2
poter visionare l’interno degli stabilimenti delle aziende maggiori. Molti
imprenditori di importanti aziende si sono palesemente fatti negare, e altri
hanno alimentato in me false aspettative, mostrandosi gentili al momento in cui
li contattavo telefonicamente o via mail, e successivamente facendo finta di
avere troppi impegni lavorativi e pertanto di non aver tempo di rispondere alle
mie domande! L’analisi delle aziende distrettuali di Montebelluna, inoltre, è
stata particolarmente faticosa perché mi sono trovata da sola in una città che
non avevo mai visitato e quindi non conoscevo, per cui ogni rifiuto da parte
delle aziende di rispondere alle mie domande, suscitava un senso di maggiore
sconforto in me.
Tuttavia, durante il mio percorso, ho incontrato anche persone molto
disponibili e gentili che non hanno fatto alcun tipo di ostruzionismo e hanno
risposto a tutte le mie richieste e i miei interrogativi, e che di certo non
dimenticherò mai.
Il sistema calzaturiero italiano rappresenta la più significativa presenza
distrettuale tra le attività manifatturiere: la produzione della calzatura è la
concreta espressione di una vocazione territoriale che può contare su di una
filiera pressoché completa.
Partendo dall’assunto che la principale caratteristica del modello
distrettuale italiano si fonda su un insieme di concorrenza e cooperazione, di
tradizione secolare e innovazione, il distretto non è semplicemente una forma
organizzativa del processo produttivo (di alcune categorie di beni, nel nostro
caso calzature), bensì un ambiente sociale in cui le relazioni tra gli uomini,
dentro e fuori i luoghi di produzione, presentano un loro peculiare carattere.
Questi fattori, che nella maggior parte dei grandi sistemi industriali sono agli
antipodi, qui convivono e offrono le basi alla creazione di quelle risorse locali
che generalmente non si trovano altrove. Diversi autorevoli studiosi, tuttavia,
sostengono che nei prossimi anni il differenziale competitivo dei distretti
industriali potrebbe non essere più sufficiente, in quanto la geografia degli
scambi mondiali sta mutando velocemente e aumenta la competizione
internazionale proveniente dai paesi esteri. Infatti, le aziende distrettuali da me
osservate, si trovano oggi costrette a prefiggersi come obiettivo principale la
3
riduzione dei costi di produzione, riorganizzando la propria catena di
produzione non più a livello distrettuale, ma sovra-locale, e cercando allo
stesso tempo di mantenere inalterati gli alti standard qualitativi dei propri
prodotti.
L’analisi che ho condotto sui due distretti calzaturieri di Montebelluna e
S. Mauro Pascoli, è stata dunque volta a far emergere questa dimensione
globale del distretto - nella quale si può trovare la Cina o più in generale il Far
East come luoghi in cui vengono decentrate le produzioni ad alto contenuto di
manodopera - accanto ad una realtà locale del distretto stesso, dimostrata dal
fatto che le aziende tendono comunque a mantenere al loro interno una serie di
conoscenze e competenze uniche e distintive, difficilmente replicabili,
derivanti da una lunga esperienza maturata nel settore calzaturiero. Il processo
di frammentazione produttiva, attraverso la delocalizzazione di alcune o di
intere fasi del processo produttivo, se da un lato costituisce un passo inevitabile
per una razionalizzazione dei costi di produzione, dall’altro ha messo in crisi il
tradizionale modo di operare dei distretti industriali, basato sull’interazione
virtuosa tra le imprese che ne fanno parte. Il tema è avvincente perché legato a
un passaggio cruciale con il quale i distretti industriali italiani si stanno
misurando.
