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1. Il cibo: aspetti sociali, cognitivi e psicodinamici
1. Alimentarsi o mangiare
In gran parte delle culture e in tutte le epoche storiche il cibo ha sempre rappresentato
per l’umanità non solo una necessità, ma anche un piacere. Si mangia per soddisfare i
bisogni energetici dell’organismo, ma si può avere fame anche quando tali bisogni sono
stati adeguatamente soddisfatti o, al contrario, pur essendo sazi, si mangia
qualcos’altro perché è molto appetibile o perché ci consente di alleviare stati d’animo
negativi come disforia, senso di noia, tristezza, rabbia, o sensazioni aspecifiche di
tensione. In ogni caso, l’ingestione di calorie in misura superiore al fabbisogno
quotidiano determina inevitabilmente aumento di peso che, quando raggiunge
determinati valori, sfocia nell’obesità (Pérez, 2008) .
Mangiare rappresenta un vero e proprio fenomeno bio-psico-socio-culturale per via delle
molteplici dimensioni dell’esistenza umana che esso investe. Bisogno vitale, l’atto
alimentare si modula nel corso dello sviluppo di ogni individuo secondo codici cognitivi,
affettivi, comportamentali, comunicativi, socio-relazionali e culturali, costituendo un
vero e proprio oggetto di studio e di ricerca transdisciplinare (Fischler, 1979).
Grazie ai numerosi significati, il mangiare costituisce un’ esperienza fondamentale
nell’arco del ciclo vitale di ogni individuo e una delle principali e fondamentali attività
umane finalizzate alla sopravvivenza ed alla riproduzione.
Il verbo mangiare deriva dall’ebraico “A Hol” che significa “unità, totalità”; per il
mistico mangiare consiste nel ricondurre la totalità all’unità. Rispetto al verbo
“mangiare”, in cui viene maggiormente posto l’accento sull’ingerire alimenti solidi o
semisolidi, masticandoli e deglutendoli, “alimentare” si focalizza più sugli atti del
cibare e del nutrire che, in senso figurato, implica il tenere in vita.
Il nutrire, infatti, comporta la somministrazione ad un essere animato dell’alimento o
delle sostanze necessarie all’espletamento delle sue funzioni vitali; a sua volta,
l’alimento, dal latino “alimentum”, derivato da “alere” (nutrire) è la sostanza
utilizzabile da un organismo per il suo sostentamento (Fata, 2007).
L’alimentazione, a causa dei numerosi significati che la caratterizzano, non può essere
affrontata senza un’ottica di studio multifocale; come forse in nessun’ altra area di
ricerca, qui natura e cultura, mente e corpo, individuo e società sono inestricabilmente
connessi. Sin dalla nascita, il bambino conosce il mondo “con” e “attraverso” la bocca;
egli comunica affettivamente ed emotivamente con gli altri, attraverso le sue
sensazioni di fame, di sazietà , di gusto e di disgusto.
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Mangiare rappresenta così un’esperienza relazionale e affettiva di enorme importanza;
durante l’allattamento, infatti, madre e bambino sperimentano un’intimità psicofisica
attraverso un intenso contatto corporeo (Spitz, 1965). Le modalità, affettuose o meno,
con le quali l’alimento viene offerto potranno essere vissute come gradevoli o
sgradevoli: il cibo viene allora considerato dal bambino come un oggetto che sarà
investito del significato di buono o cattivo in relazione al modo in cui viene ricevuto
(Klein, 1969). La suzione, prima di tutto, non può che farci ricordare dolcezza,
tenerezza e amore, ma alla suzione si accompagna il morso. Mangiare è anche un atto
aggressivo: strappare, mordere, triturare, distruggere e annichilire; è uno dei primi
canali di espressione della rabbia che il bambino ha a disposizione insieme al pianto;
l’amore e l’aggressività sono così indissolubilmente legati che mangiando ciò che ci
piace, lo si distrugge. (Apfeldorfer, 1993).
Ogni volta che mangiamo, dunque, investiamo l’alimento di un significato che risponde
a codici di tipo affettivo, relazionale e sociale; mangiare è un fatto sociale totale, è una
pratica che si apprende con gli altri. Il cibo infatti si iscrive in una rete di scambi sociali
e funziona da mediatore tra le persone.
I nostri comportamenti alimentari sono specchio della società in cui viviamo; i modelli
di produzione, conservazione e distribuzione del cibo sono notevolmente tecnologizzati
e hanno seguito le curve e gli andamenti delle trasformazioni sociali, politiche,
economiche e culturali. L’estrema disponibilità di cibo in ogni luogo, la pubblicità
alimentare pervasiva e la rapida diffusione delle catene alimentari hanno modellato il
nostro modo di mangiare; prevale infatti la cultura del cibo già pronto e dello snack che
rinvia ad un modello di alimentazione frammentato (Pérez, 2008).
