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INTRODUZIONE
Dopo un primo inquadramento delle varie definizioni di cui questo “fenomeno” è stato
oggetto, ho cercato di descrivere come, nel tempo, si sia arrivati gradualmente
all’inquadramento diagnostico attuale del DSM (Capitolo 1).
Partendo da quest’ultimo, mi è sembrato interessante individuare i numerosi modelli
interpretativi tra quelli più significativi, formulati sul disturbo. E’ una panoramica che
attesta l’impegno elaborativo che, sui fronti più diversi, ha realizzato una tessitura che
collegasse cause remote, prossime, ambientali e personali con fattori di mantenimento e
conseguenze, in un disegno concettuale che rappresentasse “il razionale” nella
spiegazione del disturbo, e quindi, nella direzionalità da dare ai vari interventi
(Capitolo 2).
Dalla dialettica tra teoria e teoria della “clinica” (concettualizzazioni sulle tematiche più
significative e ricorsive nella pratica clinica) mi è sembrato necessario enucleare e
puntualizzare quelli che sono i grandi temi appartenenti alla realtà delle persone che
combattono la strenua lotta con il disturbo (a volte vincendola, a volte soccombendo).
Spesso però nella clinica le manifestazioni del disturbo alimentare non sono
altrettanto limpide quanto le etichette diagnostiche utilizzate per designarle: in
moltissimi casi comportamenti di tipo anoressico e di tipo bulimico tendono a
sfocare gli uni negli altri o a cedersi il posto in una sorta di “zig zag” tra
espressioni che richiamano l’idea di un continuum piuttosto che quella delle
categorie finite. In realtà il “progetto” anoressico coincide con quello bulimico: il
traguardo è in entrambe le condizioni il raggiungimento della magrezza (e non di
un semplice corpo magro); tuttavia, mentre l’anoressica rimane costantemente
incollata all’ideale, che ottiene boicottando con la volontà i bisogni del corpo, la
bulimica cede all’irruenza della spinta pulsionale e ripristina l’ideale solo a
momenti alterni. Proprio quelli che i clinici definiscono “sintomi” rappresentano
una realtà, per chi li vive, un “progetto di autocura”, una strategia per il
raggiungimento dell’obiettivo, ed è questo che rende oltremodo difficile il momento
terapeutico. Anche l’anoressia e la bulimia sono una scelta e perfino una autocura:
il rifugio nel sintomo consente di sfuggire ai pericoli, alle minacce, ai dolori che
rendono intollerabile la vita, in nome di un ideale di onnipotenza, di distacco, di
autonomia assoluta. Sono questi temi di grande peso specifico che per la loro
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ricorsività e pervasività finiscono con il rappresentare i vari “modi” che il terapeuta ed il
paziente devono progressivamente riconoscere e “sciogliere” lungo il percorso di
terapia (Capitolo 3).
Alla luce di quanto individuato, ne è conseguito un tentativo di volere verificare
l’orientamento in termini “d’intervento” psicoterapeutico ispirato ad un metamodello
Cognitivo e Cognitivo-Comportamentale con una particolare riflessione sulle
fondamentali tecniche e tappe operative. Queste ultime, inquadrate nella cornice
Cognitivo-Causale, acquisiscono un senso ed una direzionalità più completa e
risolutoria rispetto non più soltanto alla “guarigione” da un disturbo di così seria
rilevanza clinica, bensì alla “trasmutazione” di energie (morali, intellettive, emotive,
spirituali, operative) precedentemente “catturate” e dimensionate in funzione di
Interessi Prioritari “distorti” e susseguentemente ri-orientate verso la piena espressività
di una “Identità Libera” di essere riccamente autentica (Capitolo 4).
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CAPITOLO 1
“I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE”:
Quali Origini?
Un’ analisi delle condizioni sociali e storiche in cui
vivono gli essere umani mostra la variabilità delle
manifestazioni psichiche con il mutare di queste
condizioni. Una storia della malattia è concepibile
nel quadro della storia sociale e dell’evoluzione
mentale. Essa mostra come cambia il quadro di
malattie scientificamente identiche, soprattutto come
abbiano il loro Zeitstil (stile particolare secondo i
tempi), che insorge in determinate situazioni, mentre
in altre quasi scompare.