Sulla base di quanto esposto, nel primo capitolo verrà presentata la
letteratura classica in tema di distretto industriale, al fine di dare una base
teorica agli argomenti che verranno trattati nei capitoli successivi. Verranno
esposte le teorie dei maggiori teorici distrettuali, fra cui spicca Giacomo
Becattini, e verrà preso in analisi il concetto di “economie esterne
marshalliane” come combinazione di fattori che hanno consentito alle Pmi
distrettuali di realizzare economie di scala pur rimanendo di dimensioni medie
e piccole. Dunque il capitolo mette in evidenza come si sia arrivati ad una
progressiva accumulazione di conoscenze, esterne all’impresa ma interne
all’area, che hanno favorito l’emergere dei vantaggi competitivi propri delle
economie distrettuali.
Il secondo capitolo, invece, si avvicina all’evoluzione dei due modelli
distrettuali dal locale, alla nuova prospettiva globale, e prende in analisi i
4
cambiamenti del sistema produttivo distrettuale rispetto ai processi di
internazionalizzazione avviati dalle singole imprese. Infatti, con la
globalizzazione dei mercati e l’ingresso di un numero sempre crescente di
concorrenti internazionali, risulta sempre più difficile per le imprese dei due
distretti calzaturieri mantenere le produzioni nelle proprie aree di origine, visto
l’elevato costo della manodopera specializzata. È questo il motivo per cui le
aziende hanno deciso di internazionalizzare la loro produzione. Il capitolo è
supportato anche da alcune immagini, e da mappe che rappresentano i diversi
tipi di imprese e la composizione dei due distretti calzaturieri.
Il terzo capitolo analizza nello specifico la genesi e le tappe più
significative dello sviluppo dei due distretti, per poi focalizzarsi sulle
dinamiche del modello dell’impresa distrettuale, nel momento in cui affronta i
propri processi di apertura a livello internazionale. Viene messo in rilievo il
problema della delocalizzazione produttiva dal punto di vista delle aziende, e
vengono presentati i diversi metodi di azione delle piccole e medie imprese
rispetto ai percorsi di crescita internazionale delle imprese di maggiori
dimensioni.
Nel quarto ed ultimo capitolo, infine, viene affrontato il problema della
sostenibilità del modello distrettuale, alla luce delle sfide imposte dalla
competizione globale. Vengono analizzati i punti di forza e di debolezza dei
due distretti calzaturieri facendo una panoramica delle possibilità, nonché dei
vincoli, cui devono far fronte i nostri distretti per poter sviluppare un’adeguata
politica di internazionalizzazione.
5
CAPITOLO I - LA TEORIA DEI DISTRETTI INDUSTRIALI
1. I distretti industriali italiani: un modello di perdurante competitività
1
Quello dei distretti industriali (DI) è un fenomeno di assoluto rilievo in
Italia e costituisce un paradigma di sviluppo importante, grazie a cui piccole
aziende, che non avrebbero avuto singolarmente le risorse economiche e
manageriali per affacciarsi sui mercati nazionali ed esteri, hanno mostrato di
disporre di notevoli vantaggi strategici.
Per il contributo rilevante che apportano in termini di produzione,
occupazione ed esportazioni, i DI costituiscono certamente l’asse portante del
sistema industriale italiano. Infatti, la peculiarità del modello di sviluppo della
nostra economia, incentrata prevalentemente su sistemi locali di piccole e
medie imprese (PMI), rappresenta la combinazione di fattori che ha generato
negli ultimi quaranta anni il “miracolo distrettuale”
2
, il quale ha dato un
apporto cruciale all’economia del nostro paese con la propria capacità
propulsiva. Come hanno più volte sottolineato Giacomo Becattini e Giorgio
Fuà
3
, i distretti non sono semplici agglomerazioni territoriali di attività
economiche, ma vere e proprie comunità locali, realtà sociali complesse,
strutturate sulla base di un tessuto civico dinamico, caratterizzato da una forte
mobilità sociale (che ha permesso a molti lavoratori di trasformarsi in
imprenditori) e da una ampia condivisione di valori comuni. I distretti sono
dunque un pilastro dell’economia italiana.