L’atto alimentare si presenta così come un’azione delicata e pone un enigma e una sfida
insolubile per l’uomo stesso; l’uomo moderno deve gestire non più la penuria, ma la
profusione, deve scegliere tra numerose pressioni sociali, mediatiche e politiche, deve
operare selezioni, scelte, paragoni, stabilire priorità, combattere pulsioni e resistere
agli impulsi.
Claude Fischler (1990) parla del paradosso dell’ uomo come un onnivoro che
potenzialmente può mangiare di tutto, ma concretamente restringe la sua scelta
alimentare in ragione di diversi motivi: vitali, psicologici, e socio-culturali.
I significati del mangiare sono quindi profondamente legati a complesse trame
psicologiche, sociali e culturali di cui bisogna tener conto nel momento in cui si voglia
studiare il fenomeno, senza dimenticare che esso si colloca all’interno di un processo di
crescita psicosociale che ogni individuo compie all’interno dei propri contesti di
appartenenza.
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Considerare il cibo adottando esclusivamente una prospettiva alimentare non è dunque
solo riduttivo, ma equivale a commettere un grave errore in quanto il cibo assume
sempre più spesso connotazioni simboliche, psicologiche e sociali (Fischler, 1990).
Adottando una prospettiva sistemica, per comprendere l’oggetto cibo è necessario
esplorare la relazione che si instaura tra questo ed il soggetto; una relazione complessa
difficilmente all’azione dell’alimentarsi, ma che va estesa anche ad altre dimensioni di
atteggiamento: emozioni e cognizioni. Cosa proviamo e cosa pensiamo in relazione al
cibo è altrettanto importante –nonché spesso causa- dell’azione del mangiare.
In questo senso, alimentarsi e mangiare non possono essere assunti come sinonimi in
quanto, mentre il primo termine fa riferimento all’assunzione del cibo a scopo
alimentare, il secondo attiene alla contemporanea assunzione dei simbolismi e delle
rappresentazioni sociali e individuali ad esso collegati.
Negli anni ’50 (Pérez, 2008) anche in Italia i supermercati e gli ipermercati hanno
prodotto un’ulteriore modificazione nel rapporto tra i soggetti ed il cibo; la possibilità
di accedere direttamente al prodotto senza più bisogno dell’intermediazione del
venditore ha generato un duplice cambiamento. In relazione all’oggetto cibo è stato
necessario aumentarne la riconoscibilità adottando loghi, formati e soprattutto
campagne pubblicitarie ad alto valore simbolico; in relazione al soggetto, non è stato
più necessario arrivare ad una formulazione delle domanda ma è diventato sufficiente
sviluppare un bisogno.
Il bisogno, rispetto alla domanda, si situa a un livello più profondo, meno razionale e
maggiormente emotivo. I media, ben consapevoli di questo profondo cambiamento, ci
espongono quotidianamente a un numero altissimo di pubblicità di prodotti alimentari in
cui il cibo è irrilevante o pressoché scomparso lasciando spazio ad aspetti simbolici. Il
cibo non viene più scelto esclusivamente in relazione al suo gradimento ma, piuttosto,
alla sua coerenza con l’immagine ch vogliamo dare e che abbiamo di noi (ibid.).
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2. L’alimentazione nello sviluppo
L’alimentazione rappresenta un momento essenziale nella cura del bambino, non solo
per l’aspetto fisiologico ma anche come possibilità di scambio affettivo. Attorno
all’alimentazione si annoda l’asse d’ interazione più precoce tra madre e bambino, asse
che costituirà il nucleo di riferimento dei diversi stadi successivi dello sviluppo (Pérez,
2008). Il comportamento alimentare è quindi parte integrante dello sviluppo del legame
di attaccamento; quando il bambino ha fame, al pari di altre situazioni in cui ha freddo,
è malato o soffre, viene attivato il comportamento di attaccamento, allo scopo di
ottenere la vicinanza della madre, per poter così ristabilire un equilibrio effettivo.
L’alimentazione nei primi 3 anni di vita rappresenta dunque un aspetto fondamentale
dello sviluppo della relazione madre-bambino; diverse ricerche hanno dimostrato come
durante l’allattamento, ad esempio, si crei molto presto un andamento ritmico che
Karen Kaye (1982) ha definito “alternanza dei turni” (turn-taking). Si succedono cioè,
una serie di “turni di attività-pausa”: quando il neonato succhia attivamente, la madre
riduce la sua interazione e perlopiù osserva e sostiene con le parole la suzione del figlio;
quando invece si verifica una pausa nella suzione, è la madre a divenire più attiva, parla
e sorride al bambino, lo accarezza. Queste prime forme di interazione affettiva e
sociale, caratterizzate dall’alternanza e dalla reciprocità, sono assimilabili a dei veri e
propri dialoghi. Crescendo, il bambino continua ad avere bisogno della madre durante il
pasto attraverso ripetute esperienze di interazioni regolari e prevedibili; può ottenere
in tal modo la conferma delle proprie iniziative ed esprimere i primi desideri di
autonomia. Sul piano alimentare, questo periodo corrisponde a due tappe molto
importanti: lo svezzamento e la transizione evolutiva verso l’alimentazione autonoma,
che contribuiscono alla crescita psicologica attraverso la sperimentazione di nuove
capacità (Kaye, 1982).