Karl Jasper
1. Nascita di una sindrome culturale: il fenomeno Anoressico Bulimico
“Quanto c’è di più individuale e solitario – la sofferenza – è regolato da una sorta di
grammatica storica e sociale che consente al dolore di farsi oggettivo. Un insieme di
segni si muta in un’ espressione d’altro o in un sintomo di un’entità che viene
astrattamente definita come malattia, sulla base di un consolidato dizionario e secondo
una sintassi semeiotica e clinica che la società mette a disposizione di chi soffre,
rassicurandolo dell’esistenza di una logica di senso compiuto nel suo patire personale”
(Il Disturbo Alimentare. Faccio E. pag.19).
La patologia entra allora in risonanza con il processo storico dal quale ha tratto origine,
ed essendo in certo senso funzione del contesto tende a variare, quanto a sintomatologia,
in corrispondenza dei mutamenti nelle condizioni storiche e sociali.
La concezione della “sociogenesi” dei fenomeni psicopatologici (De Swann, 1982)
attribuisce a gran parte dei disturbi psichiatrici una matrice sociale; anche l’anoressia e
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la bulimia nervosa sarebbero delle sindromi culturali, scoperte o forse inventate alla fine
dell’Ottocento, ma propriamente medicalizzate solo nei nostri anni.
A chi avverte il fascino e la suggestione di una simile lettura del fenomeno, è possibile
che rimanga qualche perplessità: ogni comportamento di malattia presuppone l’adesione
ad un modello culturale-sociale del quale vengono assimilate le regole che poi la
malattia traduce. In forma più o meno latente, più o meno implicita, l’ammalarsi si
configurerebbe allora come un processo d’apprendimento.
Perché non supporre che un’epidemia culturale sia data dal reciproco influenzarsi
delle menti verso l’attivazione di determinati schemi di pensiero e di
comportamento, quasi una matrice mentale comune ed immateriale fosse in grado
di orientare o di entrare in risonanza con la sensibilità del singolo? E se il pensiero
non fosse un’identità stanziata nell’individuo, bensì un discorso tra mente e mente,
che oltrepassa i confini individuali, anche se solo attraverso le elaborazioni del
singolo a noi è dato di accostare? Forse non spetta a noi decidere quale soluzione sia
la migliore, forse non si tratta neanche di alternative, ma di ipotesi compresenti e
complementari, la cui verità non è né maggiore né minore rispetto a quella che siamo
disposti a riconoscere loro (Faccio, 2001).
1.2 L’astinenza dal cibo ed i suoi diversi significati nel tempo
Quando la scarsità delle risorse rendeva le persone accorte e parsimoniose nel consumo
del cibo, custodito come bene prezioso e quindi mai oggetto di rifiuto, coloro che
volontariamente se ne astenevano venivano considerati come essere strani ed in un certo
senso sospetti. In un epoca dove l’unico principio esplicativo della realtà era il Divino,
ogni fenomeno che si sottraesse ad un’immediata comprensione di natura terrena veniva
ricondotto alla trascendenza, o in senso positivo, oppure negativo: poteva essere effetto
della volontà di Dio o effetto della sua assenza.
Nel mondo del Sacro l’astinenza dal cibo era intesa come pratica purificatrice che
elevava lo spirito al di sopra dei bisogni della carne, un modo per patire come
Cristo, per essergli più vicini, per nutrirsi del suo stesso “cibo spirituale”. Viceversa, la
dimostrazione di forza che la digiunatrice faceva propria pareva attingere ad
un’onnipotenza non umana, dis-umana, era il segno inquietante dell’intervento di forze
demoniache.
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Così digiuno, emaciazione, assoluto controllo del corpo e dei propri bisogni,
possono essere allo stesso tempo segni di possessione diabolica, di ascetismo o di
anoressia a seconda dell’epoca in cui siamo e di come lo spirito del tempo
(Zeitgeist) abbia permeato dei propri colori le rappresentazioni sociali e culturali.
Sono molti gli elementi di analogia nei vissuti personali che tuttavia ricorrono, pur in
epoche così diverse:
Il bisogno di frustrare – paradossalmente –i bisogni del corpo;
Il piacere tratto dalla privazione;
Un senso di onnipotenza e di sicurezza nelle proprie capacità;
L’aspirazione alla perfezione e quindi anche all’immortalità;
Il raffronto continuo con un immagine ideale di sé;
Le distorsioni percettive precedenti e conseguenti il digiuno;
Il rifiuto della normalità del vivere nella continua tensione verso una realtà
altra ecc.
