Introduzione
2
che si dividono il lavoro. Tutto questo è possibile perché nella
filigrana dei distretti c’è impresso un capitale sociale costituito da
know-how , relazioni fiduciarie ed una fitta rete di rapporti
interpersonali che facilitano lo scambio di informazioni.
In altre parole, il segreto dei distretti industriali è la grande capacità
di valorizzare la tradizione artigianale italiana e di portarla su scala
industriale a livello mondiale con una forte corrente di esportazioni. I
distretti sono le realtà che meglio hanno preservato il patrimonio di
artigianato, arte, cultura e gastronomia ereditato dal Rinascimento.
Nello stesso tempo sono i centri in cui si avvertono di più i fermenti
del nuovo e la voglia di misurarsi con le sfide del futuro. C’è anche
una capacità di avere molto successo nella distribuzione; questo è vero
soprattutto nei distretti che operano nell’ambito del sistema moda.
L’istituto nazionale di statistica recentemente ne ha individuati
circa 200, con un’occupazione complessiva di oltre 2 milioni di
persone. I sistemi produttivi si sono sviluppati prevalentemente nelle
regioni centrali e nord-orientali, ma da alcuni anni il fenomeno si sta
diffondendo anche nel Sud Italia.
Introduzione
3
L’ordinamento giuridico italiano non riconosce funzioni
amministrative ai DI. Questi, pertanto, restano un fenomeno di
sviluppo dal basso che nel tempo ha assunto dimensioni di primo
piano nell’economia italiana.
I distretti industriali costituiscono la base produttiva del “made in
Italy”, cioè di quell’insieme di produzioni della moda, dell’arredo casa
e dei prodotti alimentari mediterranei in cui l’Italia vanta una
specializzazione internazionale.
Nel 1997 i settori di punta del “made in Italy” hanno esportato
merci per un valore complessivo pari a 130 miliardi di euro. La
bilancia commerciale si è chiusa con un saldo attivo di circa 90
miliardi di euro. Nelle cifre del commercio internazionale la singolare
filigrana del “made in Italy” emerge chiaramente: sul totale delle
importazioni dei Paesi più industrializzati, l’Italia ha una quota pari
mediamente al 9 per cento. Ma se consideriamo i prodotti del sistema
“persona/moda” la sua penetrazione sale notevolmente: 66 per cento
per le calzature, 54 per cento per i gioielli, 49 per cento per i tessuti di
fibre pregiate, 38 per cento nell’abbigliamento maschile.
Introduzione
4
Ma la cosa più interessante è che i distretti industriali sono i veri
protagonisti di questa straordinaria performances economica in settori
che, secondo le teorie economiche, sembravano più coerenti con i
costi dei PVS. L’evoluzione dei consumi dei prodotti più legati alla
qualità della vita, tuttavia, non ha premiato i bassi costi di produzione,
ma la capacità di offrire beni con un alto contenuto relazionale, come
il design, l’innovazione, la personalizzazione, la capacità di essere in
sintonia con lo spirito del tempo.
In tutti i settori che oggi vedono l’Italia protagonista sui mercati
internazionali il ruolo dei distretti risulta determinante e per questo la
diplomazia economica italiana li usa come punta di diamante
dell’immagine dell’Italia.
I distretti detengono, infatti, nei loro settori quote di commercio
mondiali paragonabili, se non superiori, a quelle di grandi
multinazionali dell’auto, della chimica e dell’elettronica. Il distretto
emiliano delle ceramiche e quello delle calze femminili di Castel
Goffredo, per esempio, controllano rispettivamente il 40 per cento
dell’export mondiale di questi prodotti. I distretti biellese e pratese dei
tessuti di lana o quello comasco dei tessuti di seta detengono quote tra
Introduzione
5
il 15 e il 25 per cento. I distretti orafi di Arezzo e Vicenza, di Belluno
per gli occhiali, di Carrara per il marmo e dell’Asse emiliano per le
macchine per imballaggio hanno quote assestate intorno al 15 per
cento.