L’esperienza storica dei nostri DI mostra come sia possibile anche per la
piccola impresa in rete essere efficiente e innovativa, proprio perché il distretto
consente di sfruttare vantaggi competitivi alle imprese che vi sono localizzate.
Le relazioni di interazione fra le imprese, e tra le imprese e l’ambiente locale
1
Fortis-Quadrio Curzio, 2006.
2
Quintieri, 2006, p. 4.
3
Cfr. Becattini, 2000; Fuà, 1983.
6
(le “economie di agglomerazione”
4
), hanno rappresentato l’alternativa alla
crescita dimensionale delle imprese. Non è un mistero, infatti, che in Italia vi
siano pochissimi grandi gruppi non solo nell’industria, ma anche nei servizi
5
.
La forza dell’Italia sta quindi soprattutto nei suoi distretti manifatturieri di
piccole e medie imprese, che costituiscono l’espressione di una
imprenditorialità vivace e diffusa sul territorio. Questo capillare sistema di PMI
(circa 550 mila piccole e medie imprese con meno di 500 dipendenti, una cifra
che è superiore a quella corrispondente di Germania, Francia, Svezia e Olanda
considerate assieme
6
) fa sì che nel nostro paese vi siano proporzionalmente più
imprenditori e meno dipendenti che altrove, con tutti i vantaggi che ne
conseguono in termini di vivacità del tessuto economico e sociale, di
propensione all’innovazione, nonché di diffusione dei livelli di benessere
7
.
I processi distrettuali, basati su strutture industriali e su nessi socio-
culturali e istituzionali, definiscono una potenzialità, un motore di sviluppo
locale che può generare rendimenti crescenti e, quindi, sostenere la
riproduzione della struttura socio-economica di fronte al cambiamento.
Tipicamente, tali risultati hanno natura di economie interne al distretto, ma
esterne alla sfera di organizzazione della singola impresa. Non è un caso infatti,
che grazie al valore aggiunto apportato dalle reti distrettuali, le nostre industrie
abbiano dimostrato di tenere meglio di quelle delle altre economie avanzate
proprio nei settori in cui più forti si sono fatte le difficoltà competitive
riconducibili alle pressioni dei paesi emergenti
8
.
In particolare, le PMI e i distretti innervano alcuni settori manifatturieri
noti come le “4 A” del made in Italy: abbigliamento-moda, arredo-casa,
automazione-meccanica, agro-alimentare
9
. In questa prospettiva, tuttavia, se –
come le tendenze degli ultimi anni sembrano con tutta evidenza suggerire –
l’Italia deve recuperare, aggiornandola, la propria vocazione industriale, è
4
Quintieri, 2006 p. 11
5
Fortis-Curzio, 2006 p. 46
6
ibidem
7
Fortis, 2005a
8
Fortis-Curzio, 2006 p. 15
9
ibidem
7
inevitabile che tale processo di ridefinizione abbia inizio e si strutturi sul
sistema dei distretti industriali.
Dunque, l’intreccio di aspetti economici, socio-culturali e istituzionali nel
distretto rappresenta una forza produttiva e riproduttiva necessaria. Essi sono il
combustibile
10
dello sviluppo locale specifico, entro le grandi tendenze
dell’economia globalizzata.
2. La letteratura “classica” in tema di distretto
Un tempo si utilizzava il termine “distretto” per definire il territorio
sottoposto al dominio di una città
11
. In economia esso, affiancato dall’aggettivo
“industriale”, indica un’area in cui la produzione è retta dal “dominio” di uno
specifico settore produttivo - distretto del tessile (Biella), dello Sportsystem
(Montebelluna), dell’occhiale (Cadore), ecc. – che va a influire profondamente
sulla struttura economica e sui legami territoriali e sociali della zona, in
maniera tale che quello che vuole connotare il termine distretto è comunque la
specializzazione produttiva del territorio
12
. Non è qui mia intenzione affrontare
una rassegna critica della vastissima letteratura sui distretti, in quanto
trascenderebbe il senso e lo scopo di questo lavoro. Mi limiterò invece, ad
alcune considerazioni funzionali ai nostri obiettivi argomentativi.