L’anoressica non riesce mai a liberarsi completamente del proprio corpo, ogni
imposizione, ogni rinuncia è dettata da un Io rigido ed intransigente che opera a servizio
della perfezione di se stesso. E’ “amore” di sé, mai di Altri (o Altro), raggiunto per
assurdo mediante atti autodistruttivi; si tratta di una condizione narcisistica in cui
la propria identità acquista valore e viene ritrovata solo a patto di sottostare a
regole cui una qualunque persona non saprebbe reggere, a patto di rispondere a
canoni e criteri estetici che esasperano quelli consueti. Nell’anoressia l’individuo ha
bisogno di appropriarsi della vita in modo paradossale, attraverso l’intensificazione di
tutte le sensazioni corporee, ha bisogno di esistere per contrasto e per eccesso;
inoltre, a differenza di qualsiasi anacoreta, la paura delirante di ingrassare e il rapporto
problematico con le proprie dimensioni e fattezze non smettono mai di “alimentare” la
mente anoressica.
Tutto è vissuto nella tensione della perfezione, tutto è preso alla lettera e perseguito
caparbiamente: essere “in linea”, infatti, vuol dire stare con il proprio corpo entro la
linea, sulla soglia di separazione tra la vita e la morte, sulla quale fermarsi in
perfetto equilibrio, senza che si prevedano cadute né in un senso né nell’altro.
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All’interno del mondo dello spirito anche questo aspetto si configura diversamente: il
confronto con la morte è qui continuo, ricercato e desiderato in quanto mezzo per la
perfetta congiunzione con la trascendenza. E’ nella morte che si realizza il sogno del
mistico: la fusione con il divino, obiettivo rispetto al quale tutta la vita non rappresenta
che un’indegna preparazione.
La prima descrizione clinica ufficiale è invece quella del medico inglese Richard
Morton che nel 1689, in un suo trattato, riportò una sindrome da deperimento di
origine nervosa, caratterizzata da perdita di appetito globale, senza febbre né tosse, né
respirazione alterata, accompagnata da amenorrea, stitichezza, estremo dimagrimento,
attività incessante della paziente ed un vero e proprio rifiuto verso qualsiasi cura.
Gull nel 1868 descrisse in giovani donne una malattia caratterizzata da emaciazione,
amenorrea, iperattività, e coniò il termine “Anorexia Nervosa”. Egli suppose che la
mancanza di appetito fosse da attribuire ad uno stato mentale morboso, suggerendo per
la guarigione l’allontanamento dall’ambiente familiare.
I primi casi di anoressia secondo il concetto moderno vengono descritti da Lasegue
in Francia nel 1873 (che la definisce Anoressia Isterica). Egli scrisse che le ammalate
affermavano di non essersi mai sentite meglio, né mostravano volontà di guarire, e
sottolineò anche le relazioni patologiche con la famiglia, intuendo così due aspetti
fondamentali della malattia. E’in questo periodo che compare l’elemento
diagnostico cruciale dell’anoressia: la paura morbosa di ingrassare nonostante
l’emaciazione fisica.
In letteratura molti autori si dicono concordi circa l’emergere progressivo nell’anoressia
delle abbuffate, del vomito autoindotto e dell’abuso di lassativi a partire dagli anni
Trenta (Faccio, 2001).
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1.3 Sulle tracce della “Fame da Bue”
Il concetto di bulimia ha radici storiche profonde. Bulimia deriva direttamente dal greco
βουλιμία, termine usato da Galeno (2° sec. d.C.) e già prima da Ippocrate (5° sec a.C.) e
da Aristotele (4° sec a.C.) con il significato di fame enorme, smisurata. Fin dai tempi
dell’antica Grecia, che per prima ne registra la presenza, lo si è utilizzato per indicare
una fame ai limiti dell’umano, una “fame da bue” (dal greco bous=bue+limos=fame).
“Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo” scriveva Ippocrate di
Kos nel V secolo a.C..
La bulimia, intesa come voracità smisurata, figura nelle letterature e nelle mitologie di
tutte le epoche. Dalla medicina è stata considerata a lungo sintomo di varie malattie: per
venticinque secoli, se si calcola il tempo trascorso dagli scritti di Ippocrate e di
Aristotele nei quali la parola bouliméa già compare.