Lo sviluppo delle capacità cognitive e motorie, infatti, spinge il bambino a sperimentare
la propria autonomia anche attraverso il desiderio di alimentarsi da solo. Egli è molto
più attivo, prende iniziative, fa valere il proprio punto di vista, è in grado di rifiutare il
cibo, tenerlo in bocca, o serrare le labbra; ha ormai raggiunto la prensione e manda dei
segnali verbali, oltre che mimici. Di conseguenza la madre si trova a fronteggiare una
situazione più complessa nel favorire una progressiva accettazione dei nuovi cibi che il
bambino vuole provare, sperimentare, toccare con le mani (Ambruzzi, 2000).
Nel corso della crescita, il bambino conosce nuovi cibi, impara nuovi modi di mangiare
sia in famiglia e sia a scuola e progressivamente estende il suo repertorio alimentare,
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organizzando la sua personalità anche attraverso l’espressione di gusti, preferenze ed
avversioni.
Nella fase adolescenziale, il ragazzo si trova invece di fronte ad un evidente
cambiamento che riflette la sua trasformazione, biologica, corporea, psicologica e
sociale. All’interno del suo percorso di trasformazione esistenziale, l’alimentazione
ricopre uno spazio molto importante a livello dei gusti (Chiva , 2000), dell’ immagine
corporea, dell’apparenza fisica (Wardle, Beales, 1986; Moore, 1990) e
dell’identificazione ad un gruppo di pari; sono inoltre molto valorizzate pratiche
corporee coma la dieta e lo sport.
In effetti numerosi studi e ricerche si sono occupati soprattutto di analizzare gli aspetti
nutrizionali e psicopatologici dell’alimentazione adolescenziale e solo nell’ultimo
decennio è stato prestato un maggiore interesse per l’integrazione di paradigmi teorici
e clinici in un’ottica delle complessità (Onnis, 1994, 1997); nei diversi lavori effettuati
finora, pochi autori sollevano la questione fondamentale del mangiare visto
dall’adolescente stesso e la sua collocazione all’interno di un insieme di concezioni,
regole e modelli sociali dell’alimentazione e del corpo (D’Amore, 2002). Si tratta infatti
di comprendere come i comportamenti alimentari siano collegati anche a specifiche
dimensioni psicosociali e socioevolutive.
Mangiare è una pratica che si costruisce insieme agli altri significativi in riferimento a
concezioni, rappresentazioni sociali (Moscovici, 1961) intese come sistemi di credenze,
atteggiamenti, opinioni condivise nel corso dell’interazione sociale, agenti in
determinati contesti e gruppi di appartenenza.
Si deve, inoltre, considerare la relazione dell’adolescente con il suo corpo come
dinamica tesa alla ricerca di nuovi modelli i riferimento; ricerca che si propone più
difficile in una società dove la magrezza ha cambiato di significato passando da
caratteristica fisica a vero e proprio valore morale.
In termini di comportamenti alimentari, l’adolescente propone problemi assai specifici
(Caviglia, Cecere, 2007):
• soddisfare bisogni calorici più elevati, che si manifestano attraverso una spinta a
mangiare eccessiva e talvolta sregolata.
• rompere con tutto ciò che infantilizza rifiutando i cibi consumati abitualmente
già dalla prima infanzia.
• convivere con il proprio disagio rispetto a preoccupazioni specifiche relative al
corpo.
La complessità dei cambiamenti fisiologici, cognitivi e relazionali caratteristici propri
dell’adolescenza rende questa fase dello sviluppo elettiva per l’insorgenza o l’
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accentuarsi di disturbi alimentari; già le innumerevoli trasformazioni corporee tipiche
della pubertà da sole bastano per mettere a dura prova la capacità di adattamento
dell’adolescente, il quale può non essere psicologicamente attrezzato per comprenderle
in modo equilibrato. Speltini (1996), a tal proposito, indagando sui cambiamenti
corporei maggiormente de valorizzati dagli adolescenti (acne, pelosità corporea,
mestruazioni per le ragazze), ha messo in luce la posizione di forte rilievo occupata
dall’aumento di peso; tale mutamento, in particolare, è apparso de valorizzato
soprattutto dalle ragazze, in quanto la costituzione dell’adiposità fisiologica sembra più
precoce in quest’ultime, mentre più costante e prolungata nell’altro sesso.
