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L’adolescenza è generalmente considerata come il periodo della ribellione agli aspetti
convenzionali del mondo degli adulti, della protesta sistematica alle imposizioni,
dell’evasione dalla meschinità quotidiana, della ricerca di ideali. È inoltre
caratteristico dell’adolescente che tali mete siano sempre vagheggiate con l’appoggio
di una camerata, di un’amicizia inseparabile con cui scambiare pensieri, affetti e
turbamenti (Palazzoli, 1963). La tendenza a esprimere con il corpo e con il
comportamento contenuti non traducibili in rappresentazioni psichiche è una
caratteristica fase-specifica dell’adolescenza. La sofferenza psichica viene
esteriorizzata attraverso gli agiti. I disturbi del comportamento in adolescenza, quali
ne siano le manifestazioni (disturbi alimentari, devianza, tossicodipendenza, tentati
suicidi), segnalano un intoppo nel processo di soggettivazione (Cahn, 1998), che può
corrispondere a una sofferenza sottostante più o meno grave, da una turbolenta crisi
evolutiva, a un quadro psicopatologico in via di strutturazione; in ogni caso,
l’esteriorizzazione del conflitto consente all’adolescente di evitare un’elaborazione
psichica resa impossibile dall’incapacità di tollerare il dolore emotivo e gli permette
di scaricare la tensione nel gesto. L’organizzazione psichica dell’adolescente, troppo
immatura per mentalizzare i conflitti e tradurli in pensieri e parole o per strutturarsi in
una patologia in grado di esprimersi attraverso dei sintomi, tende a utilizzare il
linguaggio del comportamento. In adolescenza difficilmente la normalità coincide
con l’assenza di segnali di disagio; piuttosto, essa è in funzione della capacità di
affrontare i compiti che questa fase evolutiva propone, dalla cui risoluzione dipende
lo sviluppo successivo. La diffusione dei disturbi del comportamento alimentare fra le
adolescenti delle società occidentali ha assunto, dalla seconda metà del secolo scorso,
un carattere epidemico, diventando espressione del disagio psichico femminile che
caratterizza questa fase evolutiva. Tale diffusione ha trasformato anoressia e bulimia
da patologie gravi e relativamente rare in manifestazioni diffuse di sofferenza, segnali
di una fragilità narcisistica e del carattere conflittuale del processo di costruzione
dell’identità di genere femminile in questo momento della crescita.
INTRODUZIONE
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Nella seconda metà del Novecento, contestualmente ai cambiamenti storici e politici
che hanno caratterizzato il secolo scorso, nel mondo occidentale si è iniziato ad
assistere ad un insieme di trasformazioni antropologiche radicali del vivere sociale.
Quale conseguenza della stretta correlazione tra condizioni sociali e storiche di vita e
variabilità delle manifestazioni psichiche, comincia ad insinuarsi nella popolazione
un fenomeno fino ad allora sporadico: il cibo per milioni di giovani inizia a divenire
un nemico e si diffondono i DA manifestando una modalità nuova, contemporanea, di
esprimere il proprio disagio psichico. In ogni periodo storico disturbi mentali di
rilevanza epidemiologica o di particolare drammaticità illuminano un aspetto
specifico della natura umana, mettendo in evidenza paure e conflitti di quel
particolare periodo storico. L’esplosione esponenziale dei DA si va dunque a
collocare su uno sfondo socio-antropologico che diviene il catalizzatore della
diffusione di sindromi “culture bound” (Prince e Tcheng-Laroche, 1987), legate
ovvero ad aspetti culturali caratteristici del proprio paese rispetto a cui il disagio
psichico sembra adattarsi. Si sono così delineati progressivamente i caratteri di una
vera e propria “epidemia sociale” (Gordon, 1990) che interessa l’intero mondo
occidentale.
Sebbene alcuni studi riportino un incremento dell’incidenza dell’anoressia (Eagles,
1995; Moller-Madsen, 1992; Milos, 2004) molti autori, basandosi su dati raccolti in
diversi paesi (Willi, 1990; Hall, 1991; Jorgensen, 1992; Hoek 1995; Turbull, 1996)
riportano che il tasso di diffusione dell’anoressia nervosa si sta mantenendo piuttosto
costante; lo stesso non si può dire per la bulimia, in continuo incremento. Nonostante
un recente aumento dell’incidenza in età prepuberale, l’età di maggiore insorgenza
dell’anoressia nervosa si colloca tra i 15 e i 19 anni (Lucas, 1991), qualche anno
prima della bulimia, per la quale stiamo assistendo a un progressivo interessamento
anche delle fasce d’età meno giovani.
Riguardo alla severità dei DA, secondo una meta-analisi condotta da Harris e
Barraclough nel 1998, l’AN costituiva il disturbo mentale con il più alto tasso di
mortalità; dati provenienti dal Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e
Promozione della Salute e diversi studi scientifici (Birmingham e collaboratori,
2006), confermano come negli USA i DA costituiscono ancora oggi la prima causa di
1 DIFFUSIONE DEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO
ALIMENTARE
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morte per malattia mentale. Per citare un dato recente, nello studio di Birmingham e
colleghi lo SMR (standardized mortality ratio o rapporto di mortalità standardizzato)
calcolato nel loro campione di 954 pazienti è pari a 10.5, laddove l’SMR della
popolazione normale è pari a 0.71.