Ripercorrendo in progressione temporale le definizioni fornite al fenomeno su tutto il
territorio europeo (Enciclopedia Britannica, 1797; Dizionario di medicina e di fisica di
Edinburgo, 1807; definizione del francese Blachez, 1896) si va incontro a specificazioni
sempre più puntuali dei caratteri sintomatici. Che siano riferiti come sintomi isolati
oppure come complesso gruppo di sintomi, per lunghi anni nessuno mai vi attribuisce
un’autonomia nosografica. Si continua a considerarli come segni di qualcos’altro: di
epilessia, di handicap mentale, di malattie dismetaboliche o di tumori cerebrali.
Nel 1979 il Professor Gerald Russel sostenne che la bulimia fosse una variabile
clinica dell’anoressia mentale, successivamente fu correlata all’obesità, finchè fu
descritta come sindrome autonoma (DSM/terza edizione, 1980). Russell esaminava
trenta casi clinici (due soli i maschi) che soffrivano di crisi bulimiche ed erano, insieme,
dominati da una paura morbosa di ingrassare. Sei casi non avevano precedenti di
anoressia nervosa; ventiquattro ne avevano invece sofferto in forma grave e durevole
(diciassette) o lieve e transitoria (sette). Al momento della consultazione, il peso era
vicino alla norma in quattordici casi; gravemente diminuito (di oltre il 15% rispetto alla
norma) in altri quattordici casi; aumentato (di oltre il 20%) nei restanti due. Russell,
confrontando la bulimia nervosa con la vera anoressia nervosa, osservava che nella
bulimia nervosa: il peso corporeo è più elevato; è conservata la presenza di cicli
mestruali fertili; è comune una vita sessuale attiva; è alta l'incidenza di crisi depressive
con un importante rischio di suicidio. Concludeva che la bulimia nervosa è una variante
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pericolosa dell'anoressia nervosa, un quadro clinico autonomo, con una prognosi più
sfavorevole.
Un anno dopo, la terza edizione del Diagnostic and stat-istical manual of mental
disorders dell'American psychiatric association (DSM-III 1980) ratificava l'uso
della parola bulimia come nome di una sindrome particolare e ne fissava i criteri
diagnostici. La bulimia secondo il DSM-III non si sovrapponeva alla bulimia nervosa di
Russell, ma copriva un'area più estesa: i criteri DSM-III comprendevano anche le forme
lievi, normopeso, con crisi bulimiche rare, senza quella estrema paura di ingrassare che
secondo Russell è invece necessaria per la diagnosi di bulimia nervosa e che è il tratto
psicopatologico più importante, comune con l'anoressia. Le ricerche epidemiologiche,
condotte applicando i criteri larghi del DSM-III, hanno segnalato una presenza
elevatissima di casi di bulimia fra le donne giovani con valori di prevalenza anche del
20%, un caso ogni cinque ragazze.
Negli anni successivi, il problema della definizione diagnostica è stato molto dibattuto.
Ai criteri DSM-III è stato rimproverato di non distinguere tra forme lievi e forme
gravi di bulimia e di ignorare i rapporti nosodromici e psicopatologici profondi che
intercorrono fra bulimia e anoressia. Sette anni dopo, il DSM-III-R (la terza
edizione del manuale, rivista nel 1987) ha accolto l'espressione di Russell Bulimia
Nervosa per indicare la categoria nosografica e ha fissato criteri diagnostici molto
più restrittivi. Tale posizione è stata inoltre confermata dalla letteratura scientifica
successiva.
L’eziologia organica è parsa la più plausibile sino alla fine del XIX secolo. In seguito
evidenze cliniche hanno suggerito un riorientamento della sindrome entro i quadri delle
patologie psichiche. Fame incontenibile e vomito passano ad essere segni rivelatori di
disturbi a carico della sfera emozionale (Faccio, 2001).