Diverse ricerche (Alsaker, 1992; Smolak et al., 1993) hanno evidenziato che per il
genere femminile sia la precocità maturativa, sia il sovrappeso sono correlati con
un’autovalutazione negativa; nello specifico, la quasi totalità delle ragazze
sperimentano esperienze di insoddisfazione per la loro forma corporea (McLaren, Kuh,
2004) ed il sovrappeso sembra un importante fattore predittivo della valutazione di sé. I
maschi, infatti, più avanzano nello sviluppo puberale e più percepiscono favorevolmente
il proprio aspetto fisico (soprattutto poiché il loro aumento di peso dipende per la
maggior parte dall’aumento della massa muscolare), mentre le femmine tendono a
percepirsi meno seducenti (Bariaud, Rodriguez-Tomè, 1994). Questi dati sembrano in
linea con il fatto che la prevalenza dei disturbi alimentari è 10 volte maggiore nelle
donne rispetto agli uomini (Dorian , Garfinkel, 1999). Oltre a fattori di natura biologica
e psicologica anche il contesto socioculturale svolge un ruolo determinante nella genesi
dei disturbi alimentari; Ravaldi, Cangioli, Vannucci e Ricca (2005) evidenziano, a tal
proposito, come un contesto socioculturale, come quello occidentale, caratterizzato da
uno stile di vita obesofobico e idealizzante la magrezza, influenzi convinzioni e
comportamenti soprattutto di bambini e adolescenti. Anche l’ambiente familiare può
influire significativamente sull’insorgenza di un disturbo alimentare; la famiglia, infatti,
rappresenta il nucleo intimo dove comportamenti e convinzioni vengono discussi,
accettati e proposti come modelli da emulare. Le figure genitoriali, in particolare,
assumono un ruolo primario nell’adozione di convinzioni e comportamenti a rischio per
lo sviluppo di un alterato rapporto con il cibo e costituiscono, allo stesso tempo, un
elemento fondamentale per la prevenzione ed il trattamento (ibid.). L’alimentazione
ricopre dunque uno spazio molto importante nella ricerca della propria autonomia e
nella definizione del sé; l’adolescente può finalmente esprimere i suoi gusti, le sue
preferenze alimentari, regolandosi ed essendo regolato da modelli sociali e nuove
appartenenze.
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3. Disordini alimentari
I disordini alimentari, probabilmente, sono il risultato di un’interazione tra le
dimensioni individuali e sociali (Pérez, 2008). Per quanto concerne le dimensioni
individuali, in alcuni gruppi di soggetti con diagnosi di disturbo del comportamento
alimentare, sono stati osservati bassi livelli di funzionalità dei circuiti della serotonina,
in quanto è stato dimostrato che particolari abitudini alimentari, soprattutto il digiuno o
una dieta estremamente rigida, possono determinare una riduzione dei livelli circolanti
di L-Triptofano, l’aminoacido precursore della sintesi della serotonina (Miotto et
al.,2003).
Bassi livelli di funzionalità dei circuiti della serotonina sono stati associati ad un
maggiore rischio di comportamenti aggressivi segnati da impulsività, sia eterodiretti
(aggressione) che autodiretti (suicidio); non a caso l’impulsività, che condiziona la
messa in atto di un ampio ventaglio di comportamenti aggressivi, sembra essere un
tratto di personalità diffuso tra i pazienti con disturbo del comportamento alimentare,
soprattutto in coloro che ricevono la diagnosi di bulimia. In una larga percentuale di
casi è stata osservata una rilevante comorbilità tra bulimia nervosa e comportamenti
segnati da impulsività quali l’abuso di sostanze psicoattive, la tendenza alla
cleptomania e al taccheggio (Pérez, 2008).
Pazienti con diagnosi di anoressia o bulimia nervosa manifestano anche un’elevata
frequenza di comportamenti improntati ad aggressività auto-rivolta, che vanno da atti
autolesivi semplici, quali lo strapparsi i capelli o il mangiarsi le unghie, ad atti di
automutilazione complessi (infliggersi volontariamente bruciature o incidere la pelle
con oggetti taglienti), sino a gravi tentativi di suicidio. A tale proposito, secondo alcuni
autori (Wonderlich et al., 2004) una maggiore propensione all’aggressività in coloro che
manifestano modelli alimentari anomali può anche accompagnarsi ad una maggiore
incidenza di comportamenti a rischio, quali l’impulsività e condotte suicidarie. A
ulteriore conferma di questo dato, sembrerebbe che gli individui con attitudini o
condotte indicative di un disturbo del comportamento alimentare tendono ad
ammettere una maggiore propensione all’aggressività, che può esprimersi sul piano
clinico come ostilità o mancata compliance ai trattamenti (Miotto et al., 2003).
In relazione alle dimensioni sociali, alcuni studi hanno valutato il ruolo dei fattori
ambientali di tipo familiare; la recente abitudine di mangiare fuori casa ha provocato
una diminuzione del numero dei pasti consumati in famiglia. La condivisione dei pasti,
che al bambino serve per relazionarsi e socializzare, viene a perdere la consuetudine e
la ricorrenza, diventando in alcuni casi l’eccezione e non la regola.