CAPITOLO I
STORIA E CARATTERISTICHE DEI DISTRETTI
INDUSTRIALI
SOMMARIO
1.1 – Origine e sviluppo del dibattito sui Distretti Industriali. 1.2 – Crisi della
produzione di massa e riscoperta dei Distretti Industriali. 1.3 – Distretto
Industriale: definizione e differenziazioni. 1.4 – Il Distretto come concetto
interdisciplinare. 1.5 – Caratteristiche dei Distretti Industriali. 1.5.1 – Atmosfera
industriale ed economie esterne: le condizioni di esistenza del distretto. 1.5.2 – La
specializzazione settoriale. 1.5.3 – La divisione del lavoro. 1.5.4 – Concorrenza e
cooperazione. 1.5.5 – L’importanza del territorio. 1.5.6 – Le risorse umane e
l’imprenditore puro.
1.1 Origine e sviluppo del dibattito sui Distretti Industriali.
Il discorso intorno ai distretti industriali (DI d'ora in poi) prese le
mosse dalla seconda metà degli anni settanta, quando il sapere socio-
economico si trovò di fronte ad un fenomeno che l'insieme delle
conoscenze tradizionali non era in grado di interpretare:
la rapida industrializzazione e il successo conseguito da sistemi a
economia diffusa o di piccola e media impresa localizzata.
Capitolo I
7
Secondo gli schemi teorici allora prevalenti, la persistenza della
piccola impresa appariva come una forma di arcaismo destinata a
scomparire non appena il processo di modernizzazione fosse giunto a
maturazione.
Si trattava, quindi, di una vera e propria “anomalia” o “paradosso”,
intrattabile con i paradigmi disponibili. Proprio la difficoltà di
imbrigliare i fatti anomali dell'industrializzazione di piccola impresa
entro le coordinate degli schemi teorici standard spinse alcuni
interpreti dello sviluppo economico italiano ad un “ripensamento
generale” di molte categorie scientifiche che da lungo tempo erano
ritenute pacifiche.
Il primo tentativo in questa direzione fu compiuto da G. Becattini
che, in un saggio del 1969, in cui cercava di dare spiegazione
dell'industrializzazione di piccola impresa in Toscana, riscontrò una
scomposizione del processo produttivo che portava ogni piccola
impresa a svolgere una singola fase di questo processo o un numero
Capitolo I
8
limitato di fasi
1
. Purtroppo questo lavoro passò praticamente
inosservato sia in Toscana che fuori.
Qualche anno più tardi anche i sociologi videro qualcosa di nuovo
nel sistema produttivo italiano. Non si può non ricordare il contributo,
nel 1977, di A. Bagnasco che, con un libro divenuto famoso (“Tre
Italie: la problematica territoriale dello sviluppo”), attirò l'attenzione
sul fenomeno della cosiddetta “terza Italia”, una realtà in bilico fra il
vecchio triangolo industriale di Milano, Torino e Genova ed il
Mezzogiorno povero e arretrato, composta da un arcipelago di
distretti industriali, estesi dal Nord delle provincie venete all'Emilia, a
Firenze, ad Ancona e, ancora più a Sud, lungo l'Adriatico. E'
necessario ricordare che vent'anni fa, quando si poneva al centro
dell'attenzione lo sviluppo periferico della “terza Italia”, nel
linguaggio delle scienze sociali mancava ancora la locuzione
“distretto industriale”. In realtà tale termine (“Industrial Districts”) fu
coniato da un famoso economista dell'Inghilterra vittoriana, A.
