROSTAN M., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A., (a cura di), 1997.
18
BUZZI C., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A. (a cura di), 1997.
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sono aumentati i giovani che conoscono persone che fanno uso di stupefacenti, quelli a cui
è stato offerto qualche tipo di droga e quelli che hanno sentito il desiderio di provarla.
L’eventualità di ubriacarsi o di fare uso di droghe è massima tra i giovani di 18-20 anni e
aumenta insieme alle condizioni di benessere: diventa maggiore passando dal Meridione al
Centro-Nord, dai piccoli centri alle grandi città, dalle famiglie con bassa scolarizzazione a
quelle con un elevato livello culturale e all’aumentare delle origini sociali. Non è, quindi,
una situazione di disagio a spingere i giovani a fare questo tipo di scelte, che comportano
un’accettazione consapevole del rischio, quanto la loro tendenza a considerare desiderabile
ogni comportamento revocabile o che consenta di ritornare alle condizioni di partenza: si
possono, cioè, compiere scelte rischiose, che però non siano irreversibili. Fare uso di
droghe, ubriacarsi, compiere azioni dannose per la salute e l’incolumità fisica secondo
molti giovani rappresentano comportamenti che avrebbero i requisiti della revocabilità e
della reversibilità.
Tale metodo di valutazione è usato anche nel momento in cui devono prendere delle
decisioni importanti che avranno un peso rilevante sul loro futuro: in questo caso i giovani
dimostrano un’eccessiva prudenza ed incertezza, che li spinge generalmente a rimandare
nel tempo scelte che considerano irreversibili come il matrimonio e la procreazione.
1.3 Sessualità, famiglia e figli
Le caratteristiche dei giovani appena descritte (maggiore scolarizzazione, difficoltà di
trovare un lavoro, insicurezza e propensione a non assumersi troppo presto le proprie
responsabilità) hanno come primo effetto l’allungamento nel tempo della loro permanenza
all’interno della famiglia d’origine e quindi il rinvio della formazione di un proprio nucleo
familiare. Infatti, l’80% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni vive ancora con i
propri genitori; in particolare, nel 1996 il 59% dei 28-29enni e il 44% delle giovani aventi
la stessa età vivevano ancora nella casa paterna
19
. Praticamente in un numero crescente di
famiglie convivono senza problemi due generazioni di adulti, dato che i figli, superati i
venti anni, non sono più soggetti ad uno stretto controllo dei genitori, che concedono loro
ampia libertà nel frequentare gli amici, il proprio partner…
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CAVALLI A., in BUZZI C., CAVALLI A., DE LILLO A. (a cura di), 1997.