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Gli studi (Pérez, 2008) hanno confermato l’importanza dei comportamenti dei genitori
riguardo al cibo, in particolare, quando i genitori consumano i pasti insieme ai figli,
creando un’atmosfera positiva e relazionandosi in modo appropriato con il cibo per cui i
bambini tendono a seguire un regime dietetico di migliore qualità. Ad esempio, la
presenza dei genitori durante il pasto serale è associata ad un maggior consumo di
frutta, verdura e latticini da parte dei figli e, più in generale, al consumo di cibi ricchi
vitamine; viceversa, genitori con comportamenti alimentari indefiniti e caotici,
specialmente se associati a restrizione dietetica, hanno più facilmente figli in
sovrappeso.
I genitori forniscono ai figli un modello di riferimento sia per le abitudini alimentari e le
modalità di consumo dei pasti, sia per l’aspetto emotivo e di socializzazione legato
all’atto stesso dell’alimentarsi (ibid.). Convinzioni e comportamenti dei genitori
riguardo ai cibi e il corpo possono promuovere fin dalla prima infanzia vissuti
problematici riguardo al peso e all’alimentazione; ad esempio, se in famiglia la madre
adotta un regime dietetico restrittivo, la compresenza di pratiche restrittive e
compensatorie può generare la tendenza a controbilanciare la propria restrizione
ipernutrendo i figli, con risultati opposti. Anche il comportamento alimentare paterno e
i pensieri del padre su alimentazione e peso possono influenzare l’attitudine del figlio
alla dieta; un padre che dà importanza all’aspetto fisico del figlio e soprattutto alla
magrezza, genera nei figli un atteggiamento alimentare orientato alla restrizione.
Anche la percezione dei desideri paterni è importante nel predire comportamenti
alimentari restrittivi o preoccupanti per il peso.
Molti adolescenti con disturbi alimentari riferiscono pattern alimentari infantili
scorretti, per esempio assenza di colazione, pasti frequenti a fast-food, uso continuo di
dolci e merendine; inoltre essi descrivono i loro familiari come particolarmente
polarizzati sul cibo. Durante la loro infanzia, grande enfasi era data ai pasti durante
eventi importanti della famiglia, e il cibo era più frequentemente usato come premio o
punizione. Infine la valutazione del rapporto genitore/figlio e dei diversi pattern di
attaccamento ha dimostrato che il modo in cui il genitore si rapporta alla abitudini
alimentari del bambino è fortemente condizionato dalla relazione che intercorre tra i
due; in particolare stili di accadimento intrusivi e ostili sono principali fattori predittivi
per lo sviluppo dei disturbi del comportamento alimentare ( Ravaldi et al., 2005).
Per quanto riguarda le femmine pre-adolescenti, gli studi (Alsaker, 1992; Smolak et al.,
1993) hanno dimostrato che nelle femmine con disordini alimentari è stato riscontrato
un certo livello di insoddisfazione per il proprio corpo; l’attenzione al proprio aspetto
fisico, o alla taglia e alle forme del corpo, è esperienza diffusa e importante in alcune
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professioni, come quella di modella o ballerina, nelle quali è stata effettivamente
osservata un’elevata prevalenza di disordini alimentari, superiore a quella osservata in
popolazioni di controllo.
Esistono però sottopopolazioni di pre-adolescenti maschi che presentano elevati fattori
di rischio; i maschi più a rischio per lo sviluppo di disordini alimentari sono i pre-
adolescenti impegnati in attività atletiche, soprattutto negli sport dove sono preferiti
corpi magri ed esili. Sembrerebbe che i pre-adolescenti maschi che vivono in famiglia in
cui l’apparenza e l’immagine del corpo sono enfatizzati, hanno maggior rischio di
sviluppare disordini alimentari (Shannon, 2004).
Per tutti questi motivi, è necessario intervenire al più presto, poiché la prevenzione
primaria, combinata con un primo riconoscimento e trattamento, aiuti a diminuire la
morbilità e la mortalità nei soggetti con disordini alimentari.
I molteplici progetti di prevenzione (Piccione, Grispini, 1998), hanno dimostrato quanto
possa essere inducente riproporre tematiche specifiche dei disturbi del comportamento
alimentare (prevenzione malattia-specifica), con una focalizzazione che può agire sulla
vulnerabilità soggettiva e favorire la scelta sintomatica; i programmi di prevenzione che
si ispirano al modello della promozione della salute sono quindi da privilegiare rispetto
a programmi malattia-specifici, con obiettivi che risultano di sostegno alle competenze
evolutive dei ragazzi (intervenire su aspetti collegati alla corporeità, alla sensorialità ,
al piacere, alle emozioni, alla complessità delle relazioni, alla gestione dei conflitti e
dei disagi, alla capacità di non aderire incondizionatamente ai modelli proposti dai
mass- media, allo sviluppo del senso critico, alla promozione dell’autostima,
dell’autonomia), e genitoriali degli adulti coinvolti (genitori, insegnanti, educatori).
La prevenzione deve inoltre coinvolgere medici, specialisti, e dietisti rispetto alla
conoscenza di alcuni fattori iatrogeni, quali l’indiscriminata prescrizione di diete, che
risultano uno dei fattori sociali incidenti nella diffusione dei disturbi alimentari
(Piccione et al., 1994).