Il concetto teorico di distretto industriale non sarebbe emerso
nell’elaborazione di Giacomo Becattini, di Sebastiano Brusco e poi di tanti
altri, senza l’osservazione di una realtà concreta
13
, senza il vivo calarsi di
questi studiosi nel tessuto economico che li circondava. Allo stesso modo,
l’originaria formulazione marshalliana di DI si nutrì dell’osservazione di
fenomeni ben vivi nell’Inghilterra del suo tempo. Dunque, i primi studi sul
tema dei DI possono farsi risalire ai lavori dell’economista inglese Alfred
10
Fortis-Curzio, 2006
11
Becattini, 1997.
12
Ibidem.
13
Cfr. Becattini, 1987b; Brusco, 1991.
8
Marshall che, influenzato dalle osservazioni di realtà quali i distretti tessili nel
Lancashire del Sud e metallurgici di Sheffield del diciannovesimo secolo, nei
primi anni venti del Novecento dedica una sezione del suo lavoro alle
“industrie specializzate concentrate in località particolari”
14
. Questi
approfondimenti di Marshall sul tema dei distretti compaiono nella sua:
Principles of Economics
15
, opera in cui il distretto industriale marshalliano
identifica una comunità composta prevalentemente da imprese di piccole
dimensioni, spazialmente concentrate, tecnologicamente avanzate e fortemente
orientate all’esportazione. Nell’originale formulazione marshalliana, il distretto
acquista interesse soprattutto dal punto di vista delle economie di
localizzazione che esso induce e del vantaggio competitivo che consente di
ottenere, in quanto la contiguità spaziale consente un più efficiente
coordinamento del complesso sistema di interdipendenze che caratterizza una
determinata filiera di produzione. La presenza di un gruppo di piccole imprese
su un territorio, tuttavia, non è naturalmente un elemento sufficiente ad
assicurare l’emergere di un distretto; gli elementi caratterizzanti sono:
• l’interdipendenza tra gli attori;
• una distribuzione delle specializzazioni di filiera,
• la sicurezza di continue transazioni che favoriscono la
trasmissione delle informazioni;
• la creazione di un patrimonio di conoscenza tacita;
• l’accumulazione di capitale sociale.
Tutti aspetti che potremo definire costituenti di quell’industrial
atmosphere
16
di cui parla proprio Marshall. Per atmosfera industriale si
intende, da un lato, la rapida diffusione e circolazione di informazioni e
conoscenze specifiche, che contribuiscono al vantaggio competitivo del
distretto e, dall’altro, lo spirito imprenditoriale che ragioni storiche e culturali
hanno contribuito a sedimentare nel distretto stesso. Si viene a creare, in altre
parole, una cultura di distretto, che agisce da elemento unificante e
14
Lipparini, 2002.
15
Marshall, 1920
16
Marshall, 1920.
9
catalizzatore del circolo virtuoso sviluppato dalle aziende e ne estende i
benefici all’intera comunità locale.
E’ soprattutto la rivisitazione delle idee marshalliane compiuta da
Giacomo Becattini
17
che ha permesso di focalizzarne appieno l’importanza e
l’originalità e di attualizzarne il senso e i contenuti. La lettura becattiniana, e il
filone di studi a cui ha dato origine
18
, riprendono i concetti marshalliani di
economie esterne e di distretto industriale, inteso come sistema di piccole
imprese e come area produttiva in cui i fattori di industrial atmosphere di
natura sociale e culturale sono determinanti: si arriva così alla concezione del
distretto industriale come entità locale caratterizzata dalla presenza di una
comunità socialmente coesa e di un’industria principale, costituita da un
numero elevato di piccole imprese indipendenti, specializzate in diverse fasi
dello stesso processo produttivo.