L’aumento evidente di queste patologie nelle società occidentali, per la probabile
influenza di fattori storici, sociali e culturali nella “scelta del sintomo”, è stato
caratterizzato da una rapida metamorfosi delle forme cliniche e della fascia di età
interessata: la prevalenza dell’anoressia restrittiva degli anni ’60 è stata
progressivamente sostituita dall’apparire delle forme con crisi bulimiche e vomito
fino al prevalere della bulimia dopo gli anni ’80. Al tempo stesso, nonostante l’età
adolescenziale si consideri da sempre a rischio, il fenomeno si è esteso anche alle età
precedenti lo sviluppo puberale e a quelle successive all’adolescenza. La letteratura
psichiatrica e psicologica sui disturbi alimentari appare oggi sterminata, nonostante
sia presente una notevole sproporzione tra gli studi clinici puramente sintomatici o
epidemiologici e quelli dedicati alla psicopatologia di orientamento dinamico. Ciò
che si osserva è soprattutto il notevole divario tra le ricerche e i lavori teorico-clinici
che sembrano appartenere ad aree di interesse talmente distanti da procedere ognuna
parallelamente e senza mutue influenze.
1.1 ALCUNI DATI EPIDEMIOLOGICI
Per inquadrare in maniera più chiara le patologie anoressico-bulimica è necessario
fare riferimento agli studi epidemiologici su popolazioni normali o in età di rischio.
Le ricerche epidemiologiche sono necessarie per ottenere informazioni sui tassi di
prevalenza e sulla variazione di questi tassi nelle diverse popolazioni e per
identificare i fattori di rischio che aumentano la probabilità che si sviluppi un
disturbo. L’importanza di considerare questi studi per una patologia come quella
anoressico-bulimica risiede innanzitutto nella possibilità di comprendere che esiste
uno spettro molto ampio di DA che si collocano su un continuum di gravità e che pur
presentando caratteristiche comuni sottendono significati psicopatologici specifici che
vanno indagati nell’ambito dello sviluppo psichico individuale. Negli ultimi anni
sono stati numerosi gli studi che hanno mostrato chiaramente gli elevati tassi di
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prevalenza dell’anoressia e della bulimia nella maggior parte dei paesi occidentali,
nonché la presenza pervasiva soprattutto fra gli adolescenti di fattori aspecifici che
possono considerarsi predisponenti allo sviluppo di questi disturbi, come il desiderio
di dimagrire, l’insoddisfazione per il proprio peso corporeo e la propria immagine, il
frequente ricorso a diete, il valore estetico della magrezza, ecc.
Le preoccupazioni relative all’alimentazione e al corpo sembrano essere presenti fin
dall’infanzia in una elevata percentuale di casi (Vetrone e Cuzzolaro, 1996). Negli
ultimi venti anni, anche se le rilevazioni non sono chiare per via dei diversi criteri
diagnostici utilizzati, è apparso evidente un aumento notevole dei disturbi alimentari.
Gli negli anni ‘70 negli Stati Uniti e in Europa rilevavano una prevalenza dello
0.5-0.6% per l’anoressia e del 2% per la bulimia nella popolazione a rischio. Queste
percentuali aumentavano in maniera considerevole (dal 6% al 22%) se si tenevano in
considerazione anche i comportamenti alimentari indicatori di rischio (Halmi e
collaboratori, 1981). Gli studi degli anni ‘80 sulla bulimia rilevavano indici in
crescita, con una prevalenza della sindrome (secondo i criteri del DSM-III) che
variava dal 5 al 20% nella popolazione studentesca femminile e dallo 0 al 5% nella
popolazione maschile (Pope e collaborratori, 1984). Le crisi bulimiche settimanali
erano presenti nella popolazione adulta tra il 5 e il 32%, mentre il vomito autoindotto
settimanale tra l’1 e il 4%. Il DSM-IV riporta una prevalenza tra lo 0.5 e l’1% di
anoressia nella popolazione di adolescenti e giovani adulti e tra l’1 e il 3% per la
bulimia nello stesso tipo di popolazione.
E’ necessario sottolineare due aspetti fondamentali in questi dati: da una parte la
frequenza estremamente elevata di forme cosiddette sub-cliniche che arrivano fino al
20-30% nelle popolazioni a rischio e dall’altra la considerazione proprio di una fascia
d’età a rischio, cioè quella adolescenziale. Questi due fattori sono rilevanti nella
comprensione del disturbo anoressico-bulimico per diversi motivi. Innanzitutto
mettono in luce l’esistenza di uno spettro molto ampio di DA che pone problemi
diagnostici complessi. In secondo luogo, permettono di considerare gli aspetti
“aspecifici” del fenomeno nella nostra cultura. E’ chiaro infatti che molti di questi
comportamenti non sono di per sé segno di psicopatologia, ma occorre considerarli
come il terreno su cui potrebbero svilupparsi queste problematiche. Quello che
sembra essere rilevante dunque è l’importanza di una “cultura” condivisa che non