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4. Rapporto cibonullimmagine corporea
L'immagine corporea (IC) non è una struttura innata e preformata, fissa e statica, ma
una “struttura altamente dinamica, dipendente dalla maturazione del sistema nervoso,
dai vissuti psico-emotivi, dal livello di percezione senso-motoria, dai processi resi
possibili dall’esperienza e dal continuo apprendimento motorio e posturale; opera sia a
livello della coscienza sia al di fuori della nostra consapevolezza, nel privato e nello
spazio sociale” (Schilder, 1935); è qualcosa che va ben oltre la sola bellezza esteriore, il
fascino dell’ aspetto fisico, la forma estetica o, semplicemente, l’apparenza. L’
immagine corporea è la descrizione della propria identità personale ed è in stretta
relazione all’immagine di sé, alla stima di Sé, al senso di efficacia, alla fiducia nelle
proprie possibilità, all’adattamento personale e alle capacità di rapporti interpersonali
e di relazione con il mondo; non esiste un’unica immagine corporea né una definitiva,
ma si caratterizza proprio per il suo continuo divenire e modificarsi.
La maggior parte delle ricerche sull’IC si sono occupate delle distorsioni percettive e
dell’insoddisfazione corporea visto che è ampliamente dimostrato che un’immagine di
sé positiva è associata significativamente a diversi indicatori di equilibrio emotivo,
somatico e di adattamento sociale, infatti, correla positivamente con l’autostima e la
sicurezza personale (Dobmeyer, Stein, 2003; Jacobi, Hayward, De Zwann, Kraemer,
Agras, 2004) e, negativamente, con ansia, depressione e ostili; se un’immagine
globalmente positiva di sé esprime un rapporto positivo con il proprio corpo e
costituisce un indicatore del benessere psicofisico, un rapporto negativo può essere
espressione di disagio e costituire un fattore predisponente lo sviluppo di patologie.
I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono i disturbi psichiatrici in cui più
frequentemente si riscontrano elementi dispercettivi relativi all’immagine corporea. La
correlazione tra DCA e immagine corporea si riscontra per la prima volta in un’opera di
Hilde Bruch pubblicata nel 1973 e intitolata Patologia del comportamento alimentare
(Bruch, 1973). L’elemento che accomuna i DCA è rappresentato proprio da una distorta
percezione del proprio corpo che viene considerato molto lontano dal corpo ideale:l
’esempio più chiaro è rappresentato dalle pazienti anoressiche che sostengono di essere
grasse anche se sono gravemente sottopeso.
La maggior parte delle persone limitano l’idea di immagine corporea all’apparenza, alla
bellezza e all’essere attraenti, ma sicuramente c’è dell’altro; è la rappresentazione
mentale di noi stessi, una rappresentazione mentale interiorizzata che l’individuo si
forma che non è solamente influenzata dai nostri sentimenti, ma che influenza gran
parte del nostro comportamento, emozioni, pensieri ed autostima.
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Tale immagine si modifica nel tempo lungo l’arco della vita, a causa di fattori legati sia
al soggetto , sia all’ambito familiare, al gruppo ed alle mode culturali; ciò che avviene è
una continua attività di destrutturazione e ristrutturazione dell’immagine corporea in
rapporto allo sviluppo delle esperienze personali e sociali dell’individuo e alla
maturazione fisica (Faccio et al., 2004). L’immagine corporea inizia infatti a svilupparsi
precocemente nell’individuo: a partire dai 2 anni e fino agli 11 anni si articola
progressivamente per essere quindi usata come un mezzo di comunicazione sociale e
assume un’importante funzione di “rispecchiamento” necessaria nel rapporto con gli
altri (Dittmar, Haliwell, Ive, 2006): sembra che già a 7 anni i bambini dimostrino
preoccupazione per la propria immagine (Davison, McCabe, 2006). L’immagine corporea
si costituisce anche a partire da quanto gli altri ci rimandano del nostro aspetto: bello
o brutto, sano o malato, seducente o distanziante. Questa funzione di rispecchiamento
è fondamentale per la conoscenza che abbiamo di noi stessi e si realizza attraverso
degli scambi comunicativi che agiscono mediante movimenti d’attrazione-repulsione,
oltre che attraverso dinamiche di potere nelle quali la propria capacità di sedurre e
attrarre si gioca contro il potere altrui di esercitare su di noi un’autorità o un dominio.
Ricercatori che si occupano di disturbi dell’alimentazione hanno suggerito che essi sono
il risultato di un’immagine corporea negativa, che comporta un’intensa preoccupazione
per l’essere grassi e l’utilizzo di comportamenti estremi per controllare il peso del
corpo; alcuni hanno suggerito che l’aumento epidemico dei disturbi alimentari sia
correlato alla forte pressione esistente nei confronti delle donne verso la dieta, per
conformarsi ai modelli ultra-snelli di bellezza femminile (Caviglia, Cecere , 2007).