La definizione clinica e la classificazione attuale, contenuta nel DSM- IV TR
(2000), fa riferimento ai seguenti criteri per la diagnosi di un disturbo del
comportamento alimentare come:
L’Anoressia Nervosa (AN),
La Bulimia Nervosa (BN),
Il Disturbo dell’Alimentazione Non Altrimenti Specificato (DANAS), che
raggruppa i disturbi alimentari che non rientrano nelle definizioni
precedenti, ma che sono comunque clinicamente significativi; tra questi
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ultimi degno di nota è il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (DAI), o
in inglese Binge Eating Disorder (BED), che per ora è inserito solo in
appendice B del DSM IV TR, quale categoria che necessita di ulteriori
studi.
Criteri Diagnostici per F50.0 Anoressia Nervosa (AN) 307.1
Per fare diagnosi di Anoressia Nervosa (AN), il DSM IV TR richiede che siano
presenti tutti e 4 i seguenti criteri diagnostici:
1. Rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del peso minimo normale
per l’età e per la statura (per es. perdita di peso corporeo al di sotto dell’85%
rispetto a quanto previsto, oppure incapacità di raggiungere il peso previsto
durante il periodo della crescita in altezza, con la conseguenza che il peso
rimane al di sotto dell’85 rispetto a quanto previsto).
2. Intensa paura di acquistare peso o diventare grassi, anche quando si è
sottopeso.
3. Alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o
eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima,
o rifiuto di ammettere la gravità dell’attuale condizione di sottopeso.
4. Nelle femmine dopo il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno cicli
mestruali consecutivi (una donna viene considerata amenorroica se i suoi
cicli si manifestano solo a seguito di somministrazione di ormoni, per
es.estrogeni).
5. Sottotipo con Restrizioni: nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il
soggetto non ha presentato regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione.
6. Sottotipo con Abbuffate/ Condotte di Eliminazione: Nell’episodio attuale di Anoressia
Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione.
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Criteri Diagnostici per F50.0 Bulimia Nervosa (AN) 307.51
Per fare diagnosi di Bulimia Nervosa (AN), il DSM IV TR richiede che siano
presenti tutti e 5 i seguenti criteri diagnostici:
1. Episodi ricorrenti di abbuffate. Un’abbuffata compulsiva è definita dai
due caratteri seguenti (entrambi necessari):
1.1. Mangiare, in un definito periodo di tempo (ad es. un periodo di due ore), una
quantità di cibo significativamente maggiore di quello che la maggior parte
delle persone mangerebbero nello stesso tempo ed in circostanze simili;
1.2. Sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (ad es. sensazione di non
riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta
mangiando).
2. Ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire
l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, di
diuretici, di enteroclismi o di altri farmaci, digiuno o esercizio fisico
eccessivo.
3. Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano entrambe in media
almeno due volte a settimana almeno per tre mesi.
4. I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal
peso corporei.
5. L’alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di
Anoressia Nervosa (AN).
Sottotipo con Condotte di Eliminazione: Nell’episodio attuale di Bulimia
Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente vomito autoindotto o uso
inappropriato di lassativi, di diuretici o di enteroclismi.
Sottotipo senza Condotte di Eliminazione: Nell’episodio attuale il soggetto
ha presentato regolarmente altri comportamenti compensatori inappropriati,
quali il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non si dedica regolarmente
al vomito auto-indotto o all’uso inappropriato di lassativi, di diuretici o di
enteroclismi.
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Criteri Diagnostici per F50.9 Disturbi dell’alimentazione Non Altrimenti
Specificati (DANAS) 307.50
Questa categoria riguarda quei disturbi dell’alimentazione che non soddisfano i criteri
di nessun specifico Disturbo dell’Alimentazione. Gli esempi includono:
1. Per il sesso femminile, tutti i criteri dell’Anoressia Nervosa (AN) in presenza di
un ciclo mestruale irregolare.
2. Tutti i criteri dell’Anoressia Nervosa sono soddisfatti e, malgrado la
significativa perdita di peso, il peso attuale risulta nei limiti della norma.
3. Tutti i criteri della Bulimia Nervosa risultano soddisfatti tranne il fatto che le
abbuffate e le condotte compensatorie hanno una frequenza inferiore a 2
episodi per settimana per 3 mesi.
4. Un soggetto di peso normale che si dedica regolarmente ad inappropriate
condotte compensatorie dopo avere ingerito piccole quantità di cibo
(es.induzione del vomito per avere mangiato due biscotti).
5. Il soggetto ripetutamente mastica e sputa, senza deglutire, grandi quantità di
cibo.