1
“Le nuove imprese… si dedicano ad alcune fasi di lavorazione o ad alcuni servizi ausiliari…Un
flusso di economie esterne alla singola impresa ma interne al settore, si viene dunque a creare in
conseguenza della specializzazione produttiva attuata. L’entità del flusso di economie esterne qui
richiamato non dipende soltanto dalla dimensione del mercato, ma anche dalla contiguità
territoriale delle imprese operanti nelle diverse fasi. Da ciò un vantaggio decisivo delle imprese
territorialmente raggruppate rispetto a quelle isolate…” [IRPET 1969, 1422-23].
Capitolo I
9
Marshall, nella seconda metà dell'ottocento, in riferimento al distretto
di Sheffield e quelli tessili del Lancashire. Purtroppo gli “industrial
districts” marshalliani ebbero in origine poca fortuna nel mondo
accademico, tanto che l'espressione praticamente scomparve sia dal
lessico del mondo scientifico che da quello del linguaggio comune.
Fu G. Beccatini che, in un saggio del 1979, “rispolverò” il
marshalliano “distretto industriale”. E' appunto il 1979 la data con cui
si è soliti fare iniziare la teorizzazione sui distretti. Per qualche tempo
dopo il 1979, si continuò ad impiegare espressioni come “economie
diffuse”, “economie specializzate”, “isole industriali”, “economie
decentrate” o ancora “economie periferiche”. Negli anni a noi più
vicini il termine “distretto industriale” pare aver soggiogato le altre
espressioni, fino al punto da venire spesso impiegato in modo
improprio per descrivere qualsiasi caso di sistema locale.
Dalla fine degli anni settanta incominciò una stagione di studi di
caso. Decine, forse centinaia di aree distrettuali vennero prese in
esame e descritte con cura. Per ultimo, già dal principio degli anni
ottanta, i distretti italiani entrarono nella letteratura economica e
sociologica internazionale. Sabel (1982), Best (1990), Scotti (1988),
Capitolo I
10
Storper e Harrison (1991) tra gli studiosi inglesi e statunitensi, il
gruppo Gremi tra i francesi, discussero meriti e demeriti dei distretti,
li riconobbero in casa loro, li interpretarono come uno dei modi in cui
la struttura produttiva si organizza a seguito della personalizzazione
della domanda e dell'aumentato ritmo delle innovazioni che hanno
determinato la crisi del fordismo.
Capitolo I
11
1.2 Crisi della produzione di massa e riscoperta dei Distretti Industriali.
Tra gli stessi studiosi non appare sempre chiara la ragione per la
quale solo a partire dalla seconda metà degli anni settanta si possa
parlare, dopo un lungo periodo di eclissi, di una riemergenza dei DI.
Eppure le prime, seminali, osservazioni di Marshall risalgono a circa
un secolo fa.
In effetti la nascita, o meglio la rinascita, del concetto di distretto
industriale sul finire degli anni settanta ha una precisa giustificazione:
il declino della produzione di massa e del modello fordista.
Prima di trattare della crisi del fordismo e dei fattori che l'hanno
determinata, è necessario un breve cenno alle caratteristiche di questo
tipo di produzione e organizzazione del lavoro.
Il modo di produzione fordista si affermò (sulla produzione
artigianale) a partire dal 1913, quando negli Stati Uniti cominciarono
a diffondersi nuove tecniche di meccanizzazione e nuovi principi di
organizzazione scientifica del lavoro, enunciati dall'ingegnere Taylor
e applicati dall'imprenditore Ford. L'idea fondamentale di Taylor era
Capitolo I
12
che i lavoratori producessero molto meno di quanto avrebbero potuto
e che, se i requisiti di ogni mestiere avessero potuto essere determinati
"scientificamente" ed i lavoratori avessero ricevuto opportuni
incentivi salariali per produrre secondo le loro capacità, come
risultato ne sarebbe derivato il miglioramento della produttività, dei
profitti e dei salari, cancellando, così, l'antico conflitto tra padrone
(dirigente) e lavoratore.
I punti caratteristici del modello organizzativo di Taylor erano:
• la divisione verticale del lavoro, eseguito mediante la netta
separazione delle fasi di progettazione, esecuzione e controllo;
• la divisione orizzontale del lavoro (parcellizzazione del lavoro),
cioè l'ulteriore frammentazione delle fasi di progettazione,
esecuzione e controllo;
• la progettazione delle posizioni di lavoro e dei movimenti degli
operatori impegnati nel processo produttivo, ossia la divisione del
lavoro in tre livelli:
1) tra uomini;
2) tra macchine;
Capitolo I
13
3) tra uomini e macchine. Si realizzò, cioè, una particolare
simbiosi uomo-macchina nel processo produttivo: uomo e
macchina diventarono ingranaggi perfettamente integrati.
Il principio innovatore di Taylor, dunque, non fu di tipo
tecnologico, ma amministrativo-organizzativo e basato su una
concezione ingegneristica della gestione aziendale: si trattò della
trasposizione al lavoro umano dei concetti di specializzazione e
standardizzazione che in precedenza erano stati applicati alle
macchine.
Il modo di produzione fordista si era contraddistinto per un
contesto storico abbastanza specifico:
™ domanda in crescita di beni di massa, cioè poco sofisticati e
facilmente standardizzabili;
™ una tecnologia fondata sul paradigma meccanico e orientata
all'industria di base, che esigeva elevati costi d'impianto ed era
perciò vincolata ad economie di scala, con un controllo fortemente
centralizzato delle decisioni e mansioni in larga parte ripetitive;
Capitolo I
14
™ un'estensione delle relazioni economiche e sociali che in misura
predominante rimanevano confinate entro i confini nazionali,
offrendo così ai governi statali il potere-dovere di intervenire nella
regolazione dell'economia
2
.
In questo periodo l'attenzione degli osservatori economici fu
orientata esclusivamente verso le economie interne, perché - si
sosteneva – “le economie nella produzione si possono ottenere solo
attraverso una concentrazione in massa di lavoratori e di capitali a
livello di fabbrica”. Questo rimase per molto tempo (60 anni circa) il
modello egemone che “ha annichilito ogni altra formula
produttiva”(Sforzi).
Il DI riemerse all'attenzione generale con la crisi del paradigma
fordista verificatosi verso la metà degli anni settanta. Le cause che
determinarono la crisi delle organizzazioni fordiste e che liberarono
spazi di azione ai DI furono:
• turbolenza della domanda, cioè domanda più varia e variabile. I
consumatori, soddisfatti i loro bisogni con i prodotti
standardizzati, cominciarono ad essere sempre più sofisticati e a
2
Le politiche economiche keynesiane, la presenza diretta dello stato nelle produzioni industriali
Capitolo I
15
chiedere nuovi prodotti o nuove caratteristiche di prodotti già noti.
Le principali fonti di vantaggio non furono più caratterizzati dagli
alti volumi di produzione, ma dall'alto valore aggiunto incorporato
nei prodotti/servizi. Questa situazione avvantaggiò sicuramente
quelle aree di piccola e media impresa (DI) che si erano
specializzate in produzioni leggere e più esposte a cicli temporali;
• necessità di una maggiore innovazione tecnologica. La rapidità
dell'innovazione, che contrasta con la lenta trasformazione delle
piattaforme tecnologiche del fordismo, cambia continuamente i
fattori di vantaggio, favorendo i sistemi produttivi con caratteri
tecnici, organizzativi e sociali più flessibili;
• aumento della concorrenza nazionale e internazionale dovuto alla
saturazione dei mercati dei beni di massa;
• raggiungimento della soglia massima di sfruttamento delle
opportunità offerte dalla dimensione produttiva (economie di scala
statiche) in molti settori;
• crescente insofferenza degli operai verso ritmi di lavoro troppo
stressanti imposti dall'organizzazione fordista;
strategiche, lo sviluppo di sistemi di welfare costituirono il corollario dell'economia fordista.