Negli ultimi trent’anni le donne e via via anche gli uomini, hanno sviluppato una
preoccupazione rispetto al proprio corpo; la magrezza è diventata simbolo universale
della felicità personale mentre l’insoddisfazione corporea la norma. E’ oggi noto come i
disturbi alimentari prevalgono soprattutto nei paesi occidentali industrializzati, dove la
magrezza è un valore socialmente importante e desiderabile, in quanto magrezza,
bellezza, efficienza e produttività vengono vissuti come una porta verso il successo. E la
moda della magrezza, enormemente amplificata dai mezzi di comunicazione di massa,
influenza soprattutto gli ideali estetici femminili, proponendo un rapporto con il corpo e
con gli altri, in cui l’efficienza, più che il desiderio di seduzione, diventa il valore
dominante (Onnis, 1985).
Nella dominante “cultura dell’immagine” i bisogni di ambedue i sessi si esprimono
nell’apparire di corpi asciutti ed efficienti, nel’esibizione di epidermidi levigate, in cui
ogni ruga, ogni traccia dello scorrere del tempo deve essere cancellata: corpi, in cui,
nello stereotipo culturale, ma anche nell’immaginario collettivo, l’inesorabile evolvere
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del tempo sembra fermarsi. Negli studi attuali sempre più evidente è come il corpo si
colloca fra mondo interno e mondo relazionale e come la rappresentazione
dell’immagine corporea manterrà questo significato di interfaccia far esterno ed
interno. Non è un caso che l’anoressia la bulimia prevalgono largamente , con un
rapporto di 10 a 1 nel sesso femminile rispetto a quello maschile e che molti di questi
disturbi iniziano con l’esperienza di una dieta (Dorian e Garfinkel, 1999).
Rispetto alla propria immagine corporea, che si forma nei primi anni di vita, attraverso
ciò che il bambino percepisce di sé nell’esperienza delle cure primarie e in come “è
visto” dai genitori, il cibo sembra rappresentare la possibilità di apporto trasformativo
esterno e di controllo che permette, soprattutto nella fase adolescenziale, di
fronteggiare l’inquietudine di una trasformazione vissuta come esterna ed estranea al
sé, che può comportare sintomi dismorfofobici (termine coniato da Morselli nel 1886 per
descrivere una rara sindrome psichiatrica caratterizzata da una soggettiva sensazione
di deformità o di difetto fisico, benché le sembianze fisiche del soggetto siano nei limiti
del normale) e di alterazioni dell’immagine corporea come nell’anoressia nervosa
(Martinetti, 2005).
Aspetti di questo controllo possiamo ritrovarli in modalità difensive tipiche di questo
periodo come nell’ascetismo, che implica un rigore e un divieto del piacere del
soddisfacimento, ma anche nell’idealizzazione dell’immagine corporea, che da modello
al quale cercare di adeguarsi può diventare un ideale irraggiungibile e costantemente
deludente, ed ancora nel tentativo di mettere in moratoria la trasformazione sessuale
del corpo; a volte anche l’obesità da iperalimentazione che mostra un corpo deformato
e lievitato, ma che non sembra aver peso per l’individuo, corrisponde ad una difesa che
precluda la reciproca esperienza della seduzione (Costa, Loriedo, 2007).
Nell’adolescente, il bisogno di assestare e consolidare un’immagine corporea sulla base
di valori condivisi con il gruppo dei pari, è di cruciale importanza in quanto, mai come
durante la pubertà, il corpo cambia in maniera così vistosa e rapida; la correlazione tra
rifiuto della propria immagine corporea e comportamento alimentare disfunzionale è già
stata ben descritta in letteratura (Moore, 1993; Martin et al., 1999; Jonmes et al., 2001;
Ricciardelli, Mccabe, 2001; Ohring et al., 2002), così come il ruolo di famiglia, amici e
media in qualità di fattori socio-culturali, in grado di contribuire alla costruzione di
un’immagine distorta del proprio corpo tanto da spingere gli adolescenti ad escogitare
nuovi metodi, o ad incrementare quelli già adottati, per modificarlo (Dunkley et al.,
2001; Ricciardelli et al., 2000). Nelle situazioni in cui prevale la problematica della
dipendenza dall’oggetto esterno per il rifornimento narcisistico, si osserva invece la
tendenza ad usare il cibo come oggetto sostitutivo gratificante a fronte di sistemi
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depressivi (come nel caso dell’ “Emotional Eating”, o fame emozionale), con una
circolarità che rinforza la dipendenza.