Da questa definizione risulta chiara l’importanza di distinguere il
distretto in quanto tale da una qualsiasi aggregazione di piccole imprese. Le
imprese interne ad un distretto traggono un consistente vantaggio
dall’atmosfera industriale di cui parlava Marshall e vivono in un tessuto
industriale con cui interagiscono densamente
19
. Il distretto e la comunità locale
si riflettono così quasi specularmente uno nell’altro, sono permeati dalla stessa
cultura e ciascuno alimenta l’altro.
Bellandi e Sforzi
20
ci fanno notare come l’insorgere dei singoli distretti
sia accompagnato dal convergere di consuetudini sedimentate nelle comunità
locali, dall’ insorgere di un sistema di divisione del lavoro tra le imprese
appartenenti al distretto, e dall’apprendimento diffuso localmente di
conoscenze mirate, che facilitano la riproduzione del lavoro con professionalità
specializzate.
Le consuetudini permettono una efficace governance sociale della
separazione tra le sfere di interesse collettivo e privato, e di far evolvere
17
Cfr Becattini, 1987, 1989, 1995-96, 1997, 1999, 2000.
18
Cfr Bellandi, 1995-96; Cozzi, 2000; Folloni-Gorla, 2000.
19
Alaimo, 2002.
20
Cfr Bellandi-Sforzi, 2001.
10
significativamente il distretto rispetto alle condizioni di partenza. Un ulteriore
elemento, sempre nelle parole di Bellandi, sottolinea che “l’apprendimento
diffuso localmente di conoscenze mirate è spesso una micro-creatività che
migliora costantemente attraverso un learning by doing le caratteristiche del
prodotto e del processo produttivo”
21
. Si viene così a creare un vantaggio
competitivo che favorisce remunerazioni crescenti per le risorse locali.
Casanova, Pellegrini e Romagnano mostrano in particolare come
l’atmosfera tipica del distretto favorisca la nascita di iniziative imprenditoriali
durature, lo sviluppo di un mercato del lavoro con professionalità adatte, e la
mobilità sociale
22
. Un ulteriore elemento peculiare del distretto è l’attitudine
all’innovazione, generata dal confronto tra professionalità diverse impegnate
nello stesso processo produttivo. Anche il confronto con la dimensione globale
dei mercati è importante perché genera uno scambio di conoscenze sempre più
finalizzato al mantenimento della capacità competitiva a livello di sistema
23
.
L’industrializzazione dei distretti favorisce inoltre una mobilità verticale,
una diffusione per contagio delle idee e l’insorgenza di effetti di emulazione (si
veda, per una analisi generale, Schlag
24
) nel lavoro che, per determinati generi
di prodotti, possono superare le performance di una singola impresa non
inserita in un modello distrettuale.
L’atmosfera tipica del distretto favorisce la nascita di iniziative
imprenditoriali durature, lo sviluppo di un mercato del lavoro segmentato e la
crescita dell’offerta di lavoratori specializzati, con salari più alti rispetto a
quelli dei lavoratori occupati da imprese non distrettuali, nonostante la
dimensione ridotta delle imprese che costituiscono il distretto. Il modello
risulta quindi auto-riproduttivo all’interno di un contesto territoriale limitato e
locale
25
.
21
Bellandi, 1995-96.
22
Casanova-Pellegrini-Romagnano, 2001.
23
Ibidem.
24
Cfr. Schlag, 1998.
25
Signorini, 2001.
11
Dei Ottati
26
osserva come la piccola impresa distrettuale dia luogo a
modalità di transazione molto diverse da quelle tipiche dell’impresa
verticalmente integrata. In primo luogo i problemi che possono scaturire dalle
transazioni sono affrontati in maniera diversa: nel distretto, infatti,
l’opportunismo è disincentivato e la contrattazione assume una dimensione
relazionale (si veda anche Sacco
27
), che permette alle imprese di difendersi
dall’incertezza e di esporsi maggiormente in termini di risposta competitiva
alle condizioni di mercato. Inoltre, la scomposizione per fasi del processo
produttivo elimina i costi di coordinamento e le inefficienze tipiche della
grande impresa; le relazioni tra gli attori economici sono più dirette e
personalizzate.