L’ambito dei disturbi del comportamento alimentare vede appunto l’irrigidirsi di
modalità difensive specifiche del processo adolescenziale, con lo spostamento ed il
condensamento di problematiche evolutive e psicopatologiche nella relazione corpo-
cibo; diventa allora comprensibile il rapporto significativo fra disturbi del
comportamento alimentare e condotte di dipendenza, non solo come comorbilità e
possibile evoluzione, ma anche per affinità psicopatologiche. In relazione a questo tipo
di disturbi, numerosi autori (Bruch, 1988; Giannotti, De Astis, Del Pidio, 1989;
Novelletto, Nerozzi, Bari, Lambertucci, 1986), avvalorano le ipotesi psicopatologiche
che individuano nella relazione primaria i presupposti di quella distorsione
dell’immagine corporea, della percezione dei proprio bisogni e dell’autonomia che
emergono solo durante la crisi adolescenziale e che configurano un disturbo più
profondo del senso del Sé.
L’adolescenza è dunque un periodo di grandi cambiamenti in conseguenza dei quali
l’adolescente può sperimentare dei vissuti d’estraneità nei confronti di un corpo che
cambia, perdendo progressivamente contatto con quest’ultimo che tenderà a percepirlo
come un oggetto esterno alla sua vita psichica. Bruch (1988) ritiene che l’alterato
rapporto dell’anoressica con il proprio corpo, la sua incapacità di recepire i segnali
relativi ai bisogni primari e la sistematica distorsione percettiva della propria immagine
corporea, sia da ricondurre a gravi problematiche nella relazione primaria, e in
particolare, all’incapacità materna di facilitare nel bambino il riconoscimento ed il
soddisfacimento dei propri bisogni, saturandolo con un’indifferenziata proposta di cibo,
analogamente a quanto avviene nei pazienti obesi. Bruch (1973) ha infatti sottolineato
come alla base dell’alterato rapporto tra il cibo e l’immagine corporea, sia spesso
possibile riscontrare una relazione disfunzionale precoce con il caregiver inerente alla
sfera alimentare; grazie ad un’ accurata ricostruzione della storia evolutiva di pazienti
anoressiche e adolescenti, l’autore ha infatti rilevato la presenza di comportamenti
contraddittori e incoerenti messi in atto dal caregiver in risposta ai conflitti emotivi del
bambino. Il non condividere in maniera appropriata gli affetti sulla base dei quali il
bambino costruisce il proprio senso di autoefficacia e autoconsapevolezza determina,
durante la crescita, l’incapacità di distinguere con chiarezza i propri bisogni fisiologici
dalle esperienze emotive ed interpersonali.
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Figura 1. Circolo vizioso caratteristico dei DCA (Ostuzzi, Luxardi, 2003).
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2. I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA)
1. Cenni storici
L’evoluzione storica dei DCA non si può limitare ad una somma di nosografie comparate
o all’esame delle ipotesi e delle teorie che nel tempo hanno fornito una spiegazione alla
psicopatologia ma è necessario avere ben chiaro come riferimento la storia delle idee,
della cultura, del pensiero dei soggetti, e quindi della mentalità, che si sono succeduti
nel corso del tempo (Zilboorg, Henry, 1963).
L’eccesso o l’orgia alimentare e digiuno, non obbligato dalla carestia ma imposto a se
stessi con un atto di volontà, hanno accompagnato l’uomo sin dalle origini della sua
storia, ma hanno assunto, di volta in volta, significati diversi. Quando la scarsità delle
risorse rendeva le persone accorte e parsimoniose nel consumo del cibo, custodito come
bene prezioso e quindi mai oggetto di rifiuto, coloro che volontariamente se ne
astenevano venivano considerati come esseri strani ed in certo senso sospetti (Caviglia,
Cecere, 2007). In un’epoca in cui l’unico principio esplicativo della realtà era il Divino,
ogni fenomeno che si sottraesse ad un’ immediata comprensione di natura terrena
veniva ricondotto alla trascendenza, o in senso positivo, oppure negativo: poteva essere
effetto della volontà di Dio o effetto della sua assenza. Nel mondo del Sacro l’astinenza
dal cibo era intesa come pratica purificatrice che elevava lo spirito al di sopra dei
bisogni della carne, un modo per patire come Cristo, per essergli più vicini, per nutrirsi
del suo stesso “cibo spirituale”; viceversa, la dimostrazione di forza che la digiunatrice
faceva propria il segno inquietante dell’intervento di forze demoniache (Cuzzolaro,
2004).
Nel corso della storia, infatti, prima ancora che la medicina attribuisse al digiuno una
connotazione patologica, questo comportamento aveva assunto di volta in volta
significati differenti; tale pratica la si ritrova già nei Salmi Babilonesi e nel campo delle
religioni mitologiche mentre, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, troviamo pubblici
digiuni per placare la collera divina in concomitanza con catastrofi o guerre o come
strumento per sottomettere l’istinto alla fede, per vincere le passioni, per elevare lo
spirito, per infondere forza al corpo (Heun, 1973, cit. in Vandereycken, Van Deth,
1995).
Per i primi seguaci di Gesù, nel II e III secolo, la forma più comune di ascetismo era
proprio il digiuno, soprattutto nell’aspetto di rinuncia al vino e alla carne; sarà poi nel
IV secolo, con i Padri del Deserto, e nel tardo periodo medioevale, con le sante