Il carattere bidirezionale e simmetrico dello scambio relazionale agisce
così da vero e proprio collante sociale e plasma un modello fondato su un
sottile dialogo tra la promozione di obiettivi di benessere individuali e
collettivi. Sono questi aspetti, insieme alla qualificazione professionale degli
addetti e al patrimonio culturale e istituzionale della collettività, a rendere le
imprese distrettuali non effimere, bensì competitive e dotate di capacità
riproduttiva
28
.
In una prospettiva analitica diversa, Michael Porter
29
ha dedicato molto
del suo lavoro di ricerca all’analisi del vantaggio competitivo localizzato. Egli
rileva, nella realtà distrettuale italiana, una capacità competitiva in alcuni casi
superiore rispetto a quella di economie basate sulla grande impresa.
Nella sua visione, infatti, lo sviluppo di un paese passa necessariamente
attraverso la nascita e lo sviluppo di forme distrettuali, da lui denominate
clusters
30
. Il percorso di sviluppo competitivo del cluster avviene attraverso tre
stadi (che egli denomina rispettivamente: Factor Driven; Investment Driven e
Innovation Driven): inizialmente, si favorisce lo sviluppo e la produttività delle
imprese e dell’industria già esistenti sul territorio; in seguito, acquista valore la
26
Dei Ottati, 1995.
27
Sacco, 2003.
28
Becattini, 1997.
29
Cfr. M. Porter, 1991, 1998.
30
Per l’approfondimento sui cluster si rimanda al par. 9.
12
capacità innovativa e con essa la dinamica della produttività delle imprese che
ne fanno parte
31
; infine, la forma distrettuale stimola nuovo business e sviluppo
all’interno e a favore del distretto stesso. Le fasi che caratterizzano lo sviluppo
economico dei clusters sono dunque:
1. Factor Driven, caratterizzata dalla possibilità di utilizzare mano
d’opera a basso costo e di accedere con facilità alle risorse naturali,
caratterizzate da una forte sensibilità ai cicli economici, all’andamento
dei prezzi, alle fluttuazioni dei tassi di cambio. In questa fase, le
imprese si limitano a produrre, le tecnologie sono importate o apprese
per imitazione, il flusso di investimenti è dovuto essenzialmente a
capitali esterni al sistema.
2. Investment Driven, focalizzata sulla produzione di beni e servizi
standard, con forti investimenti in infrastrutture, incentivi alle relazioni
con le amministrazioni locali e all’accesso al credito. I prodotti
cominciano ad essere più sofisticati, ma le tecnologie e il design sono
ancora esterni e vengono acquisiti attraverso licenze, joint ventures,
imitazione dei modelli di successo. In questa fase, un’economia è molto
sensibile alle crisi finanziarie e agli shock di domanda, interni ed
esterni.
3. Innovation Driven, in cui la principale risorsa che garantisce il
vantaggio competitivo (non diversamente, del resto, da quanto osserva
Becattini con specifico riferimento alla realtà distrettuale italiana
32
) è
rappresentata dalla capacità di produrre beni e servizi innovativi
attraverso l’uso di metodi e tecnologie avanzati. L’economia che si
trova in questa fase di sviluppo è meno permeabile agli shock che
caratterizzano le due fasi precedenti.
Il ragionamento di Porter tende ad enfatizzare più la dimensione della capacità
competitiva del cluster, rispetto alle sottigliezze della sua architettura interna e
31
In quanto l’opportunità di sviluppare tale capacità è agevolata all’interno del distretto
dall’esistenza di fonti locali di vantaggio competitivo (assets), conoscenze localizzate (skills) e
capitale.
32
Cfr Becattini